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Foucault e le riforme che Italia e Francia attendono da decenni

2 Mar

Nel 2009, la casa editrice Sense Publishers di Rotterdam nei Paesi Bassi pubblicava un interessante saggio intitolato “Governmentality Studies in Education” ed ispirato al pensiero di Michel Focault.
Di seguito – tradotti in italiano – alcuni stralci significativi di una “raccolta che utilizza la nozione di ‘governatività’ di Foucault per identificare e analizzare i principali modelli e caratteristiche del liberismo economico”, che … sembra non sia ancora pervenuta a chi si occupa di servizi pubblici in Francia come in Italia, in particolare scuola, università e sanità.

“Il neoliberismo ha trionfato ed è diventato oggetto di studio, mentre in Francia , dato il relativo predominio del partito socialista, abbiamo dovuto lottare per venti anni per produrre una riflessione su un sociale ‘disaccoppiato’ dal socialismo e affrontata in termini di governabilità della democrazia.

Per quanto riguarda la prospettiva di Foucault, è con le sue lezioni del 1976 che inizia a prendere le distanze dal ideali militanti del tempo. La discussione in quelle lezioni di Sieyès e Terzo sembra già prefigurare le successive riflessioni sulle capacità formidabili del liberalismo come una razionalità politica.

Il recepimento dell’analisi di Foucault sul neoliberismo , purtroppo, spesso sembra essersi appiattito in una serie di generalità polemiche, ideologiche e globalizzanti, facendo a meno del tipo di indagine descrittiva che Foucault aveva intrapreso nel 1979 sui vari avatar del neoliberismo con la loro specificità nazionale, storica e teorica.

Michel Foucault aveva inventato un metodo unico per riconsiderare i nostri modi di pensare a tutti quegli oggetti apparentemente universali come la follia, delinquenza , sessualità e governo. Per lui non si trattava di mostrare la loro relatività storica , né rifiutare la loro validità, come spesso si sostiene, ma piuttosto, era proprio sostenendo a priori la loro inesistenza a disfare tutte le certezze di che essi sono oggetto, come ad esempio la loro ‘storicità’ pura . Questo gli ha permesso di chiedersi come ciò che non esisteva avrebbe potuto avvenire, come una serie di pratiche potrebbe essere strutturata per produrre, in relazione a ciascuno di detti oggetti , un regime di verità, un fatto di potere e di conoscenza combinata , che permetta di dire, finché il citato regime di verità ha imposto la sua efficacia , cosa fosse vero o falso in questioni di follia, delinquenza, sessualità e di governo.

La concorrenza non è un fenomeno naturale, ma un meccanismo formale, un modo di agire efficace sulle disuguaglianze, lasciando nessuno al sicuro nel dominio della propria posizione . Pertanto, il ruolo dello Stato è di non intervenire a causa del mercato, ma per il mercato, in modo che sia sempre mantenuto e che  il principio della parità diseguale sortisca il suo effetto. La concorrenza non è un fatto naturale.
Deve suoi effetti per l’essenza che detiene … La concorrenza è un eidos , un principio di formalizzazione … è in qualche misura un gioco formale tra le disuguaglianze .

Secondo questa dottrina (ndr. il neoliberismo), in ogni caso, lo Stato deve procedere per favorire la solidarietà della società, ma solo quella. Si deve sapere come compensare le carenze del mercato per la protezione della popolazione  ma anche come prevenire che essa vada al di là del sociale e diveniti culla di un socialismo inteso come alternativa al mercato.
In Francia , “l’arte del non troppo, né troppo poco” come forma di governamentalità nel nome dell’utilità ha trovato una formulazione più metodica che nella maggior parte degli altri paesi europei – Regno Unito incluso – poiché ha mobilitato una conoscenza diversa da quello dell’economia politica (vale a dire , la sociologia) e un’altra terminologia , quella della solidarietà.
E la via utilitaristica ha diffuso questa “arte” in tutta Europa , anche in Francia, seppur sia la patria della sovranità nazionale.
D’altra parte, si dovrebbe considerare che quest’ultima non è mai stata sconfessata nella sua preminenza ideologica. Nemmeno lo è stato il socialismo – almeno quello democratico –  considerato da molti come la principale forma di realizzazione della sovranità.

L’idea che un governamentalità socialista è incoerente e può solo portare ad un governo amministrativo – aggiornamento, per così dire , della ragion di Stato o vergognosamente analogo al liberalismo ( Guy Mollet ad esempio) – tiene in scarsa considerazione questa perennità della sovranità che viene solo in parte vissuta come alternativa contro gli “eccessi” del liberalismo . Nel suo corso , inoltre , Michel Foucault insistette fortemente sulla assenza di razionalità governativa nel socialismo.

Per l’economia politica, lo scopo della ragione governativa non è più lo Stato o la sua ricchezza, come nel modello della ragion di Stato, ma la società, il suo progresso economico. Il suo ruolo non è pi quellodi trattenere una libertà , espressione della fondamentale cattiva natura degli uomini, ma per controllarla, e per questo motivo, vietarla, se necessario, mediante restrizioni. È una libertà che viene prodotta e che è da costruire.
Questa costruzione avviene attraverso interventi di Stato, non dal suo puro esemplice ritiro. Ma fino a che punto può e deve andare in questo interventismo senza rischiare di diventare il suo contrario , un nascosto o dichiarato  anti- liberismo? Questa domanda è il punto di partenza della riflessione neoliberista, sulla cui origine  Mr. Foucault manifestò le proprie riflessioni nel successivo corso del 1979, dal titolo “La nascita della bio- politica”.

L’Homo economicus dei liberali tradizionali era l’uomo di scambio, considerato come partner di un altro uomo durante lo scambio. Viceversa, l’homo economicus del neoliberismo è un imprenditore di se stesso, ha solo concorrenti. 
Anche il consumo diventa un’attività di impresa in base alla quale il consumatore impegna la produzione della propria soddisfazione. Quindi, non ha senso la contrapposizione tra produzione e consumo, tra il carattere attivo del primo e di quello passivo o alienato di quest’ultimo.
Denunciare la società dei consumi o la società della spettacolo è un errore di questa epoca, come il far finta che l’uomo del neoliberismo è un uomo di scambio e di consumo se lui è prima di tutto un imprenditore. È il problema di redistribuzione e del divario redditi che crea uomini come consumatori. Viceversa, la “politica della società” trasforma un uomo in imprenditore, cioè qualcuno che si trova in un gioco e si da da fare per aumentare il suo successo in un sistema in cui le disuguaglianze sono necessarie perchè più efficaci e stimolanti  di quanto siano note le grandi lacune.

La questione del ruolo dello Stato è una dimensione che associa da vicino la terza via al neoliberismo. Per esempio, respinge chiaramente tutto ciò che la Sinistra francese continua a mantenere come un dominio dello stato: nazionalizzazioni , pubblici servizi strutturati come ‘clero’ dello Stato , ecc. Tuttavia , questo non significa voler ridurre lo Stato ad un ruolo figurativo. Esso assume un rulo di dichiarato sostenitore delle  “politiche della società”, secondo l’espressione neoliberista utilizzata per denominare l’interventismo destinato a portare qualsiasi attività sociale a regime di concorrenza.

Senza dubbio, i sostenitori della terza via (ndr. liberista) valorizzano autonomia e responsabilità individuale  come i neoliberisti. Li vedono come mezzi per contrastare l ‘aumento nel settore dei  servizi, che può aumentare  a dismisura se si rimane nella logica corrente di compensazione automatica per tutti i problemi reali per cui siamo portati a dispiacerci.
Per loro, però, essi (ndr.  autonomia e responsabilità individuale) sono solo uno (ndr. strumento) tra i tanti altri.

E, tra i tanti, ve ne è uno che caratterizza più direttamente questa politica corrente in quanto costituisce un’alternativa sia all’individualismo come al vecchia sinistra: è quello che sottolinea la dimensione collettiva e politica della prevenzione dei danni.
Vale a dire quella che sottolinea la nozione di azione comunitaria (in Francia si dovrebbe dire “collettiva” per evitare qualsiasi malinteso di questa espressione).

Ma, tanto come il neoliberismo si proponeva di portare “la politica della società”, la terza via si attrezza per ricostruire “una società politica”.

Demata

Gli autori della raccolta di saggi sono: Michael A. Peters (professore di Education presso the University of Waikato, New Zealand and Emeritus Professor in Educational Policy, Organization, and Leadership presso the University of Illinois at Urbana–Champaign), Mark Olssen (professore di Political Theory and Education Policy in the Department of Politics presso the University of Surrey), A.C. (Tina) Besley (direttore del Centre for Global Studies in Education Director e è professore al  Te Whiringa School of Educational Leadership and Policy, Waikato, New Zealand),  Susanne Maurer e Susanne Maria Weber  (rispettivamente professori di Erziehungswissenschaft/Sozialpädagogik e di Soziale, politische und kulturelle Rahmenbedingungen presso l’Institut für Erziehungswissenschaft der Philipps-Universität – Marburg).

Socialismo e capitalismo: un laboratorio letale

18 Giu

L’Istituto Ludwig Von Mises ha pubblicato, oggi, una lunga ed accurata analisi (link) di Gary North, riguardo la comprovata velleiterietà delle idee socialiste, avverse alla proprietà privata e assertrici di una governance condivisa.

Nulla di più vero di quanto descritto nel testo, ovvero che ‘la natura del fallimento del socialismo non viene insegnata nei libri di testo universitari. L’argomento viene sorvolato ove possibile‘ e che ‘ il mondo accademico è impegnato ufficialmente con l’empirismo. Pensa che i test statistici debbano confermare la teoria. I  test sono andati avanti per decenni. Le economie socialiste li hanno falliti e poi hanno pubblicato false statistiche. Ma gli intellettuali dell’Occidente insistevano ancora sul fatto che l’ideale socialista era moralmente sano. Insistevano che i risultati alla fine avrebbero dimostrato che la teoria era giusta‘.

Dunque, acclarato che il socialismo è una dottrina economica e sociale ‘campata per aria’ – come quasi 100 anni di statistiche dimostrano – varrebbe la pena di capire se la tanto somigliante democrazia non sia altrettanto o peggio nociva, ma soprattutto, sarebbe bello verificare se il capitalismo funzioni.

Argomenti troppo complessi per un post su un blog, ma anche troppo importanti per poter essere elusi.

Così, giusto per contribuire al dibattito, potremmo iniziare a notare che le democrazie che ‘funzionano’ sono tutte o quasi delle monarchie costituzionali  e, se non lo sono, il sistema prevede un presidenzialismo od un premierato ‘forte’.

In poche parole, in uno stato come la Germania, i ‘decisori’ effettivi – per oltre 80 milioni di cittadini – non sono più di 200 persone: chiamarla democrazia è davvero difficile, specialmente se i ‘decisori’ provengono dagli stessi ambienti sociali, dalle stesse scuole, dalle stesse università. Oligarchia, dunque, ed anche più ‘restricted’ di quella che possiamo trovare in Inghilterra, Olanda, Belgio, Svezia, Norvegia, Spagna dove esistono dei monarchi con le loro corti ed i loro possedimenti.

Molto deludente, non c’è che dire, e non abbiamo toccato il dolentissimo tasto ‘cleptocrazia’.

Andando al Capitalismo, anche in questo caso è evidente che non funzioni.

Infatti, quello che abbiamo davanti non è quell’intreccio di investimenti e risorse tecniche – di cui parlava Arturo Labriola – che trae economicità e conformità dalla produzione di massa in grandi complessi industriali grazie alla creazione di una ‘klasse’ di nuovi lavoratori, gli operai.

Oggi, il capitalismo è delocalizzazione industriale (selvaggia) ed a bassa specificità, speculazione finanziaria e volatilità monetaria, aggressione sempre più vorace delle risorse naturali (non rinnovabili). Un sistema che si regge sugli enormi flussi finanziari del riciclaggio (specialmente russo) e delle tangenti (appalti e non solo).

Basti dire che, ormai, quasi tutte le banche nazionali sono di proprietà degli investitori. Una moneta ‘di mercato’, ancor meno preziosa (dopo oro ed argento) della carta: digitale, immateriale.

Un sistema che si basa sull’accettazione da parte degli individui di compartimentare la propria esistenza e la propria quotidianità in funzione del lavoro e dei consumi che gli vengono concessi, quasi esclusivamente, in base alle ‘etnie’ (origini sociali) ed agli ‘stili di vita’, per come vengono resi disponibili e/o di quanto sono accettati dal ‘sistema’.

Ed in un capitalismo – come in un socialismo, del resto – vincono sempre i ‘predestinati’. Anche questo è un dato.

Dunque, parafrasando Gary North, chiedo “qual è il più longevo esperimento capitalista di successo? Se qualcuno vi chiedesse di controbattere l’idea secondo cui il capitalismo ha fallito, che cosa offriste come vostro esempio?”

Mises credeva che la bontà dei risultati stesse nelle ricette e non bisognasse “provare per credere”. Se si aggiunge sale invece di zucchero, non sarà dolce. Ma il mondo accademico è impegnato ufficialmente con l’empirismo.”

Arturo Labriola considerava capitalismo, industrialesimo e socialismo come tre effetti di uno stesso processo, che – fatta salva l’aspettativa di vita – in questi ultimi 100 anni ci ha sottoposto a guerre mondiali, terrori e terrorismi, inquinamento e devastazioni, cospirazioni e speculazioni finanziarie, cleptocrazie, sistemi totalitari, mafie, narcomafie e chi più ne ha più ne metta.
Un sistema che non riguarda il ‘sud del mondo’ che, come la Storia dimostra, è considerato come una sorta di serbatoio, se va bene, ed una specie di sentina, se va male.

Ben venga, allora, l’empirismo e che i nostri ‘professori’ – statistiche alla mano – prendano atto del disastro e cambino rotta: il mondo non può continuare a ‘crescere’ e, senza ‘crescita’, niente mercati e niente economia di mercato …

Tutto sbagliato, tutto da rifare.

originale postato su demata

La fine di una guerra

15 Apr

Ieri, 14 aprile 2008, è finita la Seconda Guerra Mondiale. Fatto salvo per qualche “quisquilia” relativa ai Giapponesi, finalmente, è finita per tutti: trattato firmato.
Ieri è toccata a noi, dove i Patti di Yalta non avevano diviso i territori, come in Germania, ma le coscienze, divise tra “comunisti-mangiabambini”
e “non comunisti-nemici del popolo”.

E’ finito l’equivoco di Togliatti, che 1953 creava quasi dal nulla un Partito Comunista Italiano, ben sapendo che in nome del Comunismo Stalin
massacrava il popolo russo.
Alle elezioni del 1948 il PCI non era presente, alle successive era al 22%.  … una “curvatura” della Storia.

Da ieri, nessun comunista è in Parlamento, anche se gli ex sono tanti.
E’ finito il mito di un ’68 “di sinistra e barricadiero”, tanto invidiato ai Francesi (che lo fecero davvero), e la Storia può incominciare a riportare che si trattava di un più profano “sex, drugs & rock’n roll” in epoca di baby boom.
Adesso anche da noi la Storia, forse, inizierà a scrivere che gli Anni ’80 non furono “l’insostenibile leggerezza dell’essere”, ma viceversa che “i duri iniziarono a giocare quando il gioco si fece duro”, che “non c’erano sogni e non c’era futuro”, che “non vogliamo pace senza giustizia”.

E’ finita con l’antifascismo che vede solo a destra e mai a sinistra.
Quando potremo intitolare una piazza del centro di Roma al Commissario Calabresi, servitore dello Stato? E quando un monumento a Monte Mario a 5 poliziotti della scorta di Aldo Moro?

Vedremo le statue di Falcone e Borsellino all’entrata del Palazzo di Giustizia?
Arriverà, prima o poi, quella di Giovanni Gentile al Ministero dell’istruzione?