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Papa Francesco e la puzza che arriva anche da Roma

27 Mar

Ormai è ufficiale, Galli della Loggia dixit: esiste una filtrabilità ‘mafiosa’ tra base ‘popolare’ e partiti di ‘sinistra’. Addio ‘mani pulite’, addio ‘la storia siamo noi’ eccetera eccetera

“Il Pd era l’unico partito romano che conservava almeno in parte un rapporto con la base popolare, quella del vecchio Partito comunista: e probabilmente proprio questo è ciò che l’ha perduto. Una base popolare dai tratti spesso plebei — chi ha una certa età se lo ricorda — che per forza era contigua a persone e cose non proprio in regola con la legalità (ladruncoli, piccoli spacciatori, topi d’auto): ma finché a sovrintendere ci sono stati il controllo etico-politico del partito e la decisione inappellabile dei vertici in materia di cariche e di mandati elettorali, nessun problema.
Come si sa, però, a un certo punto tutto questo è svanito. È accaduto allora come se quella base popolare fosse rimasta affidata a se stessa e alle regole spesso demenziali (vedi primarie «aperte») ed estranee della nuova democrazia interna. È allora che si è aperto il varco: non avendo più un vero corpo, il partito non ha avuto più anticorpi. “

VIGNETTA-ROMA-MAFIA

Una questione ormai storica, quella della contiguità dei ‘partiti popolari’ con sette e mafie, ben descritta da Jacques de Saint-Victor in “Patti scellerati. Una storia politica della mafia in Europa” (UTET). L’unico dubbio irrisolto è come mai Eugenio Scalfari – censore di Roma – non se ne sia mai accorto.

E le accuse di Ernesto Galli della Loggia – nell’editoriale di oggi su Corsera con la foto del Governatore Zingaretti in bella vista – non si fermano: “Lo ha capito anche la delinquenza più sveglia e più attrezzata, che è stata pronta a stabilire rapporti con la sua nuova classe, a mettere a libro paga persone, a costruire filiere, a organizzare complicità e ricatti. Così, servendosi dei mezzi del clientelismo politico più ovvi, è cominciata la scalata al Pd da parte del malaffare.
Lo ha detto bene in un rapporto Fabrizio Barca, dopo aver indagato quanto accaduto nei circoli dem della Capitale: il Pd è diventato «un partito cattivo, ma anche pericoloso e dannoso», i suoi iscritti sono troppo spesso «carne da cannone da tesseramento». ”

Intanto, mentre il Capo di Gabinetto della Regione Lazio è anche lui coinvolto nelle inchieste di Mafia Capitale, arriva il crollo verticale del consiglio municipale di Ostia con appelli pubblici a inviare militari come in Calabria o Sicilia  …
E, a confermare che il PD, a Roma, non c’è più, prendiamo atto che Zingaretti (Regione Lazio) tace e Marino (Roma Capitale) è all’estero …

Dunque, mentre Renzi trema (ndr. la caduta del PD romano per mafia comporta de facto la fine di molte cose), non resta che attendere l’intevento del vescovo di Roma, come si usa nelle terre assediate dalla Mafia …

papa mafia

La domanda, dunque, è: si dimetteranno oppure l’Italia e i romani dovranno subire l’onta di una Roma che ‘puzza’, proclamata Urbis et Orbis? Di sicuro, Papa Francesco non può scagliarsi contro mafiosi e narcos se a casa sua si razzola male …

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Liberare le carceri, ma come liberare le città?

14 Giu

“San Basilio, casermoni popolari Ater grigi e pieni di sbarre alle finestre, quasi tutti occupati abusivamente: bordi di periferia assassina nella Roma che rotola addosso al nuovo sindaco Marino. … in questo quadrilatero dell’Ater che è l’assurda periferia orientale della borgata, sessantamila anime e 180 spacciatori agli arresti domiciliari contro appena sedici carabinieri, dove di notte comandano le vedette di quattro bande di trafficanti e le retate cicliche degli uomini in divisa punteggiano una lotta spesso eroica e quasi sempre senza mezzi.
«Noi li pigliamo. Ma il paradosso della detenzione domiciliare consiste nel fatto che gli spacciatori vengono costretti a stare esattamente nel posto dove hanno sempre spacciato: a casa loro», sussurra un investigatore esperto ed esasperato. … Che dietro le occupazioni ci sia il racket è un non detto abbastanza ovvio. Si sente aria di mafia calabrese, ma certi pusher vanno a Scampia a rifornirsi. Il clima da conflitto permanente altera il metro di giudizio … Tutti barricati dentro, eccetto i carabinieri. La serratura del loro portoncino è rotta, ci vorrebbero 390 euro per ripararla, una parola. … ” (Corsera)

“Sconto pena maggiore per liberazione anticipata da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. Liberazione anticipata per chi in custodia cautelare ha una pena residua non oltre i 3 anni. Lavoro di pubblica utilità per i tossicodipendenti. Sono alcune delle misure del decreto carceri contenute in una bozza diffusa dall’Ansa e che andrà al prossimo Cdm.
Tra le altre novità, si prevede che quando la pena residua da scontare, computando le detrazioni per buona condotta, non superi i 3 anni, o i 6 per i reati commessi da tossicodipendenti, il pm “trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza” perché provveda “senza ritardo con ordinanza” alla riduzione della pena. Quando questo stesso quadro riguardi la custodia cautelare, si prevede che il pm “trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per la decisione sulla liberazione anticipata”.  Inoltre, scatta la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena nei casi di detenzione domiciliare in cui la pena non superi i 4 anni.” (La Repubblica)

Quante persone a piede libero in più avremo tra qualche mese – a San Basilio come altrove – dopo averli condannati a suo tempo per minacce, crimini d’odio, violenza privata, lesioni personali, risse, percosse, spaccio, contrabbando, estorsione, sfruttamento della prostituzione eccetera?
Verranno anche aumentate le pattuglie?

Ma, soprattutto, perchè non prevedete che tutti debbano “essere assegnati all’esecuzione di progetti di pubblica utilità”, non solo i detenuti tossicodipendenti, così – almeno per otto ore al giorno – non possono combinare guai, in base a “programmi aggiornati con frequenza semestrale e trasmessi al magistrato di sorveglianza”? E verranno incrementate le pene per coloro che, ritornati liberi, commettano nuovamente reati nel giro di un anno o due?


Sarebbe un modo semplice, produttivo ed efficace per garantire buoni risultati ad uno sconto di pena, che il governo vuole varare “ai fini della liberazione anticipata per i detenuti che danno prova di partecipare all’opera di rieducazione”.

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Il PD trionfa … nel deserto

11 Giu

Ve lo immaginate voi l’inesperto Ignazio Marino ad amministrare l’Urbe e la sua Suburbia con una maggioranza bulgara – e di estrema sinistra – in Campidoglio, mentre due romani su tre borbottano, diffidano e reclamano, con promesse impossibili da mantenere e un debito da record, consolidato fin dalla gestione Veltroni?

Oppure, che accadrà a Catania,  dove Enzo Bianco si accinge a diventarne sindaco per la quarta volta in sei consigliature e senza neanche le primarie ‘democratiche’ per sceglierlo, raccogliendo meno del 20% dei consensi effettivi, in una Sicilia dove l’astensionismo è arrivato al 66%.

Od a Treviso e Brescia, dove i neosindaci del Partito Democratico dovranno gestire una coalizione che va dalle liste civiche ‘moderate’ alla sinistra estrema, mentre tra astenuti e oppositori, anche lì, possiamo contare due cittadini su tre.

I giornali titolano, intanto, il Partito Democratico vince nelle città e trionfa a Roma. Peccato che nella Capitale il 51% degli elettori si sia astenuto e che il ‘trionfo’ consista in un misero 30,8% della base elettorale.

In realtà, infatti, non è il PD a vincere, bensì l’Ulivo, ovvero ritorna in auge l’idea di una coalizione antiberlusconiana, oggi ‘antidestra, che in altri tempi si sarebbe chiamata ‘fronte popolare’ e che da sempre è pervenuta ad una sola conclusione: conflitti irrisolvibili interni alla maggioranza, nuove tasse e nuove spese, incremento delle tensioni sociali.

Ed è altrettanto vero che, al momento, un elettore su due sarebbe disponibile a votare un ‘nuovo’ partito, purchè dotato di un programma credibile, del personale esperto ed un editore che voglia sostenerlo.

Molto probabile che, andando per queste vie, il Partito Democratico si ritrovi a dover fare i conti con una dura realtà: i pro ed i contro di poter contare su uno zoccolo duro, che a ben vedere è sempre più eroso.

Infatti, il 30,8% effettivo di Marino è molto lontano dal quasi 40% effettivo raccolto da Veltroni meno di dieci anni fa a Roma, senza che siano particolarmente cambiati i dati demografici od economici della città.
Certamente, ha influito l’invecchiamento del proprio elettorato e la diminuzione del numero di anziani, fedelissimi elettori dell’ex-PCI, come hanno pesato i gravi errori delle giunte ‘rosse’, se ha votato solo il 40% a Tor Bella Monaca, tra case popolari e famiglie under50.
Ma è anche vero che il ricambio generazionale è scarso e limitato – sia in termini di età anagrafica sia di mentalità – se a Siena è un funzionario del Monte dei Paschi a diventare sindaco e se a Viterbo è l’ex Presidente della Coldiretti provinciale e Presidente del Consorzio Agrario.

Il Partito Democratico ha preso “tutti i capoluoghi”, “trionfa a Roma”, si esalta per il “cappotto”, ha vinto questa tornata di elezioni amministrative, ma è il popolo italiano – quello ‘sovrano’- che ha perso anche queste elezioni. Un dato ormai certo, se in Italia siamo arrivati al 51% degli astenuti (con punte del 66%), mentre la legge elettorale (Porcellum) è incostituzionale ed, in barba al ballottaggio, ai Comuni si vota con coalizioni blindate e di cartello.
Una dura sconfitta per il PdL, ma anche una vittoria di Pirro, sia per il tipo di coalizione vincente, sia per il rifiuto di una larga parte degli elettori, sia per i deficit enormi che si dovranno affrontare – almeno fino alle elezioni tedesche ed al semestre italiano in UE – dopo aver promesso, in poche parole, la fine della Crisi ed il ritorno del Bengodi …

Intanto, dalla sponda opposta, l’esperto Fabrizio Cicchitto invoca «un salto di qualità nella costruzione di un partito che sappia tenere assieme una leadership carismatica e un partito forte, democratico, capace di discutere e scegliere, anche attraverso consultazioni interne, i suoi dirigenti», prima che sia troppo tardi.

Almeno un elettore su due sarebbe disponibile a votare un ‘nuovo’ partito, purchè dotato di un programma credibile, di personale esperto e di un editore che voglia sostenerlo.
Il conto alla rovescia è iniziato?

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Alemanno, cinque anni a Roma

7 Giu

Si va al ballottaggio per la poltrona di Sindaco di Roma Capitale, il ‘pretendente’ Ignazio Marino promette di tutto di più, mentre il candidato ‘uscente’ Gianni Alemanno poco aggiunge al ‘non c’è una lira’ di questi ultimi cinque anni.

E’ vero che Walter Veltroni aveva lasciato una situazione finanziaria sa svenarsi, ma troppo poco è stato fatto, mentre gli scandali travolgevano il centrodestra capitolino, alla Regione come al Comune.
Inoltre, sul tema sicurezza, Roma è ormai nelle mani degli esagitati di Campo dei Fiori, dei graffitari indelebili dovunque, degli okkupanti e degli antagonisti semi-professionali, degli ultrà dello stadio più attenzionato d’Europa, di organizzazioni criminali d’importazione che sparano e uccidono, di qualche squadretta ‘nera’ che pesta qua e là (link).
Andando ai ‘famigerati’ Rom ed accampati vari, i manifesti elettorali di Gianni Alemanno ‘vantano’ un migliaio di sgomberi in totale, uno al giorno sembrerebbe, che è davvero poca cosa. Sgomberi e controlli ai quali non si sa se seguano interventi dei servizi sociali e ricollocazioni, tra l’altro. Probabilmente no, visto come è andata per Sanità e Welfare in Regione Lazio ed a cascata in città.

Flop totale, caro signor Sindaco?

Eppure, anche senza il presenzialismo del buon Veltroni, c’erano da rivendicare le strade che riprendevano ad essere tali, anche se rattoppate in economia. La Crisi che ha colpito limitatamente Roma, anche per le resistenze della Giunta Alemanno a raschiare risorse privata tramite l’IMU. Il completamento di un tunnel e di una metropolitana, che hanno ridotto notevolmente il traffico su Roma Nord.
La resistenza opposta a chi voleva e vorrà destinare ad alloggi popolari le sterminate periferie invendute che i palazzinari hanno realizzato grazie al Piano Regolatore di Morassut e Veltroni. Il bilancio del Comune che è meno disastrato di prima, mica poco.

Qualcosa da ‘vendere’ in campagna elettorale c’era. Come si poteva portare aria nuova nella lista elettorale.

Purtroppo, la Roma caput mundi cui fa riferimento Gianni Alemanno – quella delle rendite, delle deroghe, della bona fidae e dei sussidi – non è la stessa Roma Capitale (modernista, tecnica, esecutiva, imprenditoriale) – che voterebbe un sindaco laico di centrodestra, alla Chirac per intenderci.

Una Roma che ben sa che la giunta Veltroni lasciò un debito lordo di 22,4 miliardi di euro, a fronte di crediti reali di 5,7 miliardi di euro, che rappresenta il più clamoroso e grave dissesto finanziario nella storia della amministrazione pubblica italiana.
E che non comprende perchè la campagna elettorale – a sinistra come a destra – non si sia ispirata al risanamento finora ottenuto e da continuarsi. Forse per i 4.500 ‘parenti’ assunti in ATAC di cui si vocifera in città? O di quegli altri, tanti, di cui si è già vociferato, in questi anni, per le tante aziende in cui il Comune è coinvolto?

La somma degli astenuti e la loro distribuzione nei quartieri di Roma ci darà la misura  – probabilmente la parte più produttiva ed informata – di questo popolo romano insoddisfatto.

Leggi anche La maxiofferta elettorale di Ignazio Marino

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Grasso – Travaglio: la sfida continua

26 Mar

«L’accusa di poter essere colluso con il potere, di cercare il contatto, di fare l’inciucio è la cosa che mi ha fatto più male», questa la risposta del magistrato Pietro Grasso, oggi presidente del Senato, a Marco Travaglio, che l’aveva collegato, durante la trasmissione Servizio Pubblico, alle  tre leggi votate dalla maggioranza di centrodestra che hanno fermato la candidatura a procuratore nazionale Antimafia di Gian Carlo Caselli.

Pietro Grasso ha anche paragonato le parole usate dal vicedirettore del Fatto alle minaccia ricevute dalla moglie negli anni ’80 contro il figlio in occasione del maxiprocesso contro la mafia.
In tutta onestà, però, è difficile pensare che Marco Travaglio sia al soldo della Mafia. Un confronto sproporzionato – e retorico – quello tra un organo di stampa e la criminalità organizzata., che per altro mal si addice a chi è presidente del Senato e garante della Costituzione.

«L’accusa peggiore è quella di poter essere colluso con il potere. Io inciuci con il potere? E’ stata terribile l’accusa di aver ottenuto delle leggi a mio favore – sottolinea Grasso – Questa è l’accusa che mi brucia di più. Io non ho ottenuto niente. Ottenere significa richiedere. Io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me».

Dunque, l’inciucio anti Castelli ci fu, semplicemente non avvenne su ‘richiesta’ di Pietro Grasso? Vogliamo parlarne?

Quanto all’accusa di poter essere colluso con il potere, perchè un trentenne od un quindicenne non dovrebbero dubitare di qualunque ultrasessantenne che, oggi in Italia, si trovi in posizioni apicali nella pubblica amministrazione?
Con il verminaio che i dati nazionali espongono indecorosamente è alquanto improbabile che una persona competente, onesta e determinata sia potuta arrivare ai vertici di qualcosa nel nostro Paese e, soprattutto, restarci, almeno a voler parlare di settore pubblico.
Un mero calcolo delle probabilità.

Cosa pensare di tutta un’epoca – sempre ammantata di grandi ideali – se oggi Marcello Dell’Utri è condannato di nuovo, se la trattativa Stato-Mafia ci fu, se i reati di Andreotti esistono ma furono prescritti? Cosa chiedersi dell’antimafia, se i Casalesi hanno creato – praticamente alla luce del sole – un impero criminale esteso fino alle porte della Capitale e la Ndrangheta ha occupato capillarmente Milano?

E’ di queste ore la notizia che due pentiti, Domenico Bidognetti e Francesco Cantone – durante il processo in corso al tribunale di Santa Maria Capua Vetere che vede imputato Nicola Cosentino per concorso esterno in associazione camorristica – coinvolgono l’ex governatore della Campania Antonio Bassolino, riguardo il  tentativo di dissociazione portato avanti da alcun clan campani all’inizio degli anni ’90, dopo il pentimento del boss Alfieri:  “l’idea partì dai Moccia di Afragola dovevamo consegnare le armi e abbandonare il clan, anche il vescovo di Acerra don Riboldi era coinvolto; in cambio non avremmo avuto l’ergastolo”.

Chi erano i consulenti della Commissione Antimafia mentre avveniva tutto questo e mentre Falcone, Borsellino e le loro scorte morivano in difesa del Meridione? E chi era ai vertici della Direzione Antimafia quando Casalesi e Ndrine si spartivano la ricchezza d’Italia: Napoli e Milano?

Uno di loro era Pietro Grasso. Impensabile che fossero collusi, ma qualcosa è andato ‘storto’.
Sempre in questi giorni, la Corte d’Assise di Caltanissetta – nel nuovo processo per la strage di via D’Amelio – ha annunciato che sentirà il Capo dello Stato attuale ed allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, su quanto a sua eventuale conoscenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, sulla sostituzione ala guida del ministero dell’Interno, nel 1992, di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino e sulle difficoltà che incontrò in Parlamento, nel 1992, la conversione del decreto legge sul carcere duro.
Verranno ascoltati anche l’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, gli ex ministri dell’Interno e della Giustizia, Nicola Mancino e Giovanni Conso, e l’ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato.
Ed il fratello di Paolo Borsellino, stavolta, si è costituito parte civile. E’ il suo legale, Fabio Repici, che ha chiamato Giorgio Napolitano come teste al processo.
Un processo denominato Borsellino-quater. Quater … quarto tentativo.

«Non si possono estrapolare fatti singoli per sporcare la credibilità di una persona», diceva Pietro Grasso ieri sera alla trasmissione Piazza Pulita ed in questo ha pienamente ragione.
Come anche il presidente del Senato ha ricordato che «ci sono stati molti processi spettacolari che hanno portato ad assoluzioni», cosa vera e sacrosanta, ad esempio come nel caso del primo processo a John Gotti a New York, immortalato da Sidney Lumet in ‘Non provare ad incastrarmi’.

Pietro Grasso, oggi, è molto di più di un ‘semplice’ supermagistrato. Oggi, presiede il Senato: è un padre della Patria. Si è presentato da ‘galantuomo’ in Senato e nell’insediarsi ha parlato di ‘casa trasparente’: è esattamente quello che ci aspettiamo tutti da lui.

Infatti,  è ormai comprovato che Cosa Nostra ha avuto ampi, profondi e controversi rapporti con i vertici politici dell’Italia per decenni.
Un Paese che continua ad andare avanti come se non fossero ormai Storia patria i reati associativi di  Giulio Andreotti, presidente del Consiglio prescritto per i fatti accaduti fino al 1980, di Totò Cuffaro, senatore e governatore regionale condannato a sette anni di carcere, di Marcello Dell’Utri, senatore e fondatore Forza Italia condannato  per i fatti accaduti fino al 1992, di Nicola Cosentino, Sottosegretario di Stato all’Economia e alle Finanze in carcere con processo in corso, per reati avvenuti fino a poco tempo fa.

Dopodomani, Marco Travaglio replicherà a Pietro Grasso durante la trasmissione Servizio Pubblico e vedremo se tra lui e Santoro avranno la voglia di lanciare il guanto ‘oltre’ Pietro Grasso e la sua carriera, arrivando ad una ineludibile questione morale da affontare: cosa ne facciamo, se l’Italia deve cambiare, di un’intera dirigenza apicale che ha ‘conquistato’ quelle poltrone e si è dovuta (o voluta) ‘adattare’ durante 20 anni di cleptocrazia e sbando generalizzati?

Anche perchè, come ben sappiamo tutti, qualunque riforma non avrebbe effetto – o lo avrebbe dilazionato e sfilacciato – se ‘quella’ classe dirigente gestisse il tutto come ha fatto per vent’anni.

Questa sarebbe la domanda ‘giusta’ da inviare a Pietro Grasso come presidente del Senato, visto che, come magistrato e come sessantenne, non è certo stato tra i peggiori, salvo scoop imprevedibili, ma, soprattutto, perchè nell’insediarsi al Senato ha parlato di ‘casa trasparente’.

E Pietro Grasso potrebbe raccogliere il ‘guanto’ di sfida, nella liberalità delle sue opinioni, iniziando ad aprire qualche armadio e lasciarci liberi di scoprire qualcuno dei nostri scheletri: se un magistrato come lui arriva alla presidenza del Senato è praticamente un atto dovuto, in democrazia, come lo è storicizzare l’Antimafia, valutarne gli esiti ed i limiti in questo mezzo secolo circa di esistenza.

Perchè l’Italia – che ha bisogno di stabilità, ma anche di chiari segni di cambiamento – non è mai riuscita ad anticipare, a prevenire, la Mafia, pur avendo, addirittura, una Commissione Parlamentare apposita che avrebbe dovuto dare indirizzo politico per gli interventi legislativi, per la sicurezza, per gli aspetti sociali?

Qual’è il punto di vista del presidente del Senato?

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Dell’Utri, tante domande aperte

26 Mar

Nel 2010, quando la colpevolezza di Marcello Dell’Utri era messa in discussione dall’annullamento di una sentenza, esisteva un’unica domanda possibile “se non era un mafioso per chi lavorava Marcello Dell’Utri e quale è stata la sua effettiva funzione?” Se Dell’Utri aveva contatti con mafiosi senza esserne tale, senza esserne amico e senza che in tali vicende fosse lontanamento coinvolto Silvio Berlusconi, a nome di chi lo faceva? (link).

 Oggi, dopo una prima sentenza in Appello era stata annullata dalla Cassazione, secondo i giudici   Marcello Dell’Utri fu mediatore tra Berlusconi e Cosa Nostra, con una condanna a sette anni di detenzione, come la precedente.

Le questioni poste all’epoca ritornano, dunque, con maggiore evidenza oggi. Se prima ci si poteva chiedere se non era un mafioso, restava, però, da chiedersi per chi lavorava Marcello Dell’Utri e quale è stata la sua effettiva funzione.

Oggi, preso atto della nuova sentenza, resta da chiarire se Marcello Dell’Utri è stato un mediatore, un “ambasciatore”. Un intermediario? Un manager competente e scaltro? L’amico fedele ed ‘affidabile’ di Berlusconi e basta?

E perchè il senatore Dell’Utri avrebbe avuto rapporti con mafiosi solo fino al 1992, interrompendoli con l’entrata in politica di Berlusconi?
Tutto questo ha qualcosa a che vedere con l’estinzione della Cupola corleonese di Riina e Provenzano? O con la fine del predominio del superboss John Gotti a New York, per quanto relativo alla Mafia, consacrato alla storia del cinema dal film ‘Non provare ad incastrarmi’?

Domande che trovano oscuri riscontri, ad esempio, nella ‘vecchia storia’ di Filippo Alberto Rapisarda, partito giovanissimo da Sommatino (Caltanissetta) ed approdato a Milano, dove, negli anni 70,  fondò l’Inim e, poi, assumendo i fratelli Alberto e Marcello Dell’ Utri, la Gestim, società dietro le quali c’erano i soldi dei boss palermitani Bontade e Teresi, secondo i magistrati inquirenti. Un’avventura finanziaria conclusasi con il carcere per Alberto Dell’ Utri e la fuga a Caracas per Rapisarda, mentre Marcello restava a piede libero e tornava da Berlusconi per il quale aveva già lavorato.

Anni in cui, come racconta Marco Travaglio, vi sarebbero state relazioni con mafiosi del calibro di Ciancimino, potentissimo ex sindaco di Palermo, Cuntrera-Caruana, che controllavano il traffico di cocaina, e Jimmy Fauci, che gestiva il traffico di droga fra Italia, Gran Bretagna e Canada?

Per non parlare di Vittorio Mangano, assunto presso la proprietà di Silvio Berlusconi come “stalliere”, ma arrestato nel 1980 da Giovanni Falcone per traffico internazionale di droga.

Ma chi o quali “padroni” ebbe Marcello Dell’Utri dal 1982 al 1992, quando, nonostante avesse posizioni strategiche in Publitalia’80, veniva colto dai carabinieri in compagnia di noti mafiosi?

Quale è stato il suo ruolo nella Storia recente italiana?

La Procura Generale, nella requisioria che ha preceduto la sentenza, ha precisato che «Marcello Dell’Utri, permettendo a Cosa nostra di ‘”agganciare” Silvio Berlusconi, ha consentito alla mafia di rafforzarsi economicamente, di ampliare i suoi interessi, il suo raggio d’azione, di tentare di condizionare scelte politiche governative in relazione al successivo ruolo politico assunto da Berlusconi.

Questa condotta è stata perpetrata dall’imputato coscientemente, conoscendo e condividendo il metodo mafioso dell’organizzazione, perseguendo il fine personale del rafforzamento della sua posizione all’interno delle varie aziende e iniziative di Silvio Berlusconi». L’imputato e mediò la rinnovata richiesta estorsiva di Salvatore Riina, che facendo pressioni e violenze sull’imprenditore milanese, intendeva “agganciare” l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi».

Un Silvio Berlusconi, vittima di Marcello Dell’Utri, secondo i giudici.

Non a caso, anni fa, uno dei quesiti riguardava per chi lavorasse Marcello Dell’Utri e quale è stata la sua effettiva funzione. Una questione non solo giudiziaria, ma soprattutto storica e sociologica, ormai.

E’ stato un mediatore, un “ambasciatore”, un intermediario? Un manager competente e scaltro? L’amico infedele ed ‘affidabile’ di Berlusconi? Ha avuto un proprio potere od è sempre stato uno strumento di altri? Quale è stato l’appeal che ha indotto un uomo di primo piano come Silvio Berlusconi a farlo il confidente di una vita ed il fiduciario di un impero?

Intanto, la Corte d’Assise di Caltanissetta – nel nuovo processo per la strage di via D’Amelio – sentirà il Capo dello Stato attuale ed allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, su quanto a sua eventuale conoscenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, sulla sostituzione ala guida del ministero dell’Interno, nel 1992, di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino e sulle difficoltà che incontrò in Parlamento, nel 1992, la conversione del decreto legge sul carcere duro.
Verranno ascoltati anche l’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, gli ex ministri dell’Interno e della Giustizia, Nicola Mancino e Giovanni Conso, e l’ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato.

Senza dimenticare la sentenza per rapporti mafiosi fino al 1980, comminata a Giulio Andreotti, reati andati in prescrizione, non resta che chiedersi quanto ‘controllo’ sull’Italia aveva Cosa Nostra nel 1992 e quanta corruttela ne era interelata?
E, soprattutto, dove sono andati a finire una così vasta rete di ‘disponibilità’ ed un così ampio ‘fatturato’?

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Romanzo criminale

26 Mar

L’insicurezza dipende da chi sei e cosa ti “fa paura”, ma l’Italia com’è? Sicura, pericolosa o cosa?
Facendo qualche confronto, per uno straniero la Germania è sempre la Germania e per un “colletto bianco” le banlieues sono sempre una banlieu. E’ qualcosa che, se hai sufficiente sfortuna, puoi scoprire anche da turista, ma la gente del posto vive in relativa tranquillità.
Viceversa, se scendi sotto casa e puoi essere coinvolto in un crimine, questa è insicurezza. Come anche i vigili che arrivano dopo un’ora o le denunce contro ignoti archiviate.

La sicurezza in Italia per gli Italiani è  bassa, se consideriamo le proprietà e le tutele. Basta guardare alla diffusione dei furti nelle abitazioni, delle rapine in esercizi e uffici, e soprattutto l’inutilità delle denunce o la rapida liberazione dei colpevoli.

L’insicurezza per le persone in Italia è causata da fenomeni emergenti e quasi
“esclusivi” del nostro paese: gli stranieri “senza fissa dimora”, le bande di giovani dei ceti medi “del sabato sera”, la tratta di strada delle minorenni dall’Est. A questo aggiungiamo le narcomafie, i 200-500mila uomini armati di cui dispongono e i racket che fanno.

Diversi fenomeni, da noi frequentissimi anche in centro città, all’estero sono tipici solo in località famigerate. Siamo il paese dell’UE con più furti e rapine, immigrati clandestini e rom, sentenze annullate e crimini irrisolti, indulti e proroghe, organizzazioni terroristiche e mafiose, vigili disarmati e regolamenti locali, competenze pubbliche esternalizzate.

Visti da fuori somigliamo un pò al Messico di Traffic, ma essendo del
luogo non ci sembra proprio così: siamo abituati e pensiamo che sia
“democratico” essere così tolleranti verso l’illegalità.
La sicurezza dipende da chi sei e cosa ti “fa paura” e, se sei come Joe Pesci, devi accettare che il tuo mondo sia più caotico e più pericoloso.
O no?