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Siria, Turchia, Kurdistan: tutto in pillole

17 Ott

Il Kurdistan è un territorio delimitato dal Trattato di Sevres del 1920, che però non trovò l’accordo della Turchia. Nella proposta di Sevres il nascente Kurdistan vedeva solo qualche villaggio di frontiera dentro quello che è il territorio della attuale Siria.

 

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Dunque, la Siria negli ultimi due anni è stata di fatto invasa dai Curdi, che pretenderebbero tre distretti siriani dove fino a pochi mesi fa vivevano arabi sunniti.
Infatti, dopo giorni di attacco turco, i Curdi hanno accettato la ‘restituzione’ dei territori e l’esercito siriano potrà essere dispiegato nei territori fino ad oggi controllati dalle SDF curde  e lungo il confine con la Turchia.
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Va ricordato che i curdi entrati  in Siria sono quelli del Partito Comunista Curdo (PKK), autori di molti attentati in Turchia, dove il partito filocurdo ha il 13% dei seggi in parlamento. E che da mesi si  parlava dell’accordo turco-americano per creare una sorta di zona cuscinetto «Isis-free»  di qualche decina di chilometri al confine tra Siria e Turchia.

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Con l’invasione della Siria i Curdi si ritrovano a controllare tutti i grandi bacini idrici /idroelettrici del quadrante (Lago Van in Turchia, bacino e diga Assad in Siria, bacino e diga Mossul in Iraq), oltre ad aree minerarie /estrattive e un paio di snodi vitali degli oleodotti più i collegamenti con l’Iraq.
Ed è fallita la trattativa curdo-siriana per il controllo delle fondamentali dighe sull’Eufrate e dei pozzi di petrolio che sorgono nel nordest della Siria, mentre Assad ha riconquistato la provincia ribelle di Idlib senza il supporto dei combattenti dell’YPG.
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Gli USA prendono atto del disastro causato da Obama/Pelosi e ritirano la propria protezione militare dai territori siriani occupati dai Curdi ‘turchi’, lasciando mano libera ai siriani di Assad, che hanno iniziato da mesi la ‘reconquista’ della Siria.

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La Turchia interviene con la scusa di bloccare i propri confini e di impedire l’afflusso di Curdi ‘turchi’ in Siria, cioè tagliare fuori le milizie del PKK, ma anche per appropriarsi delle città di Kobane e Manbji più una striscia di confine con l’Iraq ed – evidentemente – per ‘difendere’ i ribelli siriani dall’offensiva di Assad iniziata mesi fa.

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La Siria ha un trattato con la Russia, che è tenuta a proteggerla e la Russia interviene nei tre distretti occupati, affinchè “tutte le milizie illegali escano dalla Siria”, e in 48 ore subentra agli statunitensi nelle città di Kobane e Manbji, ambite dalla Turchia.
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Non è chiaro quanti jihadisti dello Stato Islamico detenuti dalle FDS prima dell’abbandono americano siano riusciti a fuggire dalle carceri curde e, intanto, i curdi Peshmerga e il clero cristiano iracheni sono allarmati perchè “hanno paura di un ritorno dello Stato islamico (SI, ex Isis)”, che l’offensiva turca sta espellendo dalla Siria e che si sta rifugiando in Iraq con lo scopo di ricostituirsi nei campi profughi.
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Infatti, una settimana fa, la coalizione a guida Usa in Iraq ha lanciato 40 tonnellate di bombe sull’isola di Qanus, nel Tigri, a nord della capitale irachena Baghdad, che è considerata “infestata” dall’Isis.
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La notizia del giorno, in Turchia, è del solito Erdoğan che mostra i muscoli nei titoli, ma poi negli articoli si legge di Trump che parla di «sanzioni economiche punitive» e del Cremlino, che ammonisce sulla «necessità di prevenire i conflitti tra le unità dell’esercito turco e le truppe del governo siriano».
Infatti, oggi  Erdoğan deve incontrare una delegazione ad Ankara composta niente di meno che dal vicepresidente Mike Pence, dal segretario di stato Mike Pompeo e dal consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien, mentre «entro pochi giorni»  è dato in arrivo nella capitale russa, dopo la convocazione telefonica di Putin.
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La solidarietà italiana verso i curdi non è solo umanitaria.
Il gruppo italiano Trevi di Cesena ad inizio 2016 si è aggiudicato  l’appalto in Iraq per la riparazione della diga di Mosul, strappata ad Isis dai Peshmerga curdi, che sono addestrati da specialisti degli alpini e del genio militare italiano.

Il primo contratto di 273 milioni di euro venne firmato nel marzo 2016 e l’Esercito italiano garantisce  a Mosul la sicurezza al sedime della diga (e del cantiere) con circa 500 unità della Task Force “Praesidium”.
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L’esportazione di armi italiane verso la Turchia? Leggiamo di armi di calibro superiore ai 19.7 mm, munizioni, bombe, siluri, razzi, missili e accessori oltre ad apparecchiature per la direzione del tiro, elicotteri T129 e software che la Turkish Aerospace al Pakistan deve ricondizionare e trasferire al Pakistan.
E verso il kurdistan iracheno? Nel 2014, l’Italia ha fornito ai curdi 100 mitragliatrici 42/59 calibro 7,62 con con 250mila munizioni, 100 mitragliatrici M-2 Browning calibro 12.7 con 250mila munizioni, 2.000 razzi anticarro Rpg 7 e Rpg 9, 400mila proiettili calibro 7,62 per Kalashnikov.
Il problema è che un paio di anni fa, risultava che in Iraq sono state vendute armi italiane per 55 milioni di euro, molto meno della Turchia (262 milioni) , ma la differenza non è così ampia senza i costosi elicotteri, motovedette e sistemi antiaerei acquistati dai turchi.
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Demata

Trump: funzionerà attaccare i russi per cacciare Assad?

7 Apr

Secondo The Times, l’aeroporto di Al Shayrat, bombardato dagli USA stanotte, era stato ammodernato da Mosca circa un anno fa, per trasformarlo nella base degli elicotteri d’attacco. Nell’ultimo anno, nella zona erano stato segnalati elicotteri Mi-8, Mi-35, Mi-24 “Hind” e Mi-17 “Hip”, numerose batterie di razzi TOS1 e un migliaio di militari russi.

Secondo quanto riportava  il Now Lebanon, l’espansione dell’aereoporto di Al Shayrat incrementa notevolmente la quantità di mezzi che Mosca può dislocare in Siria, con “circa 45 hangar bunkerizzati. Non a caso è stato Putin – e non Assad – ad annunciare che circa le metà erano stati colpiti …

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Dunque, c’è da prendere atto che i 59 Cruise americani hanno colpito un aeroporto praticamente deserto e che, dalle fotografie aeree, i danni non sembrano enormi, non almeno per una base elicotteristica, … ma l’atto bellico voluto da Donald Trump non ha colpito la Siria, se non nominalmente, bensì la Russia, che – saggiamente – non ha reagito, ma gia rivendica una ‘aggressione americana’.

Non è piccola cosa e c’è ancora altro.

L’eliporto militare (russo in Siria) di Al Shayrat è praticamente adiacente alla città di Homs ed è praticamente la ‘chiave’ per consentire la ripresa di Palmyra e della rotabile con tanto di oleodotti che porta verso l’Iraq, a partire proprio da Homs.

Un anno e mezzo fa, Business Insider riportava che “Mosca sta già utilizzando Sharyat per sostenere le operazioni contro lo Stato Islamico”, confermando che gli elicotteri russi stavano supportando utilmente le forze di terra siriana nella riconcuista della città di Palmyra”, in cui patrimonio archeologico era ed è a rischio se lasciato nelle mani degli jihadisti.

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Ed era solo il 18 marzo scorso, quando circa 1.500 ‘ribelli’ del cartello islamista “Ahrar al-Shams” acconsentiva allo sgombero della città e ad Homs – come ad Hama, Idlib e Aleppo – il loro accanimento verso cristiani e alawiti ha trasformato le città in deserti di macerie. Non a caso le unità Ahrar al-Shams hanno nomi come “Qawafil al- Shuhada” (le carovane dei martiri), “Ansar al-Haqq” (partigiani della verità) e “al- Tawhid wa l-Iman” (unicità divina e fede).

Un’organizzazione che la Gran Bretagna e gli Usa si rifiutano, però, di includere tra le organizzazioni terroristiche, nonostante la forte presenza di foreign fighters, l’obiettivo rimpiazzare il regime laico con uno islamico e le stragi di civili o l’uso dei barili bomba contro i civili.
Gran parte dei profughi riversatisi verso l’Europa provengono proprio dai distretti occupati dal cartello islamista di “Ahrar al-Shams”.

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Dunque, colpire proprio Al Shayrat rischia di essere un ‘triste’ segnale di quale ordine (o disordine) sia prospettato alla Siria. E annunciare il blocco dei rifugiati, mentre indirettamente si va a sostenere proprio chi ha trasformato opulente città in deserti, non sembra essere una bella idea.
Non almeno dal punto di vista di noi europei, russi inclusi, e – viste le borse – degli orientali, come certamente di non pochi statunitensi.

Ma, forse, agli USA – nella visione di Donald Trump – interessano maggiormente le relazioni con Arabia Saudita, Qatar e Turchia, che dalla pace in Siria avrebbero poco o nulla da guadagnare.
Senza parlare del riarmo, della risalita del petrolio e del “complesso industrial-militare”, che dalla WWII è il motore dell’economia USA.

Un segnale alla Russia, alla Cina e al Giappone (non solo alla Corea del Nord) e all’Europa.

E già, e l’Europa?
Se chi usa armi chimiche non ha attenuanti, non può averlo neanche chi ha causato l’esodo di milioni di siriani ‘non islamisti’: per la Siria sarebbe servito un negoziato, ma il non interventismo di Obama l’ha impedito.
Da stanotte, abbiamo l’interventismo di Trump
e le cose sono cambiate con una salva di Cruise americani contro una base russa in Siria
, da cui sarebbe partito un attacco chimico dell’aviazione siriana contro i ribelli di Jaysh al-Izza del Free Syrian Army, proprio quelli riforniti dagli USA di armi e missili, tra cui il  BGM-71 TOW che mesi fa ha abbattuto un elicottero Gazelle francese. Eh già …

Ha ragione Gentiloni, servono negoziati. Ma servono anche truppe di pace.

De Matha

Nizza, Turchia, Louisiana: la Socialdemocrazia è al capolinea?

18 Lug

Alla fine, in Turchia, il golpe l’ha fatto Erdogan destituendo, sospendendo, arrestando quasi tremila magistrati, circa settemila funzionari di polizia e un centinaio tra generali ed ammiragli.
Per non parlare dei referendum per l’introduzione di norme ‘islamiche’ nella costituzione, bloccati dal Parlamento, che adesso proporrà e vincerà facilmente.

Il tutto – come urlavano i suoi sostenitori – in nome “del leader, dell’Islam e della democrazia” ed accusando del fallito golpe il religioso musulmano Fethullah Gülen, noto sostenitore della necessità della “coesistenza pacifica” e del dialogo tra le civiltà su scala internazionale e promotore di una versione moderata dell’Islam, ispirata ad una interpretazione liberale e democratica della religione, incontrando leader religiosi ebrei ed il Papa.

Tre mesi fa, il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, alla fine della visita di nove giorni in Turchia, dichiarava di nutrire «seri dubbi sulla legalità dei coprifuoco di interi quartieri e città del sud est» e che per la distruzione di vaste zone e lo sfollamento di migliaia di persone «le autorità turche hanno il dovere di condurre inchieste effettivee risarcire senza indugio la popolazione locale che chiaramente ha sofferto enormi danni». Inoltre, con Erdogan al potere si è verificato «l’aumento esponenziale nel numero di processi per insulto al Presidente» e «danni irreparabili alla libertà di stampa e al pluralismo», come anche la Turchia detiene il record per numero di richieste di oscuramento di indirizzi Twitter.
Il rapporto annuale degli Stati Uniti sui diritti civili afferma che la Turchia ha usato le leggi di sicurezza nazionale per «reprimere l’attività della società civile» e, in partcolare, che «il governo ha usato le leggi antiterrorismo, così come una legge contro gli insulti al presidente, per asfissiare il confronto politico legittimo e il giornalismo investigativo».

Pochi si sarebbero aspettati che, due giorni fa, mentre avvenivano il golpe ed il controgolpe, Barak Obama sbattesse immediatamente la porta in faccia ai militari con un “tutte le parti in Turchia devono sostenere il governo eletto democraticamente” o che Matteo Renzi provasse “sollievo” per una situazione che “lascia spazio al prevalere della stabilità e delle istituzioni democratiche”.

E chi avrebbe immaginato che a Nizza la Francia del ‘muscoloso’ Hollande avrebbe schierato forse un centinaio, forse meno di poliziotti su un chilometro e passa di Promenade. O che il capo dei servizi segreti francesi inizi a parlare di ‘guerra civile’ dopo che per decenni la socialdemocrazia francese s’era vantata del proprio welfare, nonostante le famigerate banlieues?

O in USA dove  ormai siamo all’insorgere di attacchi terroristici ‘neri’ contro i poliziotti ‘bianchi’, dopo che Barak Obama ha centralizzato la difesa delle minoranze etniche non sugli ispanici, bensì sui luoghi comuni tra ‘bianchi e neri’. Senza parlare del ritiro dall’Irak, dello smantellamento affrettato di Guantanamo, della messa al bando di Assad a favore dei terroristi siriani, dei tre anni di inazione militare che avevano permesso allo Stato Islamico di crearsi ed espandersi.

Intanto, prensiamo atto che – secondo la dottrina social-Democrat attuale – la Turchia è indispensabile per gestire profughi e rifugiati, che un maggiore controllo sui cittadini è necessario alla sicurezza sociale o … che la stabilità (e le le banche) è il valore primario subito seguito dalla … carriera.

Demata

Crimea, Ucraina, Kazakistan, Siria, petrolio, gas, Heimat, dominio dei mari e altro ancora

31 Mar

Se qualcuno volesse scrivere la sceneggiatura o delineare uno scenario internazionale di quanto sta accadendo tra Stati Uniti, Germania e Russia via Ucraina-Siria-Crimea, ce ne sarebbe abbastanza per un ottimo polpettone cinematografico stile Spy Stories ambientate durante la Guerra Fredda.

Iniziamo dalla scacchiera.

Il progressivo incremento dei trasporti via mare va di pari passo con le piraterie, i porti franchi e le micronazioni dalle tante pretese. La flotta russa, oltre ad essere più moderna di quella USA in fatto di portaerei, è pressochè inutilizzata e confinata nei mari freddi del Baltico e dell’Artico. La superiorità della tecnologia militare russa è notoria anche a livello di aviazione (Sukoi – Mig), di ‘artiglieria’ leggera (sistemi razzo russi e iraniani) e di armi leggere (Kalashnikov). E, quanto alle guerre in Afganistan, possiamo prendere atto che i soldati russi si dimostrarono ben più coriacei dei cow boys yankees odierni.

Il Climate Change prefigura un notevole incremento delle terre coltivabili a disposizione delle repubbliche ex sovietiche, Russia inclusa. Niente di fantascientifico. E’ già accaduto 3-4.000 anni prima di Cristo e dal 600 d.C a seguire che le popolazioni scandinave, grazie al disgelo, siano cresciute demograficamente ed abbiano dovuto espandere i propri territori. Inoltre, il dopo Fukushima rende ancor più interessante l’uso del gas naturale come fonte energetica. Questo gas, per motivi geografici, deve passare attraverso l’Ucraina o il mare al largo della Polonia, che sono ambedue, ormai, delle colonie della Deutsche Bank e della Goldman&Sachs. Una discreta quantità del gas ‘russo’ proviene dalla repubblica kazaka, dove vivono e governano gli ultimi discendenti di quella che alcuni considerano la ‘dodicesima tribù di Israele’, i Cazàri.

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Israele, a sua volta, non sembra essere per nulla infastidito nè dalle guerre – prima irakena, oggi siriana, per non parlare della caotica rivoluzione egiziana – nè dall’iperattivismo saudita in Medio Oriente. E, d’altra parte, mandare in tilt Damasco è il mezzo migliore per evitare che si ricomponga l’ultimo califfato mancante al mosaico, ovvero la riunione di Libano, Siria, Giordania e Iraq. Qualcosa di inimmaginabile negli anni ruggenti del sionismo, ma altrettanto realistica se Erdogan (ri)vince alla grande le elezioni.
E i ‘nemici’ di Israele sono noti da decenni: Russia, Iran e, guarda caso, Siria. Come lo sono gli ‘amici’: Stati Uniti e, guarda caso, Germania e Arabia Saudita.

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Dunque, esiste la probabilità che qualche potente kazako e qualche suo lontano cugino di New York o di Tel Aviv non vedano di buon occhio l’aggiramento dell’Ucraina e della Germania con gli oleodotti e i gasdotti del South Stream attraverso il Mar Nero. Tutto legittimo, come potrebbe esserlo, viceversa, l’idea russa di risolvere a pie’ pari il ‘problema ceceno’, che ha finora bloccato la realizzazione dell’autostrada energetica, riprendendosi la Repubblica di Crimea, regalata da Krushev all’Ucraina e da questa inglobata, che si trova abbastanza a nord per poter abbandonare la Cecenia al proprio destino di area tribale.

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Per completare la scacchiera, ricordiamo che l’Italia si  approvvigiona di gas tramite la Tunisia e potrebbe infischiarsene, come gli stati europei del Nord Europa che utilizzano il North Stream, come anche ha forti interessi (tramite ENI) in Kazakistan e, dunque, la ‘cresta’ che gli ucraini fanno sul gasodotto  principale non può farci gioire. Come non gioiscono – di sicuro – nè i bulgari, nè i serbi, nè i turchi, nè gli albanesi e neanche i molisani, che dalla messa in opera del South Stream potrebbero ottenere l’energia e l’upgrade necessari per lo sviluppo.
L’Italia è anche il paese al quale fu demandato di provvedere alla costruzione di caccia F35, in quantità non inferiore a 100 come sembra, che prima o poi saranno usati per fare la guerra da qualche parte.
E, se il Kazakistan vi ha portato alla mente il caso Shalabayeva-Bonino, mettiamo anche in conto che neanche 12 ore dopo le rassicurazioni di Obama a Renzi sul caso dei marò in India, il governo indiano ha dichiarato illegittimo l’uso delle leggi antiterrorismo a carico dei nostri militari, aprendo un’inchiesta.
Meglio incassare, si sarà detto Matteo Renzi, piuttosto che un nuovo caso Mattei … tanto sarà difficile scalzare ENI dalle repubbliche ex sovietiche e … dalla Turchia.

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Il tutto mentre, prima o poi, la Gran Bretagna si troverà – per la prima volta in 200 anni con un re giovane e, dopo tanti secoli, con un principe cadetto scalpitante. E mentre la Scozia potrebbe diventare una repubblica, incassando molto del petrolio del Mare del Nord, Londra sta cercando in ogni modo di ottenere il controllo dei ricchi pozzi delle Falkland – Malvinas, al largo dell’Argentina.
I francesi hanno i loro problemi, con una sinistra che ormai è andata ad aggiungersi ai lauti banchetti (e qualche scampagnata extraconiugale) dell’alta borghesia affermatasi nell’Ottocento.
Quanto alla Germania, c’è poco da dire: nel momento in cui è arrivata (anni fa) a dotarsi di una corolla di stati satellite (Olanda, Lussemburgo, Polonia, Ucraina, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca, Triveneto …), grazie al potere delle proprie banche e alla forza delle proprie istituzioni, i suoi confini coincidono con quelli della Heimat.

Obama?
Possibile che gli USA siano talmente alla canna del gas – tra complesso industrial-militar-finanziario e un melting pot che funziona in parte – da dover trasformarsi nel braccio (armato) degli interessi di Germania e Israele?
Dov’è l’afflato di Carter e di Clinton che riuscirono a costruire e sugellare l’armistizio ancora corrente, seppur instabile, tra Israele e Palestina? Dov’è la competenza di George Bush senior che preferì non invadere l’Irak? E dove sono gli staff di quei presidenti americani?

Perchè, da quando Barak Obama è subentrato a G. W. Bush come presidente agli inizi del 2009, della ‘Road map for peace‘ non se ne è più parlato?
E come spiegarsi il perchè, se Hillary Clinton – che pure ci aveva provato – ha lasciato la carica di Segretario di Stato a John Kerry, nipote di James Grant Forbes II e pronipote di Robert Charles Winthrop per parte di madre, ma anche nipote di ebrei austroungarici, immigrati ai primi del ‘900 in USA,  e con due zii  – Otto e Jenni  – sterminati dai nazisti con tutte le loro famiglie.

Timori dovuti, dato che Mr. President ha già dimostrato – in occasione delle rivolte arabe contro i regimi corrotti – di non cavarsela molto bene fuori dai confini delle metropoli wasp statunitensi. Come anche, ha lanciato promesse al vento, vedi il ritiro dall’Afganistan o la guerra lampo in Siria, per non parlare dell’Obamacare o dell’assimilazione degli ispanici o, peggio, del grande piano infrastrutturale che annunciò cinque anni fa.
Questa è la chiave di volta.

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Per il resto, va tutto bene. La Germania – grazie al distacco della Crimea dall’Ucraina – ormai arriva a Kiev e controlla i rubinetti di francesi e olandesi. L’Italia incassa sconti e commesse più due marò liberi, tanto tra tre mesi la banderuola gira. Israele ha un rapporto con i Sauditi ormai ben consolidato e, se l’Imperatore americano facesse il suo mestiere, si dedicherebbero ambedue al business as usual piuttosto che trovarsi prima o poi la casa in fiamme.
Russia e Kazakistan hanno indietro la loro Crimea e potranno avere un South Stream che fa capo all’attuale hub di Odessa, senza dover dipendere – come accade a noi italiani – dai voleri (e dagli affarucci) dei Graf di Berlino (e Monaco di Baviera), che – come Machiavelli e la storia medievale insegnano – abitano troppo vicino alle nostre amate coste.

Un grande presidente americano avrebbe rilanciato la Road Map per il Medio Oriente, prima che i turchi stacchino gli acquedotti che alimentano Israele. Un segretario degli esteri, con una carrriera da pacifista e da procuratore integerrimo del caso Contras, avrebbe rilanciato la Road Map per il Medio Oriente, prima che le masse arabe (egiziane e non solo) rivolgano all’esterno piuttosto che all’interno le loro tensioni.
Ma Obama e Kerry di politica estera ne masticano poca e di storia e dottrina politica ancor meno, basta leggere i curricula da avvocati per saperlo, e così andando le cose a festeggiare saranno Putin e Merkel …

Non a caso i repubblicani di Romney sono partiti alla carica, poichè proprio in campagna elettorale Obama accusò il suo contendente di ‘ricadere nella Guerra Fredda’, mentre i democratici – temendo che la debolezza finora dimostrata dal ‘loro’ presidente possa rivelarsi  un boomerang – ormai si sono  aggregati al coro bipartisan che al Congresso chiede di inviare aiuti militari in Ucraina ‘per supportare il nascente governo’.
La Crimea? E’ russa, come avranno avuto modo di spiegare le diplomazie francesi e inglesi …

originale postato su demata

 

La BBC diffonde prove false contro Assad

7 Set

“La propaganda anti-Assad si serve di grandi nomi, tv potenti, accreditate e giornalisti di lustro. E quando i giornali accreditati sono molto seguiti non occorre nemmeno il sensazionalismo tanto demonizzato dai lettori e se una notizia di propaganda è nutrita di sensazionalismo, non importa. L’uomo medio la filtra e la riconosce come “notizia certa.

E’ quello che è accaduto alla BBC, tv inglese seguita in tutto il mondo.” (fonte Coscienzeinrete)

Infatti, la BBC, trasformatasi da mesi in una sorta di strumento di propaganda anti-Assad, ha diffuso un’immagine ‘shock’, affermando che è stata scattata nella città siriana di Hula ed inviata da alcuni attivisti in Siria, a testimonianza dei massacri attuati dalle forze di Assad avrebbe attuato nel suo stesso popolo per sedare le rivolte affamate di “democrazia”.

In realtà, è un falso, come ha denunciato su Facebook da oltre un anno dall’autore, un fotografo free lance.
“E’ un Italiano e si chiama Marco Di Lauro. Quando ha scattato la foto era il 27 marzo 2003 a Al Musayyib, una città iraqena a 40 km a sud di Baghdad.” (fonte Ecplanet)

massacro siria irak di mauro fotografo falso BBC

Qualcuno sta usando illegalmente una delle mie immagini per la propaganda anti-siriana in prima pagina del sito web della BBC“, questo il post del 27 maggio 2012 (link) dove è precisato anche che il reportage di Marco Di Lauro era ‘by Getty Images’, ovvero nel catalogo di una delle maggiori agenzie fotografiche del mondo.

Come sia riuscita la BBC ad affondare nel fango della propaganda bellica è davvero un mistero.

E’ viceversa tutto da chiarire come sia riuscito Gianni Letta ad associarsi allo sparuto gruppo degli stati che accusano Assad senza averne (ancora) le prove.
Specialmente se il nostro Ministero degli Esteri, nella persona di Emma Bonino, e la Santa Sede sembrano avere informazioni diverse e molto più accurate di quante finora sbandierate dall’asse Stati Uniti – Gran Bretagna – Arabia Saudita …

originale postato su demata

Obama e la Siria: ultima corvée per i Democratici?

2 Set

Obama dovrà attendere il voto parlamentare per attaccare la Siria, dopo aver baldanzosamente annunciato: «ho deciso che gli Stati Uniti conducano un’azione militare contro il regime siriano», «ho il potere di ordinare l’attacco senza il via libera di Camera e Senato»

Una catastrofica figuraccia, perchè l’iter si concluderà intorno alla metà di settembre e, in caso di rinuncia all’attacco, con grande spreco di carburante che si è reso necessario per trasferire un’intera flotta di fornite le coste libanesi a carico dei contribuenti statunintensi.

La defaillance presidenziale era stata ampiamente annunciata da questo blog, in due post: Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca, dove si riportava la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gove Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente, e Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere, dove si raccontava del’interferenza saudita, della sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e dell’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Così, infatti, sono andate a finire le cose, con la Gran Bretagna che ha congelato le velleità belliche di Cameron e con la Francia di Hollande unica e sola nell’appoggiare Mr. President.

Le ricadute globali di questo disastro politico obamiano sono e saranno pesantissime, forse epocali, anche se dovesse riuscire a lanciare i suoi ‘attacchi mirati’ senza subire ripercussioni dalla reazione siriana, senza i ‘danni collaterali’ causati in Iraq, Libia e Afganistan e senza scatenare l’Armageddon in Medio Oriente.

Infatti, quello che viene drammaticamente a cadere è tutto il modello politico democratico e progressista di cui Obama (e Hollande) erano gli ultimi alfieri.

Un approccio internazionale ‘orientato al confronto’ che non ha saputo risolvere la questione Guantanamo, nè quella afgana o quella israelo-palestinese. Che ha visto esplodere drammatiche rivoluzioni nordafricane e mediorientali contro dittatori appoggiati dai poteri mondiali, a tutt’oggi non stabilizzate. Che non ha avviato una politica ‘atlantica’ di superamento della crisi mondiale, con tutte le conseguenze date da una Germania egemone e prepotente. Che ha permesso una notevole crescita dell’instabilità nell’Oceano Indiano e nell’America Meridionale.

Cartoon da Cagle.com

Cartoon da Cagle.com

Una esibizione di muscoli – in Libia come in Siria – decisamente pletorica e controproducente. Questo è uno dei verdetti relativi al presidente Barack Obama, ma non è tutta colpa sua.

Infatti, quale futuro può esserci per l’ideale ‘democratico’ (o meglio progressista), se il mito del Progresso è stato infranto già dalla fine degli Anni ’70? O, peggio, se gli stessi Progressisti hanno provveduto – venti e passa anni fa – a sdoganare la Cina Popolare, la Russia di Eltsin e Putin, il Venezuela di Chavez, la strana federazione indiana della famiglia Gandhi, un tot di regimi islamici e qualche residuale dittatura fascista o socialista?

Che farne del costo del lavoro e dei salari minimi, della sanità pubblica, delle pensioni, del welfare, se il sistema globale necessita, per alimentarsi e fluidificarsi, di ignorare l’elemento fondante una società organizzata, ovvero la solidarietà umana?

Come offrire ‘progresso’ in cambio di ‘tradizione’ e ‘pace’ in vece di ‘cambiamento’, se l’effetto conseguente è ‘meno solidarietà’, ‘meno uguaglianza’?

E come esprimere qualcosa di ‘progressivo’, in una società dove non è il lavoro l’elemento alienante delle nostre esistenze, bensì lo sono i consumi e l’iperconnessione?

Dopo un quinquennio di pessime mosse in politica estera e di tagli continui al Welfare, la figuraccia di Obama – nel suo quasi solitario tentativo di inaugurare una nuova guerra mondiale, sulla base dei soliti e sacrosanti doveri morali – è la ciliegina sulla torta per chi cercasse una riprova che o si ritorna ad uno stato etico e liberale oppure progresso, democrazia e welfare diventeranno sempre più una chimera.

Una questione che coinvolgerà tutti i partiti progressisti nel mondo, già vessati da oscene storie di corruttela o di sliding doors in cui tanti dei suoi leader sono stati coinvolti. Ed, infatti, Hollande si è ben guardato da intaccare l’autorevolezza delle istituzioni francesi e l’accessibilità dei servizi ai cittadini, mentre i ceti popolari metropolitani slittano sempre più a destra in Francia, dopo che alcuni leader socialisti sono transitati con non chalance dall epoltrone di partito a quelle degli organi di garanzia per pervenire, sistemate le cose a modo loro, ai vertici di alcune maggiori holding francesi.

Andando all’italia, dove la sola e solitaria Emma Bonino ha avuto il coraggio di ricordare il ‘rischio di una guerra mondiale’, ci troviamo con l’Obama di casa nostra, Matteo Renzi che si propone insistentemente per la guida del Partito Democratico.

Non è che storicamente il Partito avesse brillato per la presenza di leader nati e cresciuti in una qualche metropoli, ma c’è davvero da chiedersi cosa mai potrà permettergli di chiamarsi ‘progressisti’, se il leader è un uomo, che arriva ‘fresco fresco’ da una piccola città di provincia in un mondo miliardario e globale, che deve la sua sopravvivenza alle vestigia – mai rinverdite o rinnovate – del suo lontano Rinascimento e delle speculazioni finanziarie dei loro antenati?

 originale postato su demata

Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere

26 Ago

Usa e Gran Bretagna “pronti ad attacco entro dieci giorni”, ma Mosca avverte che “con intervento le conseguenze sarebbero gravissime” ed ammonisce su una “nuova avventura irachena”. Assad promette: “Li aspetta il fallimento”. Secondo il Daily Telegraph e il Daily Mail, la decisione sarà presa “entro 48 ore”, dopo la lunga consultazione di ieri tra Barack Obama e David Cameron.
La Casa Bianca, per ora smentisce, ma Hollande indirettamente conferma: “Si deciderà entro prossima settimana” e la Bbc ha comunicato che il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ritiene che una risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime siriano sarebbe possibile anche senza l’appoggio unanime del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Intanto, gli ispettori dell’Onu sono alla ricerca di tracce del gas nervino contro gli insorti nell’oasi di Ghouta in Siria, mentre decine di migliaia di curdi siriani e di rifugiati palestinesi si stanno aggiungendo a quanti cercano con ogni mezzo di uscire dal paese.

La dislocazione delle forze militari nel settore è elevata ed il rischio di escalation è notevole.

foto da maritimequest.com

La Royal Navy garantisce una presenza navale massiccia tra cui un sottomarino a propulsione nucleare, la portaerei Hms Illustriuos, la portaelicotteri Hms Bulwark e almeno 4 fregate, oltre alla copertura aerea garantita dalla base Raf ad Akrotiri a Cipro.

Oltre alla presenza della VI Flotta nel Mediterraneo e della forza di intervento rapida dislocata in Sicilia e nella base aerea di Incirilik a Smirne in Turchia, a cui si potrebbero aggiungere i caccia F-16 dislocati in Giordania, gli USA hanno collocato in prossimità delle acque siriane almeno quattro cacciatorpedinieri di classe Arleigh Burke.

La plancia di un sistema AEGIS – da Wikipedia

Questi destroyer sono armati ognuno con 96 missili da crociera Tomahawk, effettivi per bersagli fino a 2.500 km di distanza, ma, soprattutto, dotati  di sistemi AEGIS, per la guerra elettronica, capaci di integrare i vari sottosistemi e far reagire la nave alla presenza di minacce di superficie, aeree e subacquee.

L’Italia ha in Libano la Brigata di Cavalleria ” Pozzuolo del Friuli”,  lì dislocata per l’Operazione Leonte, voluta dal Governo Prodi nel 2006. La Francia è presente con una consistente presenza terrestre (tra cui 16 carri armati pesanti Leclerc ed aviazione leggera ALAT di supporto) e già nel 2006 aveva dislocato le navi anfibie  Mistral e Siroco e le fregate Jean Bart and Jean de Vienne. La Germania dispone di circa 200 uomini, addetti prevalentemente a logistica e intelligence, e di due navi pattugliatrici.

La Russia ha spedito nella sua storica base navale di Tartus, verso il confine siriano con il Libano e di fronte Cipro, almeno una dozzina di mezzi navali, secondo il Wall Street Journal, mentre soli i civili russi presenti in Siria sono stimati in 30.000 persone secondo il Financial Times.

foto da naval-technology.com

Tra queste navi, ci sono la squadra guidata dalla portaerei Admiral Kuznetsov, che trasporta gli avanzati caccia multituolo Su-33 ed elicotteri d’assalto Ka-27, Ka-28, Ka-29, Ka-32 ed è equipaggiata con il sistema antinave Granit, i modernissimi sistemi di guerra elettronica antiaerea Kortik e Klinok, più l’Udav che offre protezione dai sottomarini. Si aggiungono le navi anfibie d’assalto classe Ropucha, l’Aleksandr Otrakovskiy, la Georgiy Pobedonosets e la Kondopoga, con centinaia di marines a bordo, ed una task force che include il cacciatorpediniere antisommergibile Admiral Panteleyev, la fregata Yaroslav Mudry, altre enormi navi anfibie d’assalto,  la  Peresvet, la Kaliningrad, l’ Alexander Shablinaltre e l’Admiral Nevelskoi, più diversi mezzi navali attrezzati per la guerra elettronica come gli incrociatori antimissile classe Slava, i sottomarini classe Tango e Kilo, le corvette classe Grisha e Dergach. Inoltre, è in prossimità l’intera Black Sea Fleet di stanza nel Mar Nero ed, in particolare, come reazione rapida, il 25° Reggimento Elicotteristi attrezzato con almeno venti Ka-27 and Mi-14, il 917 Reggimento aviotrasportato, il 43° Squadrone dotato di 18 velivoli Su-24M e 4 Su-24MR.

Marines russi a Tartus da Globalpost.com

Il ministro della Difesa russo, alla Pravda, ha precisato recentemente che la Russia non intende ritirare un solo uomo dalla base di Tartus, che rappresenta la sua unica opzione nel Mediterraneo e questo chiarisce la posizione di Mosca riguardo la Siria e palesa il timore di essere scalzata dal suo avamposto, nel caso di una caduta di Assad.
Considerato anche che la Russia ha molto investito in questi anni sulla propria flotta e sugli strumenti per la guerra elettronica, la motivazione appare non solo evidente, ma ampiamente plausibile, in un’ottica di delicati equilibri internazionali.

L’Izvetzia di oggi ha pubblicato una lunga intervista con il presidente siriano Assad (link), che ha negato l’uso di armi chimiche e ha accusato l’Arabia Saudita ed i wahabiti di fomentare e finanziare gli insorti. Inoltre, “sono sono stati ottemperati tutti i contratti stipulati con la Russia. E né la crisi, né pressioni da parte degli Stati Uniti, l’Europa e gli Stati del Golfo hanno impedito l’attuazione. La Russia fornisce Siria che cosa ciò che richiede per la sua difesa, e per la difesa della sua gente.
Diversi stati che si oppongono al popolo siriano hanno inflitto gravi danni sulla nostra economia, soprattutto a causa del blocco economico, a causa della quale noi oggi soffriamo. Russia ha agito in modo diverso. Quando la sicurezza nazionale è indebolita, questo si traduce in un indebolimento della posizione economica. E va da sé che il fatto che la Russia fornisce contratti militari della Siria e questo porterà ad un miglioramento della situazione economica in Siria.

Il sostegno politico della Russia, e anche l’adempimento accurato di contratti militari, nonostante la pressione degli Stati Uniti hanno migliorato significativamente la nostra situazione economica.
E, in particolare, parlando di economia, qualsiasi linea di credito da un paese amico come la Russia è vantaggiosa per entrambe le parti. Per la Russia può significare l’espansione dei mercati e di nuove opportunità per le imprese russe, mentre per la Siria è l’occasione per raccogliere fondi per sviluppare la propria economia.”

Se le cose stanno così, almeno a sentirle raccontare ‘dall’altra sponda’, lascia molto perplessi l’annuncio della Casa Bianca di ‘star studiando il modello Kosovo’, visto che si tratta del ‘buco nero’ di tutti i traffici che ci ritroviamo – noi europei – collocato nel bel mezzo dei Balcani, oltre all’infiltrazione islamista che fu solo relativamente contenuta e le stragi etniche che furono perpetrate anche dai ‘liberatori’.

Tra l’altro la Siria ha un esercito di tutto rispetto con circa 300.000 effettivi, oltre 350 caccia MIG di diverso, anche recente, aggiornamento, e 70 Sukoi per l’attacco al suolo, un centinaio di elicotteri d’attacco, una decina di motovedette lanciamissili classe Osa, almeno 2.000 mezzi per la contraerea, oltre 4.000 missili antiaerei spalleggiabili, una cinquantina di mezzi per razzi e missili balistici tattici classe Scud, Frog e OTR-21 Tochka, migliaia di pezzi d’artigleria o lanciarazzi multipli, quasi cinquemila carri armati di produzione russa classe T54/55, T62 e T72.

Il rischio di un nuovo disastro iracheno, stavolta alle porte di Gerusalemme e di fronte a Cipro, è evidente.
In Siria il problema scatenante il conflitto è dato dall’insorgere dei ceti sunniti contro la minoranza alawita che sostiene da sempre la famiglia Assad e come vadano a finire certe spinte moralizzatrici l’abbiamo appena constatato con il tentativo di golpe bianco di Morsi e dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Ma la Siria è anche confinante con l’Iraq, non ancora pacificato, con il Libano, che vede una folta presenza di forze UNIFIL ‘ad interim’, con Israele, che non vede di buon occhio “i crociati in Terrasanta’, con la Turchia, dalla quale Erdogan spinge per uno stato confessionale, con la Giordania, dove l’impatto dei profughi e le tensioni palestinesi sono già allarmanti e dove già da mesi è stato inviato il team del Meccanismo europeo di protezione civile inviato da Bruxelles, con alla guida un italiano.

La guerra in Irak contro il dittatore Saddam Hussein si è rivelata un disastro per il popolo iracheno, un buon affare per i petrolieri statunitensi e britannici, un ottimo subentro per qualcuni dei tanti sceicchi miliardari che l’Arabia Saudita partorisce, una bombola d’ossigeno per Wall Street e per l’occupazione occidentale durata un decennio.

La Siria aveva nel 2010 un PIL di circa 60 miliardi di dollari, ha una produzione di petrolio di 522.700 b/g, a fronte di un consumo interno di 265.000 b/g, una buona presenza industriale. Lo sviluppo dell’economia è stato ostacolato dalla collocazione ‘non allineata’ della Siria rispetto alla questione irachena, che condiziona gli scambi con i paesi occidentali. L’incremento dei prezzi delle merci nei mercati globali hanno portato ad un brusco aumento del tasso di inflazione e della disoccupazione.

Dopo il disastro iracheno, la guerra infinita in Afganistan, il caos libico, la dittatura militare in Egitto,  la paralisi del Libano e della Giordania, quale altro pasticcio stanno per combinare Gran Bretagna e Stati Uniti, in territori e culture che – ormai è evidente – non riescono a comprendere e gestire fin dai tempi di Lawrence d’Arabia e delle fallimentari Anglo-Afghan Wars, dopo aver disarticolato il peso di Turchia, Due Sicile e Catalogna nel Mar Mediterraneo.

Un Mediterraneo sul quale si adombrano fosche nubi, non solo per l’instabilità nordafricana o per la questione israelo-palestinese, ma anche e soprattutto per l’interferenza saudita e la sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e per l’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Intanto, dalla Cina Popolare il ministro degli Esteri, Wang Yi, ricorda a Barack Obama di non potersi permettere di scatenare una guerra sulla base di accuse false, come accade con G. W. Bush, precisando che “tutte le parti dovrebbero gestire la questione delle armi chimiche con cautela, per evitare di interferire nello sforzo generale di risolvere la questione siriana attraverso la soluzione politica”.

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G8: il libero scambio e l’Italietta di Pinocchio

19 Giu

Mentre a Firenze scoppia un sordido scandalo di prostituzione, politica e strapaese, l’Italia scopre che il mondo non è rimasto ai tempi di Bertoldo, visto che anche da noi uno studente di 24 anni – Giuliano  Delnevo – si era convertito all’Islam con il nome di Ibrahim per, poi, andare a morire in Siria come combattente islamico.

Intanto, solo una settimana fa, Bloomberg annunciava un enorme piano per proteggere New York dagli effetti del cambiamento climatico, con una iniziativa da 20 miliardi di dollari, finalizzata a innalzare gli argini, ricollocare le reti profonde e creare una barriera di alti edifici sull’East River.

E, mentre la Turchia è allo scontro frontale tra un paternalismo infarcito d’islamismo ed un nazionalismo necessariamente laico, accade anche che, in Iran, Hassan Rouhani diventi il nuovo presidente della Repubblica islamica, mentre i due candidati dell’opposizione alle elezioni passate – Mehdi Karroubi e Mir Hossein Mousavi – si trovano agli arresti domiciliari da anni.

Dal G8 nell’Ulster, Obama e Londra annunciano la New Age, ovvero una zona di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti d’America, che a loro volta hanno accordi commerciali simili con Messico e Canada.  La Francia borbotta, la Germania si adegua, da circa un mese il settore manifatturiero cinese va a rotoli e le borse orientali sobbalzano.

Cosa fa l’Italia?
Attende che il prossimo congresso del Partito Democratico dirima questioni inconfessabili e pruriginose  e che Silvio Berlusconi prenda atto dei troppi scandali che, ormai, lo contraddistiguono.
Come ci sarà anche da attendere, poi, che l’Italia bertoldina di questo trascorso Ventennio ritorni al proprio ruolo di ‘caporale’ dopo essere assurta, molto immeritatamente, a gradi di gran lunga superiori.

Un’attesa che sarà puntualmente dis-attesa, se il mondo andrà avanti e noi non troveremo il coraggio di lavare – con moderazione, ma presto – i troppi panni sporchi che abbiamo accumulato.

Già non è stato il massimo essersi presentati al G8 irlandese con il cappello in mano del cattivo pagatore, con una rinomata corruzione, qualche mafia da esportazione ed uno stuolo di evasori traffichini o sfaccendati.
Mancherebbe solo di arrivare all’appuntamento del libero scambio USA-UE con un’Italia puntualmente ingovernabile, troppo somigliante al Messico dei narcos ed all’Est Europa dei mille traffici, mentre, as usual, c’è qualche interesse di campanile o di parrocchia da tutelare.

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Iran-Israele, un altro scienziato ucciso

11 Gen

Oggi, un’autombomba è esplosa a Teheran, nei pressi dell’università ‘Allameh Tabatai’, uccidendo lo scienziato nucleare iraniano Mostafa Ahmadi-Roshan, supervisore nell’impianto nucleare per l’arricchimento dell’uranio a Natanz, provincia di Isfahan, nell’Iran centrale.
Ahmadi-Roshan è il quarto scienziato nucleare iraniano assassinato negli ultimi anni, oltre a quelli scampati ad attentati o rimasti solo feriti, come Daryoush Rezaei e la moglie (ferita), Majid Shahriari, Fereydun Abbasi Davani (ferito) ed il fisico nucleare di fama internazionale, Massoud Ali Mohammadi, ai quali si vanno aggiungere i passanti, come i due rimasti feriti di oggi.
Teheran finora ha sempre accusato Israele per questi omicidi.

Nel mese di ottobre scorso il quotidiano di Ankara “Sabah” raccontava che i servizi segreti turchi erano riusciti ad individuare quasi tutti i militari israeliani coinvolti nell’arrembaggio della nave “Mavi Marmara”, che portava viveri a Gaza assediata, ed autori della strage (9 morti) di attivisti turchi a bordo.
Secondo la relazione del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu (UNHRC), rilasciata il 27 settembre 2010, sei di loro sono state vittime di “esecuzioni sommarie”, di cui due, dopo che erano stati feriti gravemente. Per Israele i rapporto ONU sarebbe “di parte”.

Più o meno mentre la relazione dell’UNHCR veniva conclusa, il 20 settembre 2010, sempre nella capitale turca, l’Ankara, un attentatore suicida si faceva esplodere ferendo 10 poliziotti e  12 civili tra cui studenti, che a poca distanza dall’esplosione manifestavano.
Più o meno mentre il dossier dei servizi segreti turchi veniva completato, il 20 ottobre del 2011, un’autobomba esplodeva in un quartiere centrale di Ankara, causando tre morti e 43 feriti, e le prime ipotesi che attribuivano l’attentato ai curdi non trovavano riscontri.

Ovviamente, l’individuazione dei diretti responsabili dell’assalto alla Mavi Marmara comporta la possibilità che gli stessi vengano inclusi individualmente nella lista delle persone che si sono macchiate di crimini di guerra, processabili da un tribunale internazionale.
Inutile aggiungere che due attacchi alla capitale turca sono considerati particolarmente anomali.

Nel 1973, l’Argo16, un aereo Douglas C-47 Dakota dell’Aeronautica Militare italiana, precipitava, a causa di una esplosione a bordo, su a Marghera, causando la morte dei quattro membri dell’equipaggio e sfiorando un disastro ambientale, mentre rientrava da una missione filoaraba.
Il generale Maletti, ex capo del reparto D (controspionaggio) del SID, riporta che l’aereo stava facendo ritorno dopo aver trasportato in Libano e Libia cinque terroristi palestinesi catturati a Fiumicino, mentre preparavano un attentato alle linee aeree israeliane.
Ha inoltre dichiarato di essere stato contattato dall’allora capo del Mossad a Roma, Asa Leven, che intendeva sequestrare i cinque per estradarli a Tel Aviv,  ma “non se ne fece nulla” e “Argo 16 precipitò”. L’intervista fu raccolta per Repubblica da Daniele Mastrogiacomo, il giornalista, anni dopo, sequestrato dai Talebani in Afganistan.

Sempre negli Anni ’70, Israele avviò l’operazione Collera di Dio, voluta da Golda Meir ed organizzata dal Mossad per assassinare larga parte del personale politico di Settembre Nero e dell’OLP nell’arco di un ventennio.
Nel 1946 la Banda Stern, un’organizzazione sionista, effettuò un devastante attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme con 91 morti di varie nazionalità e, il 31 ottobre 1946, un nuovo attentato con esplosivi colpì gravemente l’Ambasciata britannica a Roma.

Utile aggiungere, vista l’idea che potremmo farci su queste storie, che ebreo, semita, israeliano e sionista non sono nè dei sinonimi nè delle parole  necessariamente coincidenti: non stiamo parlando né degli ebrei né dei semiti, come del resto anche gli arabi sono, ma dei sionisti, degli integralisti religiosi e delle politiche della Destra al governo in Israele.

P.S.
La questione “destra-sinistra” in Israele è alquanto diversa dalle altre democrazie di stampo liberale, a causa della presenza, nel parlamento e nel paese, di una certa componente integralista e di una potente lobby militare.
Il riferimento è necessario perchè l’unico vero governo “non di destra” che Israele abbia mai avuto è stato, non a caso, quello di Yitzhak Rabin, l’uomo che firmò gli Accordi di Oslo con Arafat, ponendo fine ad una carneficina (tra cui gli attentati con esplosivi) ed arginando il perenne rischio di una escalation bellica nel Medio Oriente.

Yitzhak Rabin fu ucciso il 4 novembre 1995 da un “terrorista sionista”, Yigal Amir, un radicale di destra, nato in Israele da una famiglia di ebrei ortodossi, espulsi dallo Yemen dopo il Kippur. La morte di una figura così carismatica mise il paese nelle mani del generale Sharon, già distintosi per le sue sanguinose campagne in Libano e, così andando le cose, la “pace” riprese il volo.

Nessuno mette in discussione l’esistenza dello stato di Israele, come anche la preoccupazione per la folle teocrazia iraniana è alta ed il rispetto per la cultura ebraica, come per quella araba od iranica, è sentito.
Ma uno stato, specie se piccolo e relativamente debole, non può ricorrere “per sistema” ad operazioni sporche, specialmente mentre, ai tempi della crisi di Suez come oggi, è in campo un potenziale nucleare.
O mentre esiste il concreto rischio che Gaza si sia trasformata in qualcosa di molto simile a Varsavia di alcuni decenni fa …

Non dovrebbe esisterne neanche il dubbio.

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Iran, Turchia e gli errori di Israele

16 Nov

Mentre l’Europa, distratta e pacifista, si dibatte discutendo d’Euro, di debito sovrano e di declino nazionale, dall’altro lato del Mediterraneo si sta assistendo ad una rapida escalation del “problema israeliano”.

Si, “problema israeliano”, come lo percepiscono oltre un miliardo di islamici, anche detto “problema palestinese” da parte di circa 700 milioni di euro-americani e, naturalmente, gli israeliani.

In realtà, non me ne vogliano i sionisti “puri e duri”, il Medio Oriente è “di per se” conformato per essere gestito da un’autorità sovranazionale: è un impianto infrastrutturale che si perde nella notte dei tempi. Basti dire che, a ben guardare le mappe, nessuno degli stati di quei territori, ad eccezione di Turchia e Libano, può dirsi “autosufficiente”.

Ritornando alla “questione israelo-palestinese”, non possiamo trascurare che, nel 1947, gli Inglesi erano mossi da motivazioni umanitarie e non sioniste, quando concessero il permesso all’esodo in Palestina, e che l’ONU, nel 1967, fissò una ragionevole e negoziabilissima linea di demarcazione che Israele non ha mai rispettato, in ragione della necessità di difendersi dai terroristi.

Eppure, se entriamo nel campo del diritto internazionale, la Gran Bretagna non ha mai “allargato” i confini dell’Ulster, per creare una “fascia di protezione” contro i terroristi dell’IRA, che, proprio negli stessi anni, arrivavano dalle basi collocate nella repubblica irlandese. Come anche va sottolineato che i palestinesi di religione cristiana, che terroristi non sono, subiscono lo stesso trattamento degli islamici, i cui correligiosi hanno commesso stragi.

Vicende che, attenzione, sono state condannate anche da molti ebrei atei o cristiani, come, ad esempio, quelli che militano nei partiti della sinistra europea, oltre che da tanti giovani israeliani.

Ed, così andando le cose, arriviamo ai nostri giorni, quelli “in cui il governo israeliano discute i piani d’attacco ai reattori nucleari di Ahmadinejad”, come riporta il Corriere della Sera. Un’idea veramente folle, se consideriamo le ricadute internazionali, oltre che interne.

Se Israele attaccasse l’Iran, le reazioni di Hamas ed Hezbollah, con il conseguente carico di autobombe e di razzi homemade, rappresenterebbero l’aspetto più gestibile dell’impresa.

Infatti, Israele dovrà attendersi una reazione della Cina Popolare, non militare e non immediata come da tradizione orientale, ma è evidente che i cinesi non dimenticherebbero una tale “affermazione di potenza” da parte di Israele nè sottovaluteranno un’azione immotivata e unilaterale verso l’Iran, che è un alleato strategico di Pechino e che reclama il diritto a dotarsi di un’atomica, visto che ce l’hanno Israele, Russia, Pakistan, India e Cina.

In secondo luogo, un attacco senza preavviso trasformerebbe Siria, Irak, Afganistan e Pakistan in una polveriera, con il possibile risultato di unire gli integralisti sciiti e sunniti.

E nulla è dato sapere su come reagirebbero le democrazie ed i mercati europei.

Ma il male peggiore arriverebbe dalla reazione di Libia, Egitto, Tunisia eccetera, dove i Day of Rage hanno abbattuto tiranni e ribadito la legge islamica entro, per ora, i limiti di uno stato laico come avviene in Turchia, che è la potenza, industriale e militare, del Medio Oriente.

Gi attriti tra Ankara e Tel Aviv sono ormai quotidiani, le basi aeree turche  sono ai confini del Libano, a pochi minuti di volo dagli obiettivi, mentre la marina potrebbe garantire addirittura uno sbarco in forze, ad esempio a Gaza.

Senza contare il fatto che la reazione iraniana arriverebbe comunque, probabilmente sotto forma di attentato, e che, per cancellare lo stato di Israele, basterebbe rendere radioattiva la città di Tel Aviv, cosa minacciata più volte da quel pazzo di Ahmadjinejad.

Una Turchia, rifiutata dall’Europa, che ha un esercito con addestramento ed armamenti NATO, la quale, senza ricorrere a scenari apocalittici, potrebbe sospendere l’enorme fornitura di acqua potabile con cui serve Israele, visto cosa accadrebbe nelle moschee di tutto il mondo se venissero attaccate le centrali nucleari a nord di Tehran.

Infine, il mondo intero, che difficilmente perdonerebbe chi avesse dato lo start up ad un conflitto regionale di tale portata.

Israele deve fermarsi ed accettare che, con buona pace di integralisti e sionisti, l’idea di un “dio” che predilige popoli e nazioni è minoritaria e contestabilissima: la divisione dei territori deve essere “laica” e non “integralista”, da ambo le parti.
E’ anche inaccettabile l’idea di “guerra preventiva”, enunciata da Moshe Dayan e realizzata, malamente davvero, da George Walker Bush: produce un’enorme quantità di martiri e di eroi.

Le premesse di una guerra si combattono con l’ipotesi di una pace e questo non significa essere pacifisti, ma semplicemente ricordare che c’è un tempo per le armi ed un altro per le parole, come anche che uno stato assediato non è uno stato libero, nè verso l’interno nè verso l’esterno.

Quanto al futuro, il vero “nemico” dell’isolazionismo di Israele è la Turchia, visto che il Medio Oriente ha bisogno di un’autorità sovrannazionale “laica” che possa garantire la pacifica convivenza di islamici, ebrei e, non dimentichiamolo, cristiani.

Sarà lo stesso sogno cosmopolita degli ebrei dei ghetti, quello che sta trainando la globalizzazione mondiale e che accomuna i giovani di tutto il mondo su internet, a sconfiggere, prima o poi, l’isolazionismo sionista, oltre che l’integralismo islamico.