Tag Archives: studio

L’età della ragione? Dopo i 24 anni

27 Apr

In accordo con il British Medical Journal, recenti ricerche sugli adolescenti pubblicate da The Lancet determinano che il cervello non è maturo o, comunque, completamente sviluppato prima dei 25 anni di età.

Infatti, anche avvalendosi di una massiva documentazione, raccogliendo dati su un totale di 1,2 miliardi di adolescenti, gli scienziati hanno messo in evidenza diverse conclusioni allarmanti.

Innanzitutto, il 40 per cento dei decessi in 10-a 24 anni di età in tutto il mondo sono causati da incidenti d’auto e danno intenzionale causato da suicidio e violenza.
La morbilità e la mortalità, inoltre, suggeriscono che gli adolescenti sono significativamente interessati da lesioni e disturbi neuropsichiatrici.

Ogni anno 1,4 milioni di adolescenti muoiono a causa di incidenti stradali, le complicazioni del parto, suicidi, AIDS, la violenza e altre cause. Nonostante i progressi medici e tecnici in una società che tutela gli adolescenti nello studio e nel lavoro, le morti di adolescenti sono diminuite solo marginalmente, se si fa il confronto con la mortalità infantile.

Mediamente, nel mondo, 17 teenagers (15-19 anni) maschi su 100.000 è ucciso in conseguenza di atti di violenza. Molte ragazze tra i 13-15 anni, specialmente in USA, Austria e Irlanda – sono delle “binge drinker”, cioè bevono cinque o più bevande alcoliche in un giorno. I morti per coma alcolico tra i teenagers è in allarmante aumento.

E? arrivato il tempo, come sottolinea il British Medical Journal, di “porre il “giovane come persona” al centro  della questione, dato che la salute degli adolescenti è ancora oggi una “specialità marginalizzata” che deve essere elevata a “mainstream” nelle agende globali relative alla salute.

Gli esperti hanno anche evidenziato che il numero assoluto degli adolescenti è previsto in aumento fino al 2050.

Dunque, l’idea di abbassare l’età di accesso al voto sembra essere scientificamente infondata ed, addirittura, dovremmo riportare l’asticella del diritto al voto all’età di 21 anni, come da tradizione.

D’altra parte, il primo accesso alla politica in età maggiore dell’attuale – e più adeguata al reale accrescimento psicofisico – garantirebbe un primo voto più consapevole e responsabile, non frutto di una qualche infatuazione adolescenziale.

Brutte notizie per quei partiti e quelle “think tank” che da tempo tentano di abbassare a 16 anni l’età di voto, come “bad news” arrivano per chi, da oltre un secolo, cavalca il naturale ribellismo giovanile per capitalizzare voti ed adesioni.

Come anche per quanto riguarda la necessità di una moratoria sui programmi televisivi ed i videogiochi per i teenager, solitamente violenti o macabri, ed il dilagante fenomeno degli alcolici e delle droghe da (s)ballo tra i minorenni.

originale postato su demata

Ipsos MORI, default USA, indignados europei: specchi diversi di un tempo che cambia

14 Lug

Ipsos MORI, eminente ente di ricerca del Regno Unito, ha pubblicato uno studio  molto accurato sulla globalizzazione, che analizza nel dettaglio alcuni aspetti relativi alla soddisfazione dei cittadini ed ai relativi aspetti etici (link).

Innanzitutto, emerge che quasi nessuno “è contento della globalizzazione”: pressoche nessuno tra gli europei (ad eccezione dei polacchi), gli statunitensi e giapponensi è favorevole, mentre tra i paesi “entusiasti” solo l’India e la Cina Popolare raggiungono o superano il 30%.

La maggiore preoccupazione, che la globalizzazione induce nei cittadini, è la “disoccupazione” (50% delle persone), seguita dall’incubo della “povertà” (40%) e da una significativa attenzione a “crimini” e “corruzione” (oltre il 30%).

Nella sostanza, potremmo affermare che esiste una diffusa percezione di vivere in una società ingiusta e, probabilmente, illegale.

Non a caso oltre la metà degli intervistati, ad eccezione di Francia, Belgio ed Ungheria, è convinta che “lo Stato debba esercitare un controllo verso le Big Companies, pubbliche o private che siano”. Si va da un’adesione del 50% (USA e Italia) ad un exploit anche superiore all’80% per i paesi emergenti come India, Brasile e Cina Popolare.

La percentuale rasenta il plebiscito  se la domanda diventa “se il governo dovrebbe diventare più aggressivo nel regolamentare l’attività delle Big Companies nazionali o multinazionali“, con il 75% dei favorevoli in Europa, USA e G8.

Piuttosto ambiguo l’esito di un’altra coppia di indicatori, visto che tantissimi sembrano consapevoli che “gli investimenti delle Big Companies sono essenziali per lo sviluppo del paese”, oltre l’80%, ma le percentuali crollano al 42% nel Nordamerica ed al 31% in Europa, se gli si chiede se temono “eventuali ricadute occupazionali in conseguenza di restrizioni per le grandi aziende”.

Probabilmente, i cittadini dei “paesi avanzati”, europei e americani, vedono nelle “proprie” Big Companies un valore aggiunto di egemonia internazionale, ma, a differenza dei paesi emergenti, sono disposti a modificare il proprio stile di vita o le relazioni sociali, in cambio di maggiori garanzie verso corrotti e speculatori.

La battaglia del default statunitense, tra Obama ed i Reps del Congresso, è una delle tappe di questa istanza che dai cittadini si rivolge alla politica, alla finanza, al clero, all’impresa. L’impasse dell’euro-moneta, la fragilità dell’euro-politica, la coincidenza tra lobbies e partiti saranno un’altra tappa di questa lunga partita.

L’unica cosa certa è che adesso abbiamo una pietra miliare per indirizzare il rapporto tra politica, aziende e cittadini e questa è proprio  il documento dell’Ipsos MORI, che esce quasi in simultanea con l’emergere di “indignados liberali”, un po’ in tutta Europa, e con la “svolta” che, entro venti giorni, dovrà necessariamente imboccare l’America con tutto quello che ne conseguirà per l’area Euro e non solo.

Ipsos MORI, fede e globalizzazione

14 Lug

Ipsos MORI, eminente ente di ricerca del Regno Unito, ha pubblicato uno studio  molto accurato sul rapporto tra fede/religione e globalizzazione (link).

A riguardo, Tony Blair, ex primo ministro inglese convertitosi recentemente al cattolicesimo, ha tenuto a dichiarare che: «questo sondaggio dimostra quanto conti, ancora oggi, la religione e come nessuna visione del mondo contemporaneo, politica o sociale, possa ritenenrsi completa senza la comprensione del rapporto tra fede e globalizzazione»

Ho letto il documento britannico e riporta cose molto diverse da quelle di cui Tony Blair parla.

Innanzitutto, alla domanda se la religione contribuisce a creare dei valori comuni e dei fondamenti etici necessari ad affrontare il 21esimo secolo, i paesi cristiani rispondono sostanzialmente NO, con una media di “credenti” intorno al 30%, che Messico e Italia raggiungono un risicato 50% mentre in Turchia non superano il 44%. Solo in USA e Brasile i “favorevoli” si attestano al 65%.

A contraltare, salta fuori che solo il 15% dei cristiani europei ed il 30% degli statunitensi crede che la fede sia l’unica via che porta alla “salvezza”.
Il 66% dei cristiani considera sì importante la fede, ma in Europa, ad eccezione dell’Italia, la media è inferiore al 45%.

E’ impressionante il dato per cui solo il 52%, a prescindere dalla religione, considera l’impegno sociale, la Charity, come un fatto personale. La percentuale crolla sotto il 25% se parliamo di paesi cristiani a fronte del 61% dei mussulmani.
I cristiani, inoltre, hanno amici o conoscenti di religione diversa nella misura del 5%, gli islamici del 10% (sic!).

Il quadro che emerge dallo studio di Ipsos MORI è piuttosto chiaro: la religiosità è recessiva in Europa (Turchia inclusa), la Charity (solidarietà sociale) non è un aspetto etico prettamente religioso, l’Islam mostra, per ora, una maggiore adattabilità e tenuta verso la cultura sincretica e materialista che avanza con la globalizzazione.