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Cambiare la Scuola per salvare il Pil (e l’Ambiente)

5 Dic

(tempo di lettura: 5-7 minuti)

In Italia il fabbisogno di energia elettrica lordo annuo è nell’ordine di 330mila GWh (“gigawattora”), che attualmente arrivano da:

  • 150 mila Gwh = centrali idroelettriche, eoliche, fotovoltaiche, a biomassa
  • 85mila Gwh = centrali a gas naturale acquistato in Russia, Algeria e Libia
  • 35mila Gwh = centrali a carbone acquistato in Russia
  • 24mila Gwh = acquistati dalla Svizzera
  • 16mila Gwh = acquistati dalla Francia
  • 10mila Gwh = centrali a petrolio acquistato in Libia
  • 5mila Gwh = acquistati da Austria e Croazia.

Dunque, oltre a 60mila Gwh da Svizzera, Francia eccetera, l’Italia acquista anche 21 miliardi di metri cubi di gas per produrre energia elettrica, oltre ai 31 miliardi di metri cubi che vanno acquistati per consentire a 24 milioni di famiglie di cucinare, lavare e riscaldarsi. E non solo: la produzione nazionale di gas, infatti, copre poco più della metà dei soli così detti “fabbisogni industriali”.

In altre parole, tra materie prime ed energia elettrica ‘già pronta’, l’Italia importa il 77% del suo fabbisogno energetico, equivalente a più di 2 tonnellate di petrolio per ciascun abitante ogni anno.

In termini di saldo negativo, la spesa annua italiana per l’energia è di:

  • petrolio e derivati = 28 miliardi €
  • gas naturale = 12 miliardi €
  • energia elettrica = 1,8 miliardi €
  • carbone = 1 miliardo €

In totale si tratta di 43 miliardi di euro che spendiamo all’estero ogni anno e che non producono occupazione né crescita in Italia.

Il punto è che ogni tre anni il debito pubblico italiano si affonda di altri 2-300 miliardi: viene spontaneo chiedersi se questo non dipenda ‘direttamente’ dal buco di 120 miliardi di euro in energia ogni tre anni, che – se speso in casa nostra – certamente produrrebbe un volume di Pil almeno raddoppiato o triplicato, cioè andremmo ad invertire la tendenza dell’indebitamento.

Specialmente se, a guardare i grafici, è dalla crisi del petrolio degli Anni ’70 che il debito italiano ha preso questo andamento, nonostante si cerchi di consumare sempre di meno.

Questa constatazione mette in luce un altro aspetto dell’Italia: per cambiare le cose nel corso degli ultimi 10 anni avremmo potuto impiantare turbine eoliche da 2.5-3 MW, pannelli fotovoltaici da 500 W e centrali a biomassa , almeno per eliminare le centrali a carbone e petrolio che pesano non solo sulla spesa ma anche sul bilancio delle emissioni.

Infatti,

  1. la Germania entro 10 anni conta di arrivare a produrre 10mila Gwh l’anno con le centrali eoliche offshore con soli 2.000 km di coste e non vi è motivo per cui non possa anche l’Italia che ne ha oltre 8.000 chilometri oltre ad un profilo montano lungo quasi 2.000 km
  2. non dovrebbe essere difficile produrre ben oltre i 10mila Gwh con una media di 3 pannelli fotovoltaici per ognuno dei 14 milioni di edifici censiti da Istat
  3. una centrale elettrica a biomassa da 100 kW (es. Colleferro – RM) produce 0,5 Gwh l’anno, smaltendo 1.050 tonnellate di biomassa ogni anno, tante quante i rifiuti organici differenziati che oggi riusciamo a raccogliere da 10mila abitanti

Cosa servirebbe per riportare in Italia 40 miliardi di euro in spesa energetica per “reinvestirla” affinché produca innovazione, industria, occupazione e reddito?

Qui viene in luce il secondo aspetto dell’Italia che è causa non solo di un gap tecnologico ed energetico diffuso, ma soprattutto di indebitamento, degrado e declino: le ormai scarse istruzione e formazione superiori – soprattutto scientifica – degli italiani.

Una dimensione ‘culturale’, una ‘mentalità’, che incide a vari livelli:

  1. popolare e tecnico, dove i non diplomati sono troppi,
  2. manageriale e decisionale, dove le competenze STEM sono rare,
  3. commerciale e finanziario, dove si preferisce la rendita all’investimento
  4. sociale, dato che così è impossibile sostenere i consumi di una nazione avanzata, mentre sono sempre di più quelli che restano indietro.

A dire il vero, di cause del disastro finanziario, tecnico-produttivo ed occupazionale dell’Italia ce ne sarebbe un’altra, prettamente politica, dato che è impossibile:

  • investire in energia, se gli Enti locali e territoriali si disinteressano
  • istruire maggiormente la popolazione, se la Scuola e l’Università mancano di uniformità e meritocrazia
  • dotarsi di una mentalità coesiva e pro-attiva, se i Media pubblici diventano un vettore commerciale e propagandistico.

Difficile credere che la maggioranza degli italiani decida di fare un passo indietro per affidarsi a quella che ormai è una minoranza, ma il senso di responsabilità verso le future generazioni potrebbe smuovere molte coscienze spingendole a rinnegare i tanti complottismi e negazionismi del Novecento, che affliggono l’Umanità da oltre 100 anni.

L’unica cosa certa è che se domattina l’Italia avviasse un piano per uscire dal gap e dall’indebitamento energetico, alla società (enti, media, università e scuola) serviranno non meno di 3-5 anni per ottenere amministratori, professionisti, maestranze e utilizzatori adeguatamente formati.

Dunque, l’importante è iniziare.

Dove?

Dalle scuole, in cui lo Stato ha ancora poteri decisivi, dove crescono le nuove generazioni e dove da molti anni si registrano carenze di istruzione tecnica-scientifica di base e di meritocrazia nell’avanzamento degli studi, anzi addirittura difficoltà diffuse ad assicurare per le diverse discipline il numero di ore minimo, che consentirebbe il riconoscimento del titolo da parte di altri stati UE e non.

Come?

Ritornando a formare annualmente i docenti riguardo i programmi, la didattica e la valutazione ed a valutare periodicamente gli alunni in base a delle prove di esame uguali per tutti con commissari diversi dai docenti della classe.

Perchè?

Perché l’apprendimento è sociale ed è incentrato sul processo di imitazione e perché necessita di un sistema di memoria strutturato e della abitudine di rivedere il proprio modo di pensare.
E i numeri dell’ultimo decennio sono decisamente al ribasso.

Tra Ambiente, Energia, Import-Export, Debito, Istruzione e (dis)Occupazione bisogna fare delle scelte: vogliamo ritornare al Bel Paese investendo sulle sue qualità oppure c’è solo da rassegnarsi al declino culturale pur di ‘valorizzare’ diseguaglianze?

A.G.
N.B. tutte le cifre sono arrotondate e variano in base ai consumi annui effettivi

Ecco come il Meridione divenne povero

5 Dic

(tempo di lettura 2-3 minuti)

Quando lo Stato italiano prese Roma arrivò anche l’ora di saldare gli enormi debiti contratti dai Savoia in quarant’anni per conquistare un territorio grande dieci volte il Piemonte.

Un problema risolto con l’introduzione della cartamoneta, tramite la quale lo Stato italiano obbligò tutti i cittadini a riconsegnare la moneta metallica.

Le somme raccolte nelle Due Sicilie equivalsero a circa 10 volte quelle versate nel resto d’Italia, oltre 440 milioni di Lire in oro, ma al cambio imposto con Regio Decreto Sabaudo del 17 luglio 1861, n. 452.

In pratica, i Ducati partenopei avevano un tenore molto più elevato della Lira sabaudo-italiana: 19,9 grammi di oro fino rispetto a soli 4,5 con un rapporto di cambio interno fissato a 4,25.

Ma dal 1859 al 1862, quando le varie valute preunitarie vennero sostituite dalla Lira di carta, il prezzi internazionali dell’oro e dell’argento erano mutati e quando i cittadini duosiciliani andarono a cambiare i propri averi, il rapporto lira / ducato era di 4,577 (+10%).

A questa enorme massa d’oro convertita senza l’aggiornamento dei valori metallici si aggiunsero altrettanto enormi quantità di argento e rame, derivanti dai Mezzi Ducati e le Mezze Piastre d’argento, oltre che dai Tarì, i Carlini, i Tornesi.

Una spoliazione del Meridione e dei meridionali, già privati della flotta e delle miniere, se dal Sud arrivarono i 9/10 del patrimonio mobiliare italiano originario, purtroppo, utilizzati in larga parte non per far nascere una Nazione, ma per saldare i creditori (esteri e non) per i tanti debiti contratti dalla corrotta corte sabauda.

Cifre eclatanti, visto che 2.000 tonnellate sono pari a 70,5 milioni di once d’oro.
Una quantità di oro enorme, che se fosse stata requisita nel 1947 sarebbe equivalsa a migliaia di miliardi di euro odierni, secondo l’Istat in termini di rivalutazione finanziaria: figuriamoci quanto doveva valere nel 1861 il patrimonio dei cittadini meridionali.

Verrebbe da credere – ricordando chi erano i creditori dei Savoia e dove avevano i loro interessi – che una discreta fetta dell’industrializzazione esplosa a Lione e Detroit in quegli anni … sia stata ‘finanziata’ con l’oro delle Due Sicile.

Fu un caso che il socialista napoletano Arturo Labriola sostenne che i grandi capitali non hanno origine dallo sfruttamento quanto dalle spoliazioni?

Leggi anche dal Sole24Ore ‘Gli eurobond che fecero l’Unità d’Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania

Demata

Servizio Sanitario: conoscere per capire

2 Mag
(tempo di lettura 4-5 minuti)

Se verifichiamo i passaggi normativi riguardo la Salute, troviamo in Costituzione DUE articoli e non uno.
Infatti, fino alla Crisi del Petrolio di quasi 50 anni fa, avevamo l’Istituto Nazionale Assistenza Medica per l’art. 32 e la Mutue dei vari ordini e comparti di lavoro per l’art. 38.

art 32

Poi, nel 1974, mentre esplodeva il costo del petrolio e crollavano la Lira, la Sovranità e il Bengodi italiani, molte Mutue fallirono e le Regioni vennero preposte temporaneamente al Servizio Sanitario.

Che le intenzioni non fossero delle migliori fu chiaro fin dall’inizio: l’idea era quella di assorbire anche le Mutue sane (leggasi ENPAS, con milioni di dipendenti pubblici), onde compensare l’incapienza finanziaria di quelle dei settori sociali incontribuenti.
Ma andò peggio, dato che la storia d’Italia degli Anni ’80 fu un continuo rinnovarsi di bilanci sanitari regionali finiti in tribunale (Corte dei Conti Regionale – CoReCo), fino al crollo della Lira (… un’altra volta) del 1994.

E fu in quegli anni che l’articolo 38 della Costituzione venne del tutto accantonato per passare alla “Sanità Universale”, estendendo ai non contribuenti quello che già il lavoratori si garantivano versando il 9,9% del reddito.

art 38

Letto cosa prevede l’art. 38 e che non c’è più da due generazioni, eccetto per le elite che hanno conservato le Mutue, è evidente che la Sanità Universale consisteva in una ‘spalmatura solidale’ delle risorse, una ‘redistribuzione’ in cui i “lavoratori ai sensi dell’art. 38” provvedevano anche ai “non lavoratori ai sensi dell’art. 32”.
Sarà per questo che sanità e pensioni sono un colabrodo?

Per i nostri ottimisti padri della II Repubblica, l’ipotesi era ‘anglosassone’ con lo Stato controllore, le Regioni amministratrici e le aziende erogatrici: così iniziammo.

Poi, la riforma del Titolo V della Costituzione in cui

  1. lo Stato abdicava ai propri poteri,
  2. le Regioni potevano proseguire con la burocrazia malasanitaria e sprecona condannata ai tempi dei CoReCo,
  3. i CoReCo nel frattempo erano stati depotenziati, 
  4. le ‘Aziende’ (ASL) restavano dei nani ambulatoriali e dei giganti burocratici
  5. le Facoltà Mediche assurgevano ad Enti Territoriali diventando conglomerati di servizi cheap, ricoveri ordinari, pronti soccorsi eccetera, cioè si trasformavano in ‘aziende’, ‘posti di lavoro’ e ‘appalti’.

Arrivati alla terza crisi finanziaria nazionale in cinquant’anni (non dimentichiamolo), l’Italia del III Millennio dovette tirare la cinghia e scegliere se cambiare o mantenere l’esistente.
Era iniziata già anni prima della batosta, con la ‘brillante’ soluzione di mantenere l’esistente (e gli sprechi) con i ‘nostri soldi’ e cambiare, usando i soldi dell’Europa (progetti) … peccato che questi denari erano per il sociale, per la formazione, per l’innovazione, per le reti sociali ma non per la Sanità, intanto divenuta ‘sociosanitaria’ … guarda caso.
Sanità obsoleta e Welfare a progetto: è anche questo il lascito di chi governava le Regioni venti anni fa.

Dicevamo della batosta: anno domini 2010.
Anche stavolta c’era da cambiare o mantenere: tagliare rami morti, innestando quelli nuovi. Furono tagliati i rami deboli, non quelli morti, e di nuovo si è visto poco, perchè le ASL restavano depotenziate e, con loro, i Livelli Essenziali di Assistenza per le malattie croniche e quelle rare.

Un diluvio di scelte regionali molto discutibili, tra cui quelle che ‘paghiamo’ oggi:

  1. derubricare a livello ambulatoriale non significa tagliare i ricoveri per i casi acuti
  2. garantire LEA e Centri a carico del SSN non significa far convergere tutti i malati cronici e rari sui Policlinici Universitari che ad altro servono
  3. risanare il bilancio non significa mettere in previsione solo le spese di personale regionale senza ampliare e ammodernare
  4. la specialità medica in igiene e medicina preventiva si è ritrovata ad essere l’unica con un piano di studi conforme ai requisiti della dirigenza sanitaria aziendale, che prima era aperta a tutte le specialità ‘di reparto’, senza un corrispettivo ‘consiglio d’amministrazione’ multispecialistico
  5. il sorgere di enti come gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e le Residenze SocioAssistenziali, il primo equiparato ad ‘ospedale’ ed il secondo a ‘lunga degenza’, ma senza le stesse regole degli ospedali, come abbiamo scoperto dalle ordinanze regionali per il Covid-19
  6. le priorità politiche disperse nei mille rivoli del consenso ed anteposte alle esigenze di salute effettive sul territorio.

Se questa è la Storia scritta negli Atti Parlamentari e nelle Emeroteche, sarebbe il caso che si ritorni all’ordine che c’era nel 1974 e ancora ai primi Anni ’90:

  1. libera scelta dei lavoratori convenzionati
  2. medicina del territorio con ambulatori, ospedali e medici di base
  3. posti letto sia per epidemie e i disastri sia comunque per fare gli accertamenti multispecialistici dei tanti che vagano tra un Recup e l’altro senza uscirne con una diagnosi completa
  4. eccellenza medica universitaria che sia da riferimento sia nelle situazioni difficili sia per guidare l’innovazione, formare nuovi medici ed anche fornire servizi sanitari
  5. riconoscimento della scelta dell’assistito in caso di malattia nel rivolgersi alla sanità pubblica diretta, convenzionata o assicurativa,  senza discriminazioni

L’Italia vorrà constatare che la Sanità compete ai medici e non ai politici, che – piuttosto – sono coloro che devono rispondere dei bilanci regionali che approvano?
E, a monte, lo Stato vorrà dotare il Ministero della Salute e quello del Welfare del sistema di monitoraggio che gli compete, visto che sono quasi 15 anni che doveva essere introdotto la valutazione delle tecnologie sanitarie (HTA) e forse 10 che almeno andavano inviati gli organigrammi delle strutture ospedaliere all’Anac.

Intanto, il 1° giugno finisce il lockdown e riaprono i tribunali: inizieremo a capire cosa quanti studi legali invieranno istanze e denunce, a partire dagli accessi agli atti per quello che è accaduto in questi tre mesi e da che lato pende la bilancia?

Intanto, rinviando a casa un assistito dicendogli di attendere sintomi peggiori prima di accedere ai farmaci che solo gli ospedali hanno, la Sanità garantisce il Diritto alla Salute e diffonde un’adeguata percezione dei rischi da Covid?

Demata

Paolo Savona, la Lira nel 1975 e la Patrimoniale del 1992

24 Mag
(tempo di lettura 4-5 minuti) 

Il professor Paolo Savona ha avuto il grande merito di annunciare, in tempi non sospetti, che l’Italia non avrebbe avuto i requisiti economico-finanziari e – soprattutto – amministrativi adeguati per entrare in Europa, ma per ragioni di opportunità politica la Germania avrebbe chiuso un occhio, come il Der Spiegel confermò nel 2012 dopo una ampia indagine su centinaia di documenti governativi, dai quali “emergerebbe che l’esecutivo di Ciampi e di Prodi raggiunse i requisiti con misure cosmetiche”.

Paolo Savona era un ministro (piuttosto controverso) di quel Governo Ciampi e questo scriveva di lui La Repubblica del 4 aprile 1994: Nei pochi mesi in cui è stato a capo del dicastero dell’ Industria si è scontrato con il presidente dell’ Iri, Romano Prodi, con quello dell’ Eni Franco Bernabè e, nei giorni passati, come riferiscono le cronache, anche con quello della Funzione pubblica, Sabino Cassese. Per finire, il suo ministero è entrato in rotta di collisione anche con l’ Antitrust di Francesco Saja sul piano di privatizzazione dell’ Enel.”
Controversie ‘meritevoli’, almeno nel caso dello scontro con Prodi, sfociato nelle dimissioni di Savona, sulle privatizzazioni ed ancor più delle modalità: “nocciolo duro” per il ministro, “public company” per il presidente dell’ Iri.

Oggi, son trascorsi quasi 25 anni da allora, ma andando ancora più indietro nel tempo, quando Paolo Savona era il Direttore quasi quarantenne del Servizio Studi della Banca d’Italia, ci imbattiamo nel 10 dicembre 1975, data in cui l’Istituto Bancario San Paolo emise miniassegni circolari per conto della Confesercenti, dato che la Lira era talmente messa male da scatenare un’inflazione altissima e da non poterci permettere neanche il metallo per gli spiccioli, con commercianti e clienti che dovevano ricorrere a caramelle, francobolli, gettoni telefonici e in alcune città anche dai biglietti di trasporto pubblico. Altro che cryptovalute …

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Non sappiamo se Paolo Savona fosse fautore o critico di quel disastro, ma fatto sta che l’anno dopo divenne Direttore Generale della Confindustria seguendo Guido Carli, già direttore generale della Banca d’Italia dal 1959 e dimessosi nel 1975, dopo il crollo pre-annunciato dall’altalenante andamento della lira durante il decennio precedente ed i corrispettivi ‘warning’ degli analisti internazionali rimasti inascoltati (Italy’s Capital Market—Bank’s Warning. From Our Own Correspondent. The Financial Times (London, England), Tuesday, June 04, 1963; pg. 5; Edition 23,021).

Fu in quegli anni che l’Economia e la Finanza italiane constatarono che non era possibile indebitarsi all’infinito, svalutando la Lira ed aggiungendo Bot a mini-Bot, a causa del progressivo peso dei costi di importazione delle merci, a partire da metalli e carburanti.

A dire il vero, l’Italia se ne era già accorta tante altre volte che invocare il Sovranismo a fronte di un mare di debiti è impresa scellerata. Ce ne saremmo accorti anche dopo, nel 1994, con l’Eurotassa approvata dal Governo Prodi che contava di risanare i conti pubblici con un salasso da 4.300 miliardi di lire, dopo che già nel 1992 l’allora governo Amato impose un prelievo forzoso del sei per mille su tutti i conti correnti bancari (Legge Patrimoniale) per evitare il crack finanziario, mentre Paolo Savona era  Presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che non si oppose.

Non solo tasse, ma anche titoli, come certamente avrà insegnato ai suoi allievi il professor Savona, menzionando quanto accadde nel 1904, quando i Bot emessi nel 1901 vennero annullati dalla Corte dei Conti … con buona pace di chi li aveva acquistati o accettati.

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Fu un caso, ma l’effigie in testa al Certificato di credito era proprio quella di Vittorio Emanuele I, il re sabaudo che diede avvio all’Unificazione italiana con l’immediata emissione di Bot già nel 1861, nonostante le immense requisizioni di beni ecclesiastici e nobiliari e nonostante il fatto che – a parte il Regno di Piemonte e la Santa Sede – il resto dell’Italia vantava da secoli i bilanci in pareggio.

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Diciamo che siamo noti per esser relativamente puntuali  a pagare interessi, ma di saldare i debiti non se ne parla, se l’Italia si trovò a nascere – nonostante le requisizioni di beni vaticani o borbonici – con il 100% di rapporto debito/Pil e gli unici riscontri positivi li dobbiamo ad operazioni di risanamento ‘virtuali’ come il saldo delle Guarentigie per il Concordato, l’economia di guerra di Mussolini, il debito enorme nascosto dal boom economico del Dopoguerra fino agli Anni ’60.

italia grafico percentuale debito pil 1861 2015

Oggi, il professor Paolo Savona ha oltre ottanta anni, conosce molto meglio di noi tutti la storia degli andamenti e sa bene che è questo genere di ‘precedenti’ a spaventare nazioni, mercati e cittadini: che gli italiani usino qualche disastroso espediente nella folle speranza di non onorare i propri debiti.

E questo è anche il timore degli imprenditori e dei risparmiatori italiani, cioè dei cittadini.
Non certamente che il professor Paolo Savona possa essere ‘anti-banche’ o ‘anti-globalizzazione’, se fino all’altro ieri era ai vertici di una cryptobank anglo-lussemburghese con investitori Usa-based.

Possibile che l’Italia non ricordi come siano andate effettivamente le cose ai tempi della Lira?
Non durante i ‘favolosi’ Anni ’60 di Carli e Savona, in cui il boom economico mascherava debiti e sprechi immensi, ma subito dopo, dal 1975 fino al 1994, quando dovemmo pagare pegno?

Demata

Romano Prodi, un curriculum da conoscere

15 Apr
(tempo di lettura 8-10 minuti) 

Romano Prodi, dopo il flop del suo esecutivo ‘di lotta e di governo’, nel 2007, e dopo il conseguente oblio, neanche interpellato sui guai dell’Eurozona di cui fu l’ideatore ed il fondatore, ritorna in auge nel listino degli probabili presidenti della Repubblica, con il voto del PD e del M5S.

Ma chi è Romano Prodi? Cosa ci racconta il suo curriculum?

Iniziamo col dire che non proviene da una ‘famiglia di contadini’, ma, più esattamente, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri emiliani, relativamente benestanti visto chei figli poterono studiare presso il prestigioso liceo classico Ariosto di Reggio Emilia e, poi, continuare gli studi universitari come fuori sede.
Romano l’ottavo dei nove figli di Mario Prodi, un ingegnere, sembrerebbe ‘dipendente pubblico’ (Luciano Chiappini, “Una voce fedele e libera: il Taccuino”), e di Enrica, maestra elementare.
Dipendenti pubbici sotto il Fascismo, che dovevano essere di giurata fede, come pretendeva il regime dell’epoca, come anche va ricordato che Romano era il nome il nome di battesimo del più giovane dei figli del Duce. Nulla di male e nulla di nuovo, gran parte degli italiani erano sentitamente fascisti all’epoca.

Una famiglia Prodi che, comunque, credeva nel progresso e – proprio nell’epoca in cui, sappiamo oggi, vennero a costituirsi le famigerate filiere baronali e nepotistiche – ebbe il merito e la fortuna di riuscire ad  inserirsi nel sistema di carriere universitarie.
Infatti, oltre a Romano, ben cinque suoi fratelli sono o sono stati docenti universitari. Tra questi, ricordiamo, in particolare, i più famosi:

  1. Giovanni, il primogenito, nato nel 1925 ed arruolato nelle milizie della Repubblica di Salò nel 1943, costituistosi nel 1944 e detenuto per cinque mesi a Coltano (Giampaolo Pansa – “Vincitori e vinti”). Laureatosi in matematica nel 1948, già nel 1956 era docente universitario e nel 1963 ottiene la prestigosa cattedra all’Università di Pisa, dove sarà a lungo professore di analisi;
  2. Giorgio, il terzo dei nove fratelli, nato nel 1928, medico, docente di Patologia Generale fin dal 1958 e pioniere dell’oncologia in Italia presso l’Univesrità di Bologna;
  3. Paolo, nato nel 1932, è uno storico, preside della Facoltà di Magistero bolognese dal 1969 al 1972  e rettore dell’Università di Trento dal 1972 al 1977. E’ tra i fondatori dell’Associazione di cultura e di politica “il Mulino”, controllante dal 1965 dell’omonima Società editrice il Mulino, sui cui testi si sono (con)formate due generazioni di laureati e tecnici italiani.

Dunque, Romano Prodi era già il fratello di tre noti ed autorevoli docenti universitari quando, nel 1961,  presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, conseguì  una laurea in Giurisprudenza – non in Economia come quella conseguita da Mario Monti nel 1965 presso l’Università Bocconi di Milano – presentando una tesi sul protezionismo nello sviluppo dell’industria italiana.
Due anni dopo, iniziò la sua carriera accademica come assistente presso Università di Bologna, dove due fratelli erano già affermati docenti, e, nel 1973, dodici anni dopo la laurea, Romano ottenne l’incarico per l’insegnamento di “Economia e politica industriale” presso l’Università di Trento, il cui rettore era all’epoca il fratello Paolo. L’anno dopo, arrivava a presiedere la casa editrice il Mulino, controllata dall’omonima associazione di cui lo stesso fratello Paolo era uno dei fondatori.

Nel 1965 – già inserito nel sistema universitario e già consigliere comunale a Reggio Emilia per la Democrazia Cristiana –  conobbe Flavia Franzoni, studentessa diciottenne, sua lontana cugina e figlia di un docente di chimica, anche lei impegnata nell’Azione Cattolica (ndr. un altro fratello di Romano Prodi, Vittorio, diventerà prima presidente dell’Azione Cattolica di Bologna, dal 1986 al 1992, e poi europarlamentare iscritto al gruppo gruppo Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa).
Nel 1969, l’omelia delle loro nozze fu officiata dall’attuale Cardinale Ruini ed anche lei diventerà docente universitaria presso la facoltà di Scienze politiche di Bologna –  dove «è soprannominata “google”, perché sa tutto» (Alessia Ercolini, Grazia) – e direttrice dell’Istituto regionale per i servizi sociali. Una donna “prima allieva, poi moglie e quindi mamma”, come la definiva il Corsera nel lontano 1995 (link).

Una tipica storia familiare, dunque, come tante altre delle provincie dell’Italia centrale, microcosmi di tradizione contadina, patriarcale, cattolica, ma anche attenti alle opportunità, proprio come nella tradizione lo fu Bertoldo. Un giurista che si occupava di politica economica, dunque, in un paese che predilige la volontà politica ed il giusto intendimento alla prova dei fatti ed alla legge dei numeri.

Prodi 1982 aLa carriera professionale di Romano Prodi ‘economista’, da quel lontano 1965 fino agli Anni ’80, non sembra aver lascitato particolari tracce (su internet) di pubblicazioni o consulenze, ma sappiamo che all’inizio degli Anni Settanta ottenne un primo incarico manageriale come presidente della Maserati e della società nautica Callegari e Ghigi, due imprese in difficoltà gestite dall’istituto finanziario pubblico GEPI allo scopo di risanarle.
Maserati si riprenderà solo con l’arrivo, nel 1975, dell’argentino Alejandro De Tomaso e grazie all’intervento della Benelli, mentre della Callegari e Ghigi, che nel momento più florido dava lavoro a circa 1500 dipendenti e famosa per i suoi gommoni, non v’è più traccia.

Per comprendere l’approccio socio-politico e metodologico dell’operazione, ricordiamo che la GEPI, Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali, era una finanziaria pubblica costituita nel 1971, con capitale posseduto per il 50 % dall’IMI e per l’altra metà suddiviso in parti uguali tra IRI, ENI ed EFIM. Pur avendo lo scopo di assumere il controllo delle aziende private in crisi per risanarle, ristrutturarle, rilanciarle, la GEPI nel linguaggio giornalistico e sindacale dell’epoca fu descritta come “lazzaretto“, “reparto di rianimazione“, “ambulatorio“, “rottamaio di aziende” (fonte Wikipedia).
Un bagno di sangue per le finanze pubbliche italiane, come scriveva Adriano Bonafede (Miliardi nel pozzo Gepi, La Repubblica, 8 gennaio 1988), raccontando che “a posteriori è possibile attribuire a GEPI un notevole ruolo nello sperpero di risorse pubbliche e nel ritardo infrastrutturale italiano, dato che  solamente per la Innocenti, nel decennio tra il 1976 e il 1986, erogò contributi per l’astronomica cifra di 185 miliardi di Lire.

D’altra parte parliamo dell’Italia che iniziava ad uscire dalla Guerra Fredda e si avviava verso il Consociativismo: il ‘metodo GEPI’, con i dovuti correttivi, piacque ad industriali, partiti e sindacati e Romano Prodi venne chiamato ad essere ministro dell’Industria dal novembre 1978 fino al marzo 1979, nel quarto Governo Andreotti, giusto in tempo per emanare un decreto legge che porta il suo nome (legge Prodi), finalizzato proprio al salvataggio delle grandi imprese in crisi.
L’anno successivo – sempre allo scopo di tamponare le crisi del sistema industriale centrosettenrionale invece che ristrutturare e ricollocare più a Sud dove l’industrializzazione era in crescita – alla GEPI fu affidato il compito di prendersi in carico i dipendenti in esubero di grandi imprese private (FIAT, Montedison, SNIA, SIR, Marzotto, eccetera), con il conseguente mantenimento in Cassa Integrazione di decine di operai e tecnici per molti anni (A. Bonafede, op. cit.). Intanto, si avviò lo spacchettamento delle industrie meridionali.

Gianfranco Viesti, politologo con laurea in economia all’Università Bocconi, in Abolire il Mezzogiorno, ricorda che “la ristrutturazione dell’industria a controllo pubblico inizia in ritardo, nel periodo della presidenza di Romano Prodi all’IRI e Franco Reviglio all’ENI“, sottolineando che “per alcuni il Mezzogiorno è una palla al piede. Per altri è un alibi. Per alcuni è un noioso rituale da inserire in agenda. per altri è la scorciatoia per arricchirsi illecitamente. Per tutti è una buona scusa per non affrontare realmente i problemi italiani.

industria meridione prodi svimez

Nel 1982, il governo Spadolini affidò a Romano Prodi la presidenza dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, creato da Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) all’epoca della Grande Crisi del 1929.
Un IRI che Prodi ridimensionò notevolemente e dove verrà successivamenre richiamato, nel 1993, per l’incarico del Presidente del Consiglio Azeglio Ciampi, allo scopo di completare un’enorme serie di privatizzazioni e dismissioni.

La ristrutturazione dell’IRI, attuata da Romano Prodi negli Anni ’80, portò alla cessione di 29 pregiate aziende del gruppo, tra le quali le più dolorose furono quella dell’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986, e la liquidazione di Finsider, Italsider ed Italstat, ovvero della siderurgia e della navalmeccanica italiane, con drammatici tagli occupazionali gestiti tramite generosi prepensionamenti, che ancora oggi gravano sul nostro PIL.

Utile ricordare che ciò avvenne azzerando le attività portuali ed industriali di una città come Napoli e provocando il crash del Banco di Napoli, con lo stop degli interventi straordinari nel Mezzogiorno e la canalizzazione su banche settentrionali dei fondi europei.
Non sappiamo quali furono le effettive responsabilità di Romano Prodi, forse nessuna, ma furono certamente suoi il metodo  e la visione con cui si gestirono salvataggi, ristrutturazioni e cessioni di una delle ricchezze primarie del nostro Paese.
Un metodo che non poteva lasciare perplessi, fosse solo perchè era nato per intervenire su realtà limitate ed mergenziali, mentre lo si voleva utilizzare a strumento per ristrutturare il sistema industriale ed infrastrutturale nazionale, senza affatto tenere conto della millenaria tradizione industriale, commerciale ed agroalimentare del Meridone.

Le ricchezze storico-artistiche, le bellezze naturali e ambientali concentrate nelle regioni del Mezzogiorno sono di prim’ordine. é su queste ricchezze che va fondata una nuova via per lo sviluppo. Pensando al da farsi ho anche indicato un nome alla nostra strategia: facciamo del Sud la “Florida d’Europa”… Al Sud ci sono tanti giovani pieni di capacità che devono essere finalizzate“, prometteva il presidente del Consiglio Romano Prodi alla Fiera del Levante di Bari il 14 settembre 1996.

La politica deflazionistica di Prodi e di Ciampi è stata la vera responsabile dell’affondamento del Mezzogiorno. Nel ’97 il governo ha dimezzato le erogazioni di cassa per le aree depresse del Mezzogiorno” e “Bagnoli da sei anni è bloccata al palo da un contenzioso tra Comune e Ansaldo Trasporti” (Panorama, Raccolta Edizioni 1677-1680 – 1998).

I dati pubblicati da Svimez per i 150 anni dell’Unità non lasciano dubbi: l’anno peggiore per l’industria meridionale fu il 1998, mentre la ripresa nel ventennio a seguire fu nei limiti congiunturali. Inoltre, abbiamo visto tutti come è andata con la crisi in Spagna, dove avevano investito nell’industria turistica.

svimez industrializzazione meridione

Per avere un’idea delle strategie e degli effetti della seconda tornata all’IRI di Romano Prodi, ‘a protezione dell’industria e dell’occupazione italiane’, ricordiamo almeno una parte di cosa accadde drammaticamente in quegli anni:

  1. Banca Commerciale Italiana, privatizzata nel 1994 ed oggi assorbita in Intesa Sanpaolo. Credito Italiano, privatizzata nel 1993, e Banco di Roma, confluito nella Banca di Roma nel 1992, ed tutti oggi parte di Unicredit;
  2. Finsider, privatizzata “a pezzi” (operazione conclusa nel 1995), di cui oggi restano ‘i problemi’: il raddoppio dell’inquinante stabilimento siderurgico di Taranto (ILVA – Gruppo Riva) e l’area industriale-portuale di Gioia Tauro, che già all’epoca si prevedevano essere investimenti improduttivi;
  3. SOFIN, acquisita dal ILVA – Gruppo Riva, era partecipante di Industrie Ottiche Riunite, Strade Ferrate Secondarie Meridionali, Sidalm, Forus SpA, Acciaierie e Ferriere di Piombino e Vertek;
  4. Finmeccanica e Fincantieri, che fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, divenuto direttamente proprietario di fabbriche d’armi e risorse energetiche;
  5. Italstat, settore costruzioni, anch’essa trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze e controllante di Gruppo Autostrade S.p.A. (privatizzata nel 1999), Italinpa, Aeroporti di Roma, Stretto di Messina, eccetera;
  6. STET, fusa nel 1997 con Telecom Italia e trasferite al Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre la prestigiosa controllata Selenia-Divisione Spazio con sede a Napoli veniva fusa con la Elsag e ridislocata, per poi essere del tutto assorbita, dal 1989, dalla controlalnte Finmeccanica;
  7. Cofiri e SPI (Società per la Promozione e Sviluppo Imprenditoriale), invece, furono inghiottite da Sviluppo Italia nel 2000, quando il Governo D’Alema fuse tutte le società di promozione in un’unica azienda per attrarre investimenti esteri per lo sviluppo industriale del sud Italia;
  8. Alitalia, la cui proprietà fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, arrivando a costare agli italiani almeno un miliardo di euro l’anno in debiti, nel 2008, mentre, pochi mesi fa, annunciava ancora 280 milioni di perdite;
  9. RAI, la proprietà fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, diventando a pieno titolo una televisione commerciale di Stato.

Aggiungiamo la storia di Finmare, ovvero Tirrenia che fu inglobata in Fintecna e trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che la ha privatizzata circa un anno fa. Proprio a partire dal 1993, la Tirrenia avviò una dispendiosissima politica di ammodernamento della flotta confluita nell’acquisto di quattro nuove navi superveloci, una vera manna dal cielo per la Fincantieri degli stabilimenti di Sestri Levante (GE). Costosi gioielli del mare che furono messi in disarmo dopo pochi anni a causa degli inconvenienti ed elevati consumi di carburante (circa 290 kg di gasolio al minuto), dieci volte superiori ad un traghetto tradizionale di simili capacità. La privatizzazione di Tirrenia è stata assemblata sullo stesso schema di quella di Alitalia e prevede la creazione di una bad company.

O quella di SME, privatizzata “a pezzi” negli anni ’90, con l’ex  Motta venduta alla Nestlé; GS (distribuzione) vendute alla famiglia Benetton ed a Leonardo Del Vecchio, il gruppo Cirio Bertolli De Rica (oli, latte e conserve) venduto alla Fisvi di Carlo Saverio Lamiranda, rivenduto a Unilever e poi passato sotto il controllo di Sergio Cragnotti, con relativi crac e noti scandali, Autogrill (ristorazione). Il tutto perdendo un’occasione unica per realizzare un grande gruppo alimentare italiano, in grado di competere con le multinazionali straniere e di difendersi dalle organizzazioni criminali.
All’epoca, ricordiamolo, ebbe origine l’eterno conflitto tra Prodi e Berlusconi, scatenato dalla tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, per la quale Romano Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso.

Prodi 1982Una vera e propria tragedia italiana, da togliere il sorriso per una vita, quella che coincise con il passaggio di Romano Prodi all’IRI o ne fu conseguenza o proseguimento.

Una vicenda che, ormai, è affidata alle statistiche ed agli storici di cui tanta Italia sembra essersi dimenticata e che l’intervento alla Camera dei Deputati di Emilia Calini Canavesi (PRC), del 1 luglio 1993,  ben delinea nel contesto dell’epoca: “abbiamo denunciato che la FIAT ha acquistato (si fa per dire, perché per sei anni non ha pagato una lira ed ho presentato un’interrogazione per sapere se sia stata pagata anche solo la prima rata, ma nessuno mi ha ancora fornito una risposta) o meglio, ha avuto in regalo l’Alfa Romeo dal Governo di allora, presieduto da Craxi, il cui braccio destro era allora l’onorevole Amato.
I ministri che hanno trattato questo regalo dell’Alfa Romeo alla FIAT, per citarne solo alcuni, erano Darida, De Lorenzo, Nicolazzi, De Michelis. Dunque, quanti hanno trattato quell’affare non godono certo oggi di una buona fama e reputazione. Questi sono coloro i quali hanno condotto la prima rilevante privatizzazione in Italia. … La percentuale di vendite di auto che ha toccato oggi la FIAT non è mai stata così bassa, neppure quando l’Alfa Romeo era di proprietà statale, dell’IRI.”
Noi posteri, oggi, ben sappiamo quale valore avesse quel Centro Ricerche Alfa, ormai volato via a Detroit.

Dopo una tale mattanza per il futuro industriale italiano e con un futuro inesistente per vasti territori del paese, Romano Prodi, il 31 maggio 1994,  rivendicando i bilanci ‘finalmente’ in attivo dell’IRI, formalizzò le proprie dimissioni al nuovo Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e l’11 agosto  annunciò di entrare in politica: «Adesso ho mente e animo liberi. Un impegno in politica diventa un dovere, vista la situazione».

Riuscì a raggiungere l’obiettivo, due anni dopo, quando venne nominato Presidente del Consiglio dei ministri dopo le elezioni politiche 1996, a capo di una coalizione guidata da quello che è oggi il Partito Democratico, ma molto eterogenea, che, soprattutto, si avvalse di un appoggio esterno da parte di Rifondazione Comunista, con cui aveva stretto un patto di desistenza elettorale (la mancata presentazione di proprie liste nella maggior parte dei collegi elettorali maggioritari), che costituisce, con gli occhi di oggi, una sottile forma di forzatura elettorale.

Prodi IRI 1994

Non pochi i risultati, nei due anni di vita che ebbe il Governo Prodi, tra cui il il tentativo di semplificazione amministrativa della P.A. e di deregulation delle scuole e delle facoltà universitarie, il mantenere l’Italia fuori dai conflitti in corso nella ex-Yugoslavia, i finanziamenti per i Beni Culturali. Romano Prodi, soprattutto, ebbe il merito a riportare il rapporto deficit/PIL entro i parametri del Trattato di Maastricht, ma a costo di un impopolare ed iniquo contributo straordinario, chiamato anche “eurotassa” o “tassa per l’Europa”, in parte restituita nel 1999 a furor di popolo.
Oggi possiamo aggiungere che si confidò, molto ottimisticamente, sull’ipotesi che l’entrata nell’euro avrebbe portato un considerevole risparmio di interessi sui titoli di Stato anche nel lungo periodo. Il tutto, senza tenere conto che una pressione fiscale di quel genere non poteva risanare un debito pubblico a due zeri e non poteva essere che una tantum.

Di nuovo, una questione di metodo.
Inoltre, l’Ulivo – la creatura politica che Romano Prodi aveva raccolto intorno a se –  promulgò, sotto D’Alema ed Amato, la pessima riforma del Titolo V della Costituzione e, soprattutto, l’odierno disastro Sanità in Italia: fu quella maggioranza ulivista, con tanto di Lega al seguito, che emanò le quattro leggi che affliggono contribuenti, casse pubbliche, fornitori e, soprattuto, malati: istituzione del Servizio Sanitario Regionale, ridestinazione dei centri psichiatrici, legge sulle malattie rare, recepimento dei parametri dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità inerenti lavoro, funzionalità e stato invalidante.

Sfiduciato dalla sua stessa maggioranza e lasciando il movimento appena fondato, nel marzo del 1999, Romano Prodi accetta la designazione dei governi europei  alla Presidenza della Commissione Europea, avviando quel processo che, in Germania, i malevoli chiamano ‘italianizzazione dell’Europa’.
Durante la sua presidenza vennero introdotte gran parte delle innovazioni su cui c’è oggi dibattito e divisione tra gli europei:

  1. 1º gennaio 2002, l’entrata in vigore dell’Euro come valuta corrente dell’Unione, di cui sono ben noti i pregi, i difetti e le polemiche incessanti;
  2. 1º maggio 2004 l’allargamento dell’Unione ad altri 10 paesi: Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, che si è rivelato disastroso per le economie spagnole ed italiane;
  3. il 29 ottobre 2004, la firma a Roma della Costituzione europea, un progetto definitivamente abbandonato nel 2009 a seguito dello stop alle ratifiche imposto dai no ai referendum in diversi paesi europei, tra cui Francia e Paesi Bassi.

Prodi EuroMissione compiuta anche in Europa, dato che sul momento sembrò a tanti un successone, Romano Prodi si candidava alle Primarie, con il Partito Democratico (attuale) che -caso unico nella Storia- non volle candidare un proprio iscritto di particolare fama. Inutile dire che Prodi vinse alla grande, con una marea di equivoci al seguito, visto che c’erano Di Pietro, Bertinotti e Mastella a far da coprotagonisti, mentre D’Alema eterno dominus del PD andava a dettare i tempi ed i modi.
Sull’onda dell’antiberlusconismo e di questi consensi ‘primari’ – apparentemente per la sua persona – Romano vinse anche le elezioni politiche 2006, ma con uno scarto inferiore ai 25.000 voti e solo grazie al Porcellum ottenne 340 seggi alla Camera dei deputati e 159 seggi al Senato della Repubblica.
Una maggioranza risicata e borderline che diede adito a numerosi reclami e ricorsi, respinti, ma, soprattutto, venne ritenuta un azzardo, sia per l’esigua maggioranza al Senato – corroborata dal voto spesso decisivo dei Senatori a vita, fino ad allora per prassi non incidenti sulla fiducia ai governi – sia per la deriva ‘di lotta e di governo’ che la cooptazione dell’estrema sinistra avrebbe imposto, mentre esattamene la metà degli italiani era di opinione del tutto opposta.

Fu un brutto inizio, dato che, nonostante gli italiani già mugugnassero abbondantemente sugli sprechi e sulle inerzie della Casta e nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, il governo Prodi II passò alla storia della Repubblica come quello più numeroso (102 tra ministri, viceministri e sottosegretari).

Fu allora che le tasse s’impennarono a livelli ancora più intollerabili, secondo la logica che ogni contribuente è un sospetto evasore. Ciò permise a Romano Prodi di archiviare l’early warning che pendeva sull’Italia dal 2005 per sfondamento del Patto di Stabilità Europeo e così accadde, che archiviata la sanzione e regalati all’Italia altri tre anni di tempo, mentre Comunisti e CGIL raccontavano di un ‘tesoretto’ di risorse pubbliche sommerse da spendere in welfare, passò del tutto inosservato il ‘problema’ che il Trattato di Maastricht prevedeva e prevede (saggiamente) che gli stati non abbiano – grosso modo – un debito pubblico eccedente il 60% del PIL ed un deficit superiore al 3%.
Servivano urgenti misure strutturali, ma lo stesso Romano Prodi riteneva, fin da quando era Presidente della Commissione, “il Patto inattuabile per la sua rigidità, sebbene ritenesse comunque necessario, sulla base del Trattato, cercare di continuare ad applicarlo” (Wikipedia).

Quel governo, come prevedibile, fu vessato, nella sua breve esistenza, da continue contrapposizioni intergovernative, manifestazioni sindacali e della sinistra estrema, tensioni con gli alleati NATO, interventi militari controversi, spese incrementali per lo Stato in nome di una presunta economia in crescita e di un fantomatico Tesoretto nelle casse pubbliche.
Tra l’altro, nonostante venga ricordato per l’avvio dato alla  moratoria universale della pena di morte, adottata in forma non vincolante dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, c’è da sottolineare che è sotto Romano Prodi che nacque l’Equitalia S.p.a. che conosciamo, per l’esattezza il 4 luglio 2006, quando Riscossione S.p.A. (poi ridenominatasi) fu autorizzata ad utilizzare i dati in possesso dell’Agenzia delle entrate, fino ad allora considerati riservati.

Caduto il governo per le insuperabili tensioni interne, il 9 marzo 2008, Romano Prodi annunciava di aver «chiuso con la politica italiana e forse con la politica in generale», ma, sei mesi dopo, il 12 settembre 2008, accettava di presiedere il Gruppo di lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa.
Nessun proglema riguardo al potenziale conflitto di interessi – specialmente in Nigeria o Libia, ricche di petrolio – per essere “stato chiamato nell’ ‘Advisory Board’ di British Petroleum per i temi di strategia internazionale e industriale”, almeno dal 2009, come confermato dallo stesso Prodi l’11 giugno 2010.

Nè sembrano aver creato imbarazzo i buoni rapporti pregressi con il sanguinario dittatore libico Gheddafi, come anche nè SEL nè Laura Boldrini, l’attuale Presidente della Camera, sembrano ricordare che Il Manifesto del 14 agosto 2004 titolava”Li fermeremo in Libia. Accordo con l’Italia per blindare frontiere e mari. Prodi si congratula con Gheddafi.

No, non appare un cattivo uomo, il professor Romano Prodi, forse solo un po’ troppo accomodante ed ambizioso, certamente notevolmente fortunato e, di conseguenza, fin troppo ottimista. Meno fortunate le sue soluzioni, come lo fu il suo famoso ‘si può fare’ in campagna elettorale, smentito meno di due anni dopo a stretto giro parlamentare.
Un uomo di buona volontà, avrebbe detto qualcuno quando si credeva ancora che ‘chi non sbaglia, non fa’, dmenticando che ‘di buone intenzioni, son lastricate le vie per l’inferno’.

Il suo passaggio all’IRI – ed i ‘risultati’ che oggi, a ragion veduta, possiamo annoverare tra i pochi cocci rimasti – dovrebbero escludere ‘di per se’ la possibilità che Romano Prodi possa diventare il presidente degli italiani; allo stesso modo, per la sua ostinazione nell’arrivare a tappe forzate alla moneta unica europea con i controversi problemi in cui ci troviamo o, peggio, per la sanguinosa questione di Equitalia (ex Riscossione Spa).
Un’ampia parte di noi cittadini potrebbe non sentirsi rappresentata o rassicurata.

Dunque, perchè ostinarsi a candidarlo, se poi dal PdL arriva un “Prodi al Colle? Tutti all’estero” e lui stesso annuncia: “Nessuna mia candidatura al Quirinale, io sto semplicemente a guardare”, ribadendo da Lucca ai giornalisti “io sono fuori”?
Ma, soprattutto, perchè dovrebbero votarlo il Movimento Cinque Stelle ed i Renziani, che promettono di volere il cambiamento da quel ‘metodo’ e da quell’Italia consociativa che fu?

Post Scriptum: Fu sotto la presidenza del Consiglio di Romano Prodi che si svolsero e furono secretate le audizioni del pentito Carmine Schiavone inerenti il traffico di rifiuti tossici e il disastro ambientale in Campania.

Demata