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Cedere le Terre di Stato: una bella idea da verificare

22 Ott

Si inizia a parlare, finalmente, di agricoltura. Si parte dalle cosiddette “terre di Stato”, ovvero dei 338.127,51 ettari di terreno coltivabile, in termini tecnici Sau, che attualmente sono di proprietà dello Stato e sono sottoutilizzati.

“La Coldiretti ha presentato una proposta: vendete questa terra ai contadini, servirà anche a permettere l’accesso alle campagne a nuovi agricoltori, soprattutto giovani. E lo Stato, in cambio, incasserebbe una bella cifra: 6 miliardi e 221 milioni di euro.”

Lo riporta La Repubblica, confermando, stranamente sottolineature,  il “si può fare” del ministro Romano, proprio quello quello indagato per mafia, che passando dall’opposizione al PdL salvò Berlusconi tempo fa. Strano vero?

350mila ettari ceduti ad imprese in grado di investire ed essere produttive per di difendere l’occupazione ed il made in Italy o dispersi tra una miriade (centomila o quanti?) di “contadini”, “nuovi agricoltori”, “soprattutto giovani” che vivranno di sussidi e marachelle in balia dei soliti prepotenti?

L’idea di “incassare 6 miliardi e rotti di Euro” è allettante per l’Italia e per l’Europa, ma siamo sicuri che il “sistema agroalimentare”, nel tempo, non ci verrebbe a costare di più, se la cessione dovesse attuarsi senza intervenire complessivamente sull’agricoltura, sulle aziende agricole e sui sussidi, sulle leggi che normano il settore, sul necessario protezionismo che l’UE dovrà attuare a fronte di un’enorme immissione sul mercato di terreni coltivabili?

Quali aiuti ed incentivi risulteranno “sani” e quali “perversi”? Come reagiranno i mercati ed i prezzi? Quali studi di settore? Oppure ritorneremo alla mera sussistenza col pretesto di “aiutare i giovani”? Ed il rischio del riciclaggio e delle mafie?

Le prospettive, infatti, possono essere piuttosto lusinghiere od affatto, a seconda di quale impianto normativo dovesse accogliere, strutturare e rilanciare l’ingigantito sistema agroalimentare italiano che, a dire il vero, aspetta ancora le riforme promesse da Garibaldi per sollevare i Siciliani.

Basti dire che, oggi, l’agricoltura contribuisce al PIL nazionale per il solo 4% e che, con l’attuale livello di produttività, liberare 350.000 ettari significherebbe creare un ulteriore esercito di sussidiati e di sfruttati, dalle quote latte alle coop, ai consorzi ed alle “aziende familiari”, dai mercati all’ingrosso al lavoro nero dei migranti ed il caporalato.

Si pensi, ad esempio, ad una famiglia di un piccolo proprietario di 20 ettari coltivabili, che ne affitta la parte eccedente a quella per rientrare nei limiti della conduzione familiare per poi incassare ogni genere di sussidio … coltivando poco e nulla di quello che possiede. Oppure alle Coop, che a vedere l’elenco dei soci si capisce subito di trovarsi dinanzi ad una azienda di famiglia di medie dimensioni. Od, infine, alla frutta che troviamo ormai in tutti i supermercati, che è stata palesemente colta ben prima della completa maturazione e non se ne spiega il motivo, se non in una pessima distribuzione, visto che i campi da cui proviene sono spesso a meno di duecento chilometri. Per non parlare di quanto ci costano le calamità naturali a causa della scarsa consutudine a stipulare polizze assicurative. Sono tutti elementi che strutture come il MEF, Bankitalia o ISTAT, ma anche l’UE, possono, anche celermente, misurare o comunque stimare, sempre che non ne siano già in possesso.

La cessione delle terre di Stato è talmente massiva da richiedere una propedeutica riforma del sistema agroalimentare italiano.

Il modello a cui far riferimento, almeno in termini di mercato, è quello californiano, con coltivazioni al possibile estensive e sempre di buona qualità, strutture aziendali fortemente finalizzate al marketing e leggi che facilitano, ad esempio, i permessi da frontalieri per i messicani che lavorano nei campi.

La proposta di Coldiretti va ri-letta, dunque, in un’ottica che faciliti la concentrazione sia per una migliore produttività delle coltivazioni o per ottenere una maggiore e più stabile penetrazione nei marcati esteri, sia per avere quella forza contrattuale necessaria per contrastare le lobby che controllano i mercati logistici e per riassorbire i danni di calamità e crisi di mercato.

Quanto alla cessione delle “terre di Stato”, è opportuno che si obblighino  i privati ad investire in funzione degli incentivi statali ottenuti e che i controlli siano rigidi, se si vuole evitare non solo lo spadroneggiare delle mafie , gli sgravi per le holding cooperative od il sacco dei sussidi per l’agricoltura, per non parlare di potenziali nuove cementificazioni, ma soprattutto evitare lo sfruttamento di giovani ed immigrati, che possono essere tutelati solo da una norma che reintroduca la mezzadria, semplifichi i contratti “a giornata” e democratizzi associazioni, consorzi e sindacati.

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Il sacco del Nord? Per ora paga il Sud …

24 Set

Luca Ricolfi, apprezzato editorialista di La Stampa,è un sociologo dell’Università di Torino ed ha recentemente pubblicato “Il Sacco del Nord”, un libro che andrebbe a dimostrare, dati alla mano, come da Roma in giù l’evasione fiscale e lo spreco pubblico siano un gravame insostenibile per il Settentrione.

La sua attività di sociologo  ha spaziato, in questi 30 anni, su l’intero scibile umano, a quanto pare, visto che il suo curriculum riporta: scuola, mercato del lavoro, cultura giovanile, nocività ambientale, corruzione, politica, televisione, spazio elettorale, autoritarismo, missioni suicide, squilibri territoriali,teoria
dell’azione, metodologia della ricerca, analisi dei dati, teoria della misurazione.

Il lavoro pubblicato da Luca Ricolfi non dice molto. Infatti, sapere dove si è verificata l’evasione fiscale non ci dice dove va il denaro distolto.

Una prima, approssimativa evidenza ci porta all’immediata considerazione che l’agricoltura del Sud alimenta l’industria agroalimentare e distributiva tosco-emiliana e che il terziario del Meridione lavora sub commessa delle aziende padane.

Il primo dato ci è confermato dal miserrimo 4% che la nostra agricoltura aggiunge al PIL nazionale a causa di aiuti, quote latte e sgravi per la trasformazione.
Il secondo dato ci è connotato dalla crisi di sovraproduzione che va a confluire, ad esempio, nei mercati di merci contraffatte, ma “originali”, ovvero di elevata qualità date via per quattro soldi a nero.

Ambedue i dati fanno capo ad un’enorme mole di lavoro sommerso che calmiera i prezzi per i grossisti del Nord, ma non per le tavole dei settentrionali, a fronte di un enorme via vai di sussidi per aziende e consorzi agricoli.

Non è un caso, allora, che l’indice di discrepanza utilizzato da Luca Ricolfi riporti ai due capi dellaclassifica una “industriosa e leale” Emilia Romagna (0,8249) a fronte della “pigra e fraudolenta” Campania (-0,8907).

Non è un caso di lapsus freudiano, certamente, che il professor Ricolfi abbia usato il termine discrepanza … ovvero divergenza di idee, di opinioni; divario, disaccordo, contraddizione.

In inglese “mismatch”: abbinamento sbagliato.

Piuttosto, sarebbe interessante conoscere quale è il livello di evasione (anche per semplice difetto od “eccesso” di fatturazione) delle nostre coop ed onlus, visto che, eventualmente fosse, ne sono enormemente facilitate da norme e statuti.

Come anche conoscere quanto “l’allarme del PD verso il Federalismo”, menzionato dal prof. Ricolfi, non tragga origine dalle prevedibili ricadute sull’economia emiliana e veneta di una Campania (e non solo) libera di gestire autonomamente tributi, commerci ed investimenti come Bossi chiede per la “sua” Lombardia.

originale postato su demata

Vinitaly, si potrebbe fare di più

8 Apr

Con la rassegna annuale del vino, Vinitaly di Verona, arrivano i primi dati sulla situazione di un settore che rappresenta la maggior voce attiva del comparto agroalimentare nazionale con un lusinhiero +11%.
Non tantissimo, se parliamo di quasi 4 miliardi di euro, ovvero meno dello 0,1% del PIL italiano, ma comunque un raggio di sole in un sistema agroalimentare straziato dal sistema clientelare dei sussidi e dal lavoro nero dei migranti.

REGIONI D.O.C. e D.O.C.G. I.G.T. Da tavola Totale %
ITALIA 14.794.424 12.598.401 19.723.822 47.116.647
NORD 8.294.786 7.314.564 4.272.189 19.881.539 42,20%
CENTRO 3.498.829 2.029.518 1.914.141 7.442.488 15,80%
SUD 3.000.809 3.254.319 13.537.492 19.792.620 42,01%
REGIONI D.O.C. e D.O.C.G. I.G.T. Da tavola Totale %
ITALIA 14794424 12598401 19723822 47116647
NORD 8294786 7314564 4272189 19881539 42,20%
CENTRO 3498829 2029518 1914141 7442488 15,80%
MEZZOGIORNO 3000809 3254319 13537492 19792620 42,01%

 

Le cattive notizie sono diverse.
Nel complesso esportiamo 22 milioni di ettolitri, equivalenti a poco meno di 3 miliardi di bottiglie da 75cl. Il volume di mercato, indotto incluso, è di oltre 13 miliardi di euro con ben 1,2 milioni di addetti.

Questo significa diverse cose:

  • almeno 500mila bottiglie di vetro in circolazione in un paese che non brilla nè per le politiche ambientali nè per quelle energetiche
  • una milionata di lavoratori che “vive” con una decina di miliardi, che fanno solo 10mila euro annui a testa di media
  • un consumo interno di alcolici che, considerato che c’è tanta gente che non beve vino, per tanti altri si attesta ben oltre la bottiglia al giorno.

Aggiungiamo che, oggi, solo 700mila ettari sono coltivati a vigna, rispetto alla milionata del passato recente, e che le aziende iniziano a raggiungere dimensioni mediamente superiori ai 3 ettari.
Un dato apparentemente positivo, visto che la produttività è aumentata, che, però, pone seri imperativi sulla riforma dello status di consorzi e cooperative, visto che ormai sono strutturati come e più delle normali aziende, ma godono di consistenti agevolazioni fiscali e fideiussorie.

La buona notizia è che le esportazioni enologiche verso Brasile, India, Cina e Russia hanno, nel 2010, compensato le perdite del 2009, causate dalla contrazione del mercato italiano, ed è ragionevole credere che ormai assorbano quasi un quarto della nostra produzione.

Ma anche in questo caso, un’Italia declinante e tardiva tralasciare che con soli 700mila ettari tagliati in un rivolo di parcelle rurali non potremo mai essere competitivi con le grandi estensioni australiane, argentine o californiane.

A proposito, perchè fare Vinitaly a Verona, mentre i terreni su cui espandere produzione e produttività sono al Sud, dove Puglia e Sicilia, attualmente alla pari con il Veneto e l’Emilia Romagna nella produzione, tanto potrebbero migliorare nella qualità e redditività?

Non è nel Veneto che possiamo espandere il settore vinicolo, ma proprio questo potrebbe essere il motivo per cui il Governatore Zaia, ex ministro per le politiche agricole, si tiene ben stretto Vinitaly ed i vini DOC di casa sua.

A quando i reclami di Vendola e Lombardo?