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Sanità Lazio, Zingaretti va via: inizia la conta dei debiti

8 Ott

Potevano essere approvati 4 mesi fa i bilanci consuntivi della Sanità laziale, ma c’era in ballo la credibilità del “Campo Largo” di centrosinistra del duo Zingaretti (PD) – Lombardi (M5S).

Così è andata che solo ieri abbiamo scoperto che “sette aziende ospedaliere del Lazio l’anno scorso hanno accumulato perdite per quasi mezzo miliardo di euro” (Il Tempo) ed è solo la punta dell’iceberg.
Qualcosa di veramente incredibile, se si considera che nel 2021 i servizi (e la relativa spesa per prestazioni e consumi) erano calati “del 20,3% le prestazioni ambulatoriali e specialistiche; 2 milioni in meno di prestazioni indifferibili (-7%) rilevate dall’Istat; 1,3 milioni di ricoveri in meno (- 17%) denunciati dalla Corte dei Conti” (Sole24ore).

Nell’ordine, tra i sette “primatisti” dello sfondamento di bilancio abbiamo

  • Umberto I = 127 milioni di € (saranno 155 come da delibera apposita?)
  • San Camillo-Forlanini = 134 milioni
  • San Giovanni-Addolorata = 79 milioni di €
  • Sant’ Andrea = 49 milioni di €
  • Tor Vergata = 47 milioni di €
  • Ares = 31 milioni di €
  • Ifo-Regina Elena = 42 milioni di €
  • Poi c’è il resto, con debiti ad una cifra.

In questa follia regionale da mezzo miliardo di euro l’anno (almeno …), però, è possibile individuare dei fattori che possano indicarci una soluzione.

San Camillo-Forlanini e Umberto I sono dei policlinici come Sant’Andrea e Tor Vergata, ma sono esposti quasi del doppio.
La loro più vistosa differenza è nelle strutture: le prime vecchie oltre un secolo, le seconde costruite meno di 40 anni fa. Quanto costa la obsolescenza in termini di manutenzione, consumi e sprechi ? Ambedue i lotti erano cedibili, ma ci fu chi si oppose, ma oggi dobbiamo chiederci: con quelle perdite milionarie ogni anno quanti ospedali nuovi si costruiscono in dieci anni?

E se confrontiamo tutti e quattro i policlinici ‘pubblici’ in perdita sia tra di loro sia con il Gemelli e il Campus, come non notare che l’efficienza gestionale genera economie e qualità, come l’accettazione di solventi produce utili e sostiene l’eccellenza che servono a tutti?

Ares  è il servizio di soccorso e allarme sanitario in sede extra ospedaliera attivo in Italia e dunque è difficile comprendere come possa essere in rosso in alcune Regioni e per entità stratosferiche come nel Lazio.
A maggior ragione è poco comprensibile se Ares si basa quasi completamente sull’operato delle associazioni di volontariato, che forniscono i mezzi sanitari (ambulanza, automedica etc.) e il personale soccorritore, in convenzione con le locali centrali operative del 118. Associazioni che a loro volta possono percepire il 5xmille come fornire servizi di trasporto in ambulanza a privati.

Poi, c’è Ifo-Regina Elena con ‘soli’ 42 milioni di € di debito, che però sono un’enormità, considerate le dimensioni e soprattutto che si occupa solo e specificamente di dermatologia ed oncologia.
Infatti, a parte il potenziale originario della struttura rimasto inespresso già solo nel creare un parcheggio adeguato, l’aspetto disarmante è che queste due branche della medicina solitamente garantiscono utili aziendali, sia come cure palliative o estetiche sia come finanziamenti alla ricerca sia come gestione residenziale e solventi.

Nella sostanza, le voragini gestionali (e di bilancio) come quelle del San Camillo e Umberto I non si ristrutturano in un anno o due, come potrebbe avvenire per le altre strutture fortemente indebitate come Sant’Andrea e Tor Vergata, intervenendo sulla gestione del personale, sui contratti di prestazione e forniture esterni e sull’apertura a servizi pro soluto.

La domanda per i due policlinici centenari è un’altra: quanto si ricava a venderli tenuto conto del pregio architettonico, della logistica e della centralità e quanto costano due strutture equivalenti, moderne, funzionali, ergonomiche per sostituirli?


Come c’è la realtà degli Ifo, che avevano tutte le premesse per volare alto e diventare un polo attrattivo a livello internazionale, ma (come raccontano persino delle interrogazioni parlamentari di 20 anni fa) non c’è speranza finchè l’Ente preposto (la Regione) non interverrà sugli Statuti degli Irccs, ancora oggi modellati secondo la realtà esistente 40 anni fa.
Per gli Ifo è solo una questione di volontà politica, che evidentemente finora non c’è stata, non solo a Roma, ma per gli Irccs tutti che attendono una riforma dal Parlamento.

Risanare il debito regionale, sottoscrivendo un mutuo pesantissimo che ingessa bilanci ed organigrammi, ma in cambio lascia immutata lo status quo, … non porta agli stessi risultati positivi del lasciarsi anche l’ossigeno per poter ristrutturare o investire impedendo l’innovazione e lo sviluppo.
Quanto ad offrire servizi pro soluto anche nelle strutture pubbliche, oltre agli utili, c’è che sono il miglior antidoto per il degrado dei servizi ‘uguali per tutti’, ponendosi come termine di confronto internamente alla struttura ed attraendo eccellenze che servono a tutti gli assistiti.

Speriamo solo che la prossima Giunta regionale non abbia i soliti paraocchi.

A.G.

La quasi-bufala dei libri gratis nel Lazio

14 Set

La Regione Lazio annuncia sul proprio sito (link) di aver “presentato presso la sede della Giunta regionale il ‘FONDO RIMBORSO LIBRI SCOLASTICI’ una misura da 20 milioni di euro di sostegno economico alle famiglie del Lazio per contrastare l’aumento del costo dei libri di testo per l’anno accademico 2022/23”.

Iniziamo col dire che si tratta di ‘anno scolastico’, quello ‘accademico’ è dell’Università, giusto per fare un po’ di educazione civica, e che … l’anno scolastico è iniziato da 14 giorni e che – ad oggi – gli studenti dovrebbero aver già acquistato i libri che gli servono.
Intanto, la ‘misura da 20 milioni’ è ancora in Giunta, neanche in Gazzetta Ufficiale.

Ma il ‘FONDO RIMBORSO LIBRI SCOLASTICI’ è farina del sacco della Regione Lazio?
No, norme e soldi sono dello Stato.

Infatti, è lo Stato (ed il Governo) che garantiscono e provvedono alla “gratuità, totale o parziale, dei libri di testo in favore degli alunni che adempiono l’obbligo scolastico”, che attualmente è esteso fino alla seconda classe superiore.

Ed è dal 23 dicembre 1998 – mica ieri – le istituzioni scolastiche possono promuovere servizi di comodato d’uso gratuito per la fornitura di libri di testo e di dispositivi digitali per le studentesse e gli studenti, stipulando specifiche convenzioni in accordo con gli enti locali” e le biblioteche potrebbero provvedere “alla fornitura di libri di testo da dare anche in comodato agli studenti della scuola secondaria superiore”.

Va bene, la Regione Lazio ha dimenticato di ringraziare lo Stato per i soldi che spende, tutto qui?

No, c’è anche che l’accesso ai rimborsi per il diritto all’Istruzione è esteso agli studenti con un “indicatore ISEE in corso di validità del nucleo familiare non superiore a 30.000,00 euro”, cioè ben sopra la “soglia di povertà o “a probabile rischio”.
Viceversa, la Regione Lombardia  “mette a disposizione buoni per un valore da 200 a 500 euro per l’acquisto di libri di testo, dotazioni tecnologiche e strumenti per la didattica … a studenti residenti che non abbiano compiuto 21 anni con un ISEE non superiore a 15.748,78 euro”. Stesso tetto Isee in Toscana, un po’ più basso in Veneto e – addirittura – in Campania.

Ovviamente, non sappiamo perché la Regione Lazio voglia ampliare il tetto dei beneficiati al doppio o triplo delle altre regioni nè perché – facendo questo – vada a dimezzare la somma che toccherà a chi è in povertà o a rischio.

Ovviamente, le altre regioni – a differenza del Lazio – menzionano che i rimborsi hanno origine dal Decreto del Presidente della Repubblica  D.P.R. n. 445/2000, ma il dolce (amaro) viene alla fine.

Dicevamo delle scuole già iniziate e degli studenti che già dovrebbero avere corredo e libri.
Beh, mentre nel Lazio ad oggi la proposta è in Giunta, in Lombardia la delibera regionale per spendere le somme stanziate dallo Stato … risale al 22 maggio e in Campania al 7 luglio.

Insomma, la politica degli ‘annunci spot’ quante bufale si porta dietro, se un ritardo appare come una conquista e se un ampliamento in realtà è una riduzione?
La domanda è: pensate che la delibera laziale ancora in Giunta da approvare sia un esempio di buona amministrazione?

A.G.


Operazione ‘Trasparenza: non promettere l’impossibile

5 Ago

La trasparenza comunemente viene vista come una prassi, ma è errato: nella società industriale di massa (e oggi digitale) la trasparenza è un risultato.

Non un ‘comportamento’, ma uno ‘stile’ che viene da più ‘comportamenti’ coesi.

Perché?

Per via della ‘complessità’ e della ‘velocità’, che rendono opaca anche la luce del sole agli occhi dei ‘semplici’ o dei ‘semplificatori’ (che non intravedono prospettive, opportunità e rischi secondari) e dei ‘lenti’ o dei ‘pensatori’ (che non partecipano in tempo reale al ‘processo di cambiamento’, cioè qualsiasi attività finalizzata ad uno scopo).

Questa nozione ebbe una certa diffusione con il Governo Monti ed il suo tentativo di convincere i partiti ad avere una ‘spending review’: fu allora che scoprimmo che la ‘trasparenza’ non è creare una sala dove discutere dei ‘panni’ stesi al sole man mano che arrivano, tutti ed indifferenziatamente, bensì programmare modi e tempi con cui i ‘panni’ distinti per colore e taglia vengono esposti.

Dunque, quando si parla di ‘trasparenza’, si parla di amministrazioni che tutte ed entro i termini compilano i form on line richiesti dalle istituzioni finanziatrici o controllore e pubblicano quando dovuto all’utenza interessata.
Ma … possono farlo solo se sono al passo con la previsione /programmazione e con il rendiconto /risultato di spese, servizi, organigrammi, funzioni, risultati, economie eccetera.

Detto questo, è abbastanza chiaro dove siano le resistenze che hanno fatto cadere tutti gli economisti che in questi anni hanno tentato di intervenire: Amato, Dini, Prodi, Tremonti, Bassanini, Padoa Sforza, Monti e Draghi , ma c’è dell’altro.

Facciamo conto che il Parlamento approvi in soli 12 mesi le riforme profonde che servono ad amministrare nel III Millennio una comunità di 60 milioni di persone: parliamo della Funzione Pubblica, della formazione degli Atti digitali, del sistema di revisione dei Bilanci e … dell’interesse nazionale superiore anche nel caso dei servizi in competenza a Comuni e Regioni.

A seguire, vanno emanati i regolamenti attuativi di competenza di una 40ina tra ministeri e regioni, cioè mezzo migliaio di direzioni generali e relative contrattazioni sindacali.
Ed arrivati al tal punto, cioè dopo forse altri 12 mesi o forse di più, ha inizio il tutto, ma solo dopo l’acquisizione dei dati che servono per quantificare /distribuire le risorse … e sono trascorsi altri 6 mesi, forse dodici.

Arrivati al quarto anno di legislatura (ma potrebbe essere anche già trascorso il quinto …) la programmazione e la ‘trasparenza’ iniziano a procedere nella direzione voluta dal Parlamento 3-5-8 anni prima, ma a condizione … che sia rieletta la stessa identica coalizione che aveva legiferato e stanziato.
Altrimenti, si cambia tot o tutto, che intanto passano altri 3-5-8 anni, … sempre che non ci si fermi per qualche ripensamento.

Dunque, è già molto ambizioso sperare di riformare in 5 anni la formazione degli Atti digitali, il sistema di revisione dei Bilanci e soprattutto riportare all’interesse nazionale i servizi in competenza a Comuni e Regioni. La Funzione Pubblica e la Spending Review?
… toccherà ad un altro governo l’arduo compito di contrattare con i sindacati un radicale cambiamento nel settore pubblico, introducendo – ad esempio – dei tempi di lavorazione uniformi e delle premialità aderenti ai risultati, cioè bonificando le carenze.

A.G.

Conte distruggerà il PD, non Draghi

15 Lug

Oggi, alla Camera il Centro conta circa 206 onorevoli, seguito dalla Destra con 168, poi la Sinistra con 123 ed infine i Cinque Stelle con forse 128 seggi più 14 deputati non allineati.
Uno più o uno meno, ma questa è la realtà.

E’ accaduto che l’ascesa di Giuseppe Conte ha comportato l’esodo di quasi la metà dei deputati a Cinque Stelle verso posizioni più moderate e costruttive.
Ma la stessa ascesa di Conte ha messo in luce la profonda sudditanza populista del PD, sempre supino verso le spinte dal basso, CGIL inclusa.

Intanto, i Media hanno continuato a ridicolizzare Berlusconi, Di Maio e Renzi, come se fosse un bene alimentare gli ‘opposti estremismi’, dimenticando la loro affermazione.

Come se Mario Draghi non avesse la maggioranza alla Camera anche senza PD e Cinque Stelle.

Ma, dopo l’outing di Giuseppe Conte – ormai chiaramente un uomo di rottura e non di governo – il Partito Democratico che ormai appare sempre più come una riedizione del vecchio Compromesso Storico DC-PCI – bianco fuori e rosso dentro – con i notabili per le poltrone e i tribuni per le piazze, modernista di facciata, ma conservatore per natura.

Dunque, la domanda è: dopo aver avallato Giuseppe Conte e i Cinque Stelle, esitando o borbottando addirittura se c’è da ‘cambiare’ almeno per attingere al PNRR … il Partito Democratico è ancora considerato affidabile da chi nel mondo crede e spera nell’Italia?
Il PD è una forza politica moderata e riformista, in grado di opporsi alle derive populiste o estremiste?

Demata

Più debiti? Più voti. Forse

13 Lug

Morale della favola: il Partito del “NO a Draghi” sta ottenendo un ulteriore indebitamento dell’Italia senza il Partito del “SI a Draghi” sia riuscito a convincere i Capibastone regionali a collaborare per attingere al PNRR.

Questo è il risultato, se Salvini indebolisce il Governo con la scusa dello Ius Scholae e della Cannabis, sperando di recuperare consensi a Destra.
Lo stesso accade, se Meloni esalta le III medie, che porta voti ma non soluzioni, dato che per attingere al PNRR e per risollevare l’Italia serve formazione tecnica superiore.

E figuriamoci poi se c’è Landini che sbraita contro le diseguaglianze e non chiede investimenti ma ancora più Debito pubblico, cioè quello che crea povertà.

Fino a Conte con i Cinque Stelle che lottano per la sopravvivenza, visto che sotto la sua leadership sono passati da oltre il 30% dei voti a meno del 10%, tenuto conto dell’esodo di Di Maio.

Ma questo è il risultato che arriva, se prima Zingaretti e poi Letta si illudono di avere un alleato nei Cinque Stelle, piuttosto che una mina vagante. E se il Centrodestra continua a raccattare il voto di protesta ma non quello ‘moderato’, cioè di governo. O, comunque, se le elezioni si vincono per opposta fazione anziché santa ragione.

I Media e i Social dovrebbero fare la differenza ed aiutarci a cooperare per il bene dell’Italia, ma … loro campano di pubblicità e lo share arriva da chi litiga, mica da chi ha qualcos’altro da fare.

Quanto ai Capibastone, cioè la scarsa voglia di cambiare per attingere al PNRR, non c’è nulla da fare.
Grazie del Partito del NO e pure quello del SI, ma anche grazie a Social e Media, le Regioni (certe regioni specialmente) sono inadempienti per Sanità, Diritto allo Studio e Infrastrutture, rigettando le proprie incapacità progettuali /gestionali sui ‘tagli’ attuati dai Governi.

Meglio i debiti, se portano consenso o no?

Demata

Elezioni comunali 2022: il Centrosinistra non c’è più?

13 Giu

La debacle del Centrosinistra sembra essere certificata già dagli Exit Polls, che mostrano divari evidenti in tutte i maggiori comuni.

Se il voto delle comunali nelle aree metropolitane (Roma, Torino, Napoli, Milano) era stato condizionato dai NoVaX + Forza Nuova a favore del conglomerato PD+M5S+CGIL+Onlus, l’Italia di provincia va a votare in un clima completamente diverso, cioè ben consapevole dei danni causati dal Governo Conte-Zingaretti.

L’Italia di provincia, quella che produce anche per chi in città non lavora e chiede sussidi, quella che aspetta sveglia che i figli tornino dalla movida che alimenta il business delle città, quella che vuole vivere nel decoro e senza tutto quel crimine – ben organizzato – che ormai degrada le città.

Un Italia che rabbrividisce ogni volta che il Centrosinistra spende la sua lacrimuccia per il diseredato di turno, per sostenere … l’associazione o l’ente che – poi – se ne prenderà più o meno cura.

L’Italia degli italiani che ben hanno compreso il rischio di restar tagliati fuori dal Digital Divide e temono che per l’ennesima volta si spenda e spanda per ‘progetti’ senza lasciare infrastrutture, visto cosa hanno già combinato nelle città metropolitane, creando un esercito di poveri e di gaudenti.

A.G.

Mascherine e alunni: chi paga?

28 Dic

Perchè lo Stato paga le mascherine ai docenti e non agli alunni, come lamentano tanti diretti interessati sui Social e sui siti specializzati?

Semplice: la salute dei docenti è di competenza dello Stato, che è tenuto a provvedere in quanto datore di lavoro.

Invece, la salute degli alunni è di competenza delle Regioni, esclusiva secondo la Costituzione (Art. 117), “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.” Solo nel caso degli alunni del Triennio tecnico la Scuola – cioè lo Stato – dovrebbero provvedere al fabbisogno di mascherine, essendo equiparati di norma a ‘lavoratori’, con tanto di copertura Inail.

Ma le Regioni ci raccontano sempre che i soldi sono pochi, come se noi non ricordassimo che è dall’anno 2001, che le regioni a statuto ordinario godono della compartecipazione al gettito erariale dell’IVA, attingendo ‘direttamente’ dalle risorse nazionali per i pregressi (e delimitati) trasferimenti del servizio sanitario regionale e del diritto allo studio.

In realtà, alcune regioni investirono meritevolmente, altre spesero in modo disastroso, come mostra questo grafico pubblicato dal Corriere della Sera nel 2010.

E oggi non basta l’IVA più l’Irperf e tanto altro ancora.

Le regioni che dieci anni fa arrivarono ad un debito esorbitante, lo hanno solo consolidato in mutui/debiti bancari, ma non risanato.
In altre parole, le onerose rate – che dureranno un decennio o due – erodono (e azzerano in alcuni casi) la disponibilità di spesa corrente di Enti che non esistono solo per pagare stipendi e forniture, ma innanzitutto per erogare prestazioni di qualità almeno sufficiente.

A partire dalle mascherine, che … paga Pantalone: le manda l’Esercito.

Demata

Covid: il 30-40 per cento della popolazione è a rischio?

9 Nov

fonti: Bild Live News Moody’s

Stanotte, in Germania, il ministro federale della Sanità Jens Spahn ha annunciato che se si va per definizione, il 30-40 per cento della popolazione è a rischio per il Covid.
Abbiamo 23 milioni di tedeschi sopra i 60 anni”, ha dichiarato il politico della CDU su “Bild live”. “Siamo un paese prospero che soffre delle malattie della civiltà: diabete, ipertensione, obesità. Tutti i fattori di rischio per questo virus, così come per molte malattie infettive.

Quando si dice ‘parlare chiaro’.
La Repubblica Federale tedesca è il paese più anziano del mondo dopo il Giappone e l’Italia.
Anche Portogallo, Francia, Grecia, Svezia, Finlandia, Olanda, Belgio rientrano tra i così detti paesi ‘super-aged’ (>20% della popolazione over65enne).

Una maggiore percentuale di persone anziane significa – in teoria, se la Società è sana – meno persone che lavorano per saziare consumi effimeri e più persone che spendono per consumi in cure sanitarie e assistenza di vario tipo. Questo è il ‘segreto’ che ha tenuto Germania e Giappone al riparo da una situazione endemica come – viceversa – in Italia.

Nel 2014, Moody’s pubblicava il rapporto demografico “Population Aging Will Dampen Economic Growth over the Next Two Decades”, preannunciando questi numeri di oggi, il 2020.
Moody’s, sei anni fa, avvertiva che le  nazioni che stavano invecchiando di più dovevano investire maggiori quantità di denaro nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie, utili per rendere più produttivi i lavoratori e per evitare il trasferimento all’estero delle attività industriali.
Non solo l’innalzamento dell’età per andare in pensione e l’immigrazione di giovani da paesi economicamente più svantaggiati.

Dunque, a differenza della Germania, l’Italia non solo offre molto meno in termini di sanità ed assistenza a chi si ammala o diventa anziano, mentre rinvia l’accesso pensionistico ma non l’invecchiamento e le malattie.
L’Italia, finora, non ha sviluppato politiche per i giovani investendo nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie, come non ha sviluppato politiche per la famiglia e per i risparmiatori, preferendo sostenere il sistema dell’intrattenimento e dei consumi effimeri.

Non è un caso che governo, governatori e sindaci siano in difficoltà: sussidiare ed agevolare chi li ha votati, illudendosi che ‘tutto ritornerà come prima’, oppure ordinare ed intervenire, per ‘evitare che domani sia peggio di oggi’?

Demata

Toti, Bernabei e gli anziani: tre domande

6 Nov

Il Governatore Toti non ha considerato che, solo come pensioni, gli italiani anziani o invalidi producono oltre 300 miliardi di euro di PIL annuale.


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La produttività degli anziani: siamo il paese dove quasi 20 milioni di anziani e invalidi non hanno nè percorsi nè servizi domiciliari, ma solo prestazioni regionali ‘universali’ e sottobanco allungano 50 euro per volta a chi gli fa la spesa o le punture o qualche commissione, sempre che non ci siano 3-500 euro da spendere per il consulto in intramoenia o diverse migliaia per i congiunti più giovani e meno produttivi
E senza parlare dei malati fragili over55 incastrati nel lavoro, mentre cercano di non aggravarsi troppo, grazie a leggi che hanno trasformato il pensionamento in una corsa ad ostacoli.

Proprio riguardo gli anziani e dei lavoratori con malattie croniche a contatto con mille persone arrivano le affermazioni del prof. Roberto Bernabei, primario di Geriatria del Policlinico Gemelli di Roma e membro del CTS, che a Piazza Pulita riguardo il Covid precisava: “Se questa malattia fucila i vecchi è una cosa molto grave, naturalmente. Però è, come dire, una malattia normale… Le malattie infettive purtroppo aggrediscono i più fragili”.

Una malattia infettiva tra le tante che normalmente uccidono tanti anziani e malati fragili, se la nostra società non è organizzata per tutelarli, insomma.

Una società – dunque – che potrebbe non bloccarsi per la pandemia da Coronavirus, se fosse effettivamente strutturata per tutelare alcuni diritti di tutti, quando diventiamo anziani o invalidi.
Un sistema dove partite iva e lavoro dipendente trovano un reddito stabile anche durante una crisi, se quei 300 miliardi di pensioni fossero spesi per gli anziani e dagli anziani.

Se in Italia gli anziani e gli invalidi ‘spendono’ oltre 300 miliardi di consumi – e tale è l’entità reale – resta davvero oscuro come mai non è possibile garantirgli sanità, previdenza e assistenza adeguate e come mai questa enorme somma non alimenta lavoro ed impresa per i servizi alla persona e l’artigianato?

Relegando in casa gli anziani e i malati fragili, come si pensa di adeguare i servizi regionali sanitari e assistenziali? E che consumi deriverebbero da quei 300 miliardi di euro che ‘producono’?

Senza le Casse, Mutue, Residenze eccetera che il sistema ‘universale, ma regionale’ ha fagocitato a partire dal 1974, quale infrastruttura di , Servizi alla persona può mai offrire l’Italia per tutti noi quando invecchiamo o ci ammaliamo cronicamente?

Demata

Il Lockdown della Politica

2 Nov

Fin dai primi giorni della pandemia da Covid-19, il governo nazionale come i governatori regionali ed i leader di partito sono Federalisti quando le cose migliorano e Centralisti quando peggiorano.

Questo è uno dei fattori che maggiormente confonde i cittadini: divide et impera non è la migliore scelta quando – viceversa – serve coesione e condivisione.

Gli altri fattori che generano insicurezza sono noti:
la ridda di ‘opinioni’ tra loro divergenti diffuse da media, istituzioni ed esperti, che – addirittura – ancora oggi fanno aleggiare il dubbio che mascherine e distanziamento siano poco utili
la preoccupazione per un sistema sanitario e assicurativo ‘universali’ da troppi anni nelle mani dei Consigli Regionali, che hanno proceduto a tagli irragionevoli delle prestazione pur di salvare strutture e offerte obsolete
la spesa pubblica corrente che – per le inerzie e per gli sprechi – lascerà l’Italia e gli italiani in ginocchio, visto lo stallo in cui vivono scuole, partite iva, lavoratori in nero, esercenti, professionisti, artigiani, senza prospettive di un adeguamento o di una riconversione
i leader di partito e i governatori regionali, che stentano a prendere atto che il Covid colpisce tutta la nostra società – anche quella a basso rischio Covid – a causa delle carenze della Sanità, della Previdenza e dell’Assistenza, della Mobilità e dei Trasporti locali, dell’Edilizia scolastica e dell’agibilità dei locali pubblici in generale.

In altre parole, è fallito il progetto politico federalista (e consociativo) che avrebbe dovuto superare la struttura profondamente statalista (ed obsoleta già trent’anni fa) dell’amministrazione pubblica italiana, semplificando il peso ed il costo dei servizi e rendendo Regioni e Comuni più responsabili ed efficienti.

Ce ne è per tutti, dalla Lega che non fa mea culpa, anche se sono solo il Veneto e l’Emilia Romagna ad dimostrare certe capacità amministrative, al PD e FI che non vogliono riconoscere che troppi sono stati i Comuni travolti in questi venti anni da scandali e dissesti o, peggio, mafia, fino ai Cinque Stelle che – finora – non hanno espresso ministri o sindaci o esperti che abbiano poi riscosso particolari risultati, anzi.

Quanto alla Salute degli italiani, sappiamo tutti che fu un errore – tra il 1995 e il 2001 – voler derubricare l’art. 38 della Costituzione, per affidare alle Regioni e alla politica locale quel capillare servizio sanitario-assistenziale territoriale che prima era delle Casse e Mutue dei lavoratori.
E, grazie ad un Servizio Sanitario Nazionale privo di poteri sulle Regioni, ormai sono anni che le eccellenze mediche universitarie sopperiscono persino ai compiti prima svolti dall’Istituto Nazionale Assistenza Medica, mentre le principali garanzie enunciate dalla norma statale restano lettera morta.

Servizio sanitario-assistenziale territoriale ed eccellenze mediche universitarie: proprio quel che ci servirebbe per fronteggiare la pandemia e per non fermare il Paese.

Eppure, bastava e basterebbe che il Parlamento sostituisca una sola parola nella nostra Costituzione, all’art. 117, dove è scritto: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Basterebbe sostituire quel “salvo che per” con previa la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”, cioè al Parlamento. E c’erano tanti mesi per farlo.

Demata