Dopo le violenze avvenute all’universita La Sapienza di Roma e che hanno richiesto l’intervento della polizia, alcuni studenti liceali hanno occupato ieri il centrale istituto Pilo Albertelli.
“La risposta migliore alla repressione poliziesca e alla deriva reazionaria che abbiamo visto ieri alla Sapienza. Seguiamone l’esempio e portiamolo in tutte le scuole di Roma per far ripartire la lotta degli studenti. Verso e oltre la Mobilitazione nazionale studentesca del 18 novembre. Ogni scuola sarà una battaglia”.
Fatto sta che a La Sapienza c’era una manifestazione autorizzata come c’era una piccola folla di persone che voleva impedirla: se non la repressione cosa era preferibile, la rissa o – peggio – il linciaggio? Dunque, cosa c’entri questo con l’educazione e le scuole è davvero tutto da capire, specialmente se gli studenti universitari non sembra siano particolarmente turbati dall’episodio della Sapienza.
Come anche ci si può solo chiedere cosa abbiano insegnato finora i docenti dell’Albertelli ai propri studenti, se questi occupano per abolire l’alternanza scuola-lavoro (dimenticando che è un diritto oltre che un requisito formativo internazionale)e per difendere il diritto all’aborto (evidentemente ignorando che nessuna legge in nessuno stato ha sancito quanto).
Viceversa, secondo il Collettivo di una sessantina di studenti, di prettamente scolastico a causa della loro protesta c’è una “scuola che si sta spopolando“, c’è un “forte disagio psicologico degli studenti fragili” come ci sono “i problemi di edilizia scolastica“.
Dunque, cosa fa la Regione Lazio che ha la competenza per il dimensionamento delle istituzioni scolastiche a fronte di un centro storico romano che ‘pesa’ solo il 5% della popolazione nel Comune di Roma ed ancor meno se si parla di giovani?
Come anche cosa fa la Regione Lazio che – tramite le ASL – ha il dovere sia di verificare l’agibilità degli edifici scolastici sia di intervenire per manutentarli come ha la competenza per intervenire con i Servizi Sociali per i minori a rischio, cioè studenti dichiaratamente fragili?
Dulcis in fundo, “ogni scuola sarà una battaglia“? Uno dei diritti dei minori riguardo lo studio è che nelle scuole sia garantito e tutelato il ‘sereno andamento delle lezioni’. Anzi, a proposito di scuole che si spopolano, chi manderebbe i figli a scuola senza lezioni e senza – soprattutto – serenità?
Insomma, se in un edificio scolastico affetto da problemi di edilizia ci sono dei minorenni ‘fragili’ che vogliono trasformare un luogo di armonia e apprendimento in un campo di battaglia, se tutto questo è stato segnalato non solo dal dirigente scolastico ma anche dai media e dai giornali … cosa aspetta l’Ente Proprietario – cioè la Regione – a sollecitarne lo sgombero quanto meno per mettere a norma l’immobile?
Lo scorso anno il liceo Pilo Albertelli è stato il teatro di due occupazioni, l’ultima delle quali ha lasciato l’istituto con migliaia di euro di danni.
Il 31 dicembre scadranno le autorizzazioni per bar e ristoranti per occupare con tavolini e transenne il suolo pubblico in deroga ai regolamenti locali.
Infatti, cessata l’emergenza pandemica viene meno l’esigenza di favorire gli esercizi commerciali penalizzati dalla misure sul distanziamento che ne riducevano la capienza e dovranno essere rimosse le strutture collocate su vie, piazze, strade e spazi all’aperto.
Una vicenda complessa, a Roma.
Infatti, questa estate, su 448 ispezioni, sono state trovate irregolarità in 308 casi e una decina di locali sono stati addirittura chiusi. Secondo i dati comunali erano 3.961 i metri quadrati occupati indebitamente da tavolini, sedie e ombrelloni nelle piazze più famose del centro storico. Una situazione eclatante, confermata dall’assessora alle Attività produttive Monica Lucarelli: “la task force speciale della polizia locale ha riscontrato che l’80% degli esercizi commerciali verificati rilevano irregolarità o abusi sulle occupazioni di suolo pubblico”.
E di ritorno alla normalità proprio non se ne parla: “noi chiediamo innanzitutto la sospensione del canone unico per tutta Roma – dice il presidente della Fiepet Confesercenti Claudio Pica – e chiediamo di mantenere le occupazioni emergenziali. … riteniamo necessario un lavoro sinergico tra Amministrazione, associazioni di categoria e Sovrintendenza che porti alla realizzazione di nuovo catalogo degli arredi, a un regolamento ex-novo delle Osp e ad un superamento dei piani di massima occupabilità (Pmo)”. Papale papale.
I residenti? In subordine: “meglio un tavolino che una automobile”, dicono gli esercenti … dimenticando che di notte le auto non fanno rumore, ma i tavolini si.
Intanto, “la prima attività che stiamo portando avanti come assessorato è un tavolo di confronto per monitorare la “malamovida”, mica reprimerla, come … spiega Monica Lucarelli, assessore alle Attività produttive, intervenuta al festival dell’Architettura di Roma.
Intanto, a causa di dei tavolini su strada di un noto bar, a Via Condotti i negozi di Cartier, Damiani e Prada si ritrovano con le vetrine senza la “via libera” e minacciano una causa per danni … al Comune che ha autorizzato l’occupazione del suolo pubblico.
A Roma, nel periodo post covid, sono state presente circa 6.000 domande di occupazione di suolo pubblico, di cui ben 3.300 circa nel municipio centrale. Un esercito di partite Iva, dopo quello dei tassisti e dei concessionari già ben noti per la loro capacità di ‘pressing’ sul Sindaco di Roma.
Ma se i posti a sedere fossero 20 a testa, si tratta di 120mila ‘coperti’ al giorno, ben oltre il mezzo milione di clienti: siamo proprio sicuri che Roma abbia un flusso turistico tale da reggere questo livello di strutture e occupazione? Se non i turisti, chi dovrebbe alimentare il pubblico di caffè, trattorie e ristoranti: i pubblici impiegati del centro storico nei 20 minuti di pausa che gli son concessi?
E chi dovrebbe pagare per gli arredi urbani per incanalare il traffico, i rifiuti extra degli esercizi da rimuovere e i vigili urbani da assegnare fino alle 2 di notte: chi si alza alle 5 di mattino nella suburbia per andare a lavorare ad 800 euro al mese o poco più?
A proposito, visti i risultati degli ultimi 50 anni, Roma Capitale è proprio sicura che coccolare esercenti, tassinari e concessionari sia un bene per il reddito e per il benessere dei romani (e anche dei turisti)?
Era il 9 dicembre 2019, quando si incontravano a Parigi Zelenski e Putin, per discutere di pace, con la mediazione del presidente francese Emmanuel Macron e della cancelliera tedesca Angela Merkel. Si arrivava così al cessate il fuoco permanente, completamento dello scambio dei prigionieri, sminamento, apertura di nuovi varchi per i civili lungo la Linea di controllo, arretramento dei militari e dei loro armamenti da altre tre zone “È disgelo, ma non ancora pace”, titolava il giorno dopo Le Figaro, se Putin continuava a confermare tutta la sua arroganza e – dall’altro lato – “a Kiev i dimostranti in piazza lo tenevano d’occhio, per assicurarsi che non concedesse niente ai russi. E quando, qualche settimana prima del vertice, Zelenskiy ha accettato la cosiddetta Formula Steinmeier (una revisione degli Accordi di pace di Minsk, elenco dei passi da compiere per stabilizzare il Donbass), i nazionalisti radicali ucraini lo hanno chiamato traditore.” (fonte ISPI)
Veniva anche previsto un nuovo incontro – a Berlino in primavera – per i nodi più importanti da sciogliere: restituzione all’Ucraina del controllo dei confini, elezioni locali e status futuro delle regioni separatiste, i termini di una reintegrazione del Donbass in Ucraina. Poi la pandemia e non se ne è fatto più nulla.
Così la Russia restava convinta di una minaccia ai suoi confini (e stiamo toccando con mano l’efficienza delle forze ucraine), quando un anno fa – il 31 ottobre 2021 – si concludeva il G20 di Roma con l’accordo sulla decarbonizzazione e l’avvio della transizione ecologica con l’obiettivo emissioni zero “entro o intorno a metà secolo”.
Una pessima notizia per i produttori di petrolio, anche se alcuni (USA e Cina) hanno un forte mercato interno che avrebbe consentito una transizione ‘soft’ e altri tre (Russia, Arabia Saudita, EAU) che – essendone privi – si trovavano alle porte di una recessione ultradecennale, specialmente per la Russia che ha un esercito mastodontico e in territorio enorme con 170 milioni di persone, che i paesi arabi non hanno e non devono sostenere.
Per il gas, invece, c’è una situazione diversa, dato che c’è ha un impatto molto minore del petrolio o del carbone, le emissioni sono più controllabili e filtrabili, solo un produttore – le repubbliche ex sovietiche controllate dalla Russia – è egemone ma comunque non è monopolista e c’è chi ancora lo considera una forma di energia ‘rinnovabile’, come scopriremo alla fine del post.
Pochi lo ricordano, ma venti anni fa la contesa Ucraina-Russia iniziò con la questione dei gasdotti che proprio nel Donbass e dintorni smistano verso l’Europa il gas russo e per l’esercito sovradimensionato ex Patto di Varsavia, che era lì a protezione dei confini … russi verso la Nato.
E durante la pandemia e tutti i guai che ha portato, con Zelenski alle prese con le tensioni interne nazionali e vista la dipendenza europea dal gas russo, non è stato difficile per Putin immaginare di riprendersi gasdotti, porti e fabbriche di avionica tramite una ‘liberazione del Don orientale’, cioè aggiungendo il “Donbass Stream Hub” al Nord Stream 1-2 e South Stream, con l’intento di diventare monopolista energetico verso l’Unione Europea dopo esserlo già verso la Cina.
Una tendenza che gravava diversamente sulle nazioni europee, se prive o meno di grandi porti sull’Atlantico, come vediamo nella mappa, e che solo la Germania (da tempo) aveva sterilizzato portando i fabbisogni di gas per la produzione elettrica sotto il 10%.
La Germania, dunque, dipende da risorse estere solo per il 16% nel caso del gas per la produzione di energia elettrica. Naturalmente il bilancio è diverso nel caso del gas per uso domestico, ma tanto vale ancora di più per le altre nazioni europee. Ma è anche una Germania che dipende per circa il 20% della produzione elettrica dalla Cina, dato che il fotovoltaico è per la maggior parte prodotto lì. Tanto per comprendere le profonde cause dell’attenzione statunitense verso … Formosa.
E, come vediamo dal grafico, il bilancio energetico italiano è drammaticamente diverso da quello tedesco (e francese o olandese): dipendiamo dalle importazioni per circa il 75% a causa della storica (fin dai Savoia) incapacità geopolitica a sfruttare i giacimenti condivisibili con nazioni partner nel Mediterraneo, oltre che nei ritardi nell’innovazione generale e nella diffusione del fotovoltaico.
Ritardi a loro volta dovuti sia alla limitata formazione e dotazione di personale tecnico che c’è in generale in Italia sia all’incapacità delle Amministrazioni competenti (Regioni) di programmare oltre la mera sussistenza sia per lo storico rapporto esistente tra una parte del panorama politico-culturale italiano e la Russia.
Dunque, finora i dati ci hanno raccontano quali interessi muovono le alleanze (o le crisi) tra i 5 principali attori energetici mondiali e quali sia il diverso impatto sulle economie europee delle contro-sanzioni russe.
E, forse, questo accade perchè – mentre trascorrevano anni per arrivare al Protocollo di Roma per la decarbonizzazione – l’astrofisica ha confermato che gli idrocarburi potrebbero essere inesauribili, se esistono non solo su Marte e gli altri pianeti esterni del sistema solare, ma anche sulle comete Halley e Hyakutake, nella polvere cosmica, nelle nebulose e nel gas interstellare. Già nel 2004, la Missione Cassini-Huygens (NASA ed ESA) aveva confermato l’esistenza di abbondanti idrocarburi (metano ed etano) su Titano, un satellite (luna) di Saturno come precedentemente suggerito dall’astrofisico Thomas Gold.
In altre parole gli idrocarburi gassosi potrebbero avere ‘origine abiotica’ anche sulla Terra, cioè provenire dalle sue viscere contaminandosi con batteri nell’attraversare la crosta terrestre ed … essere inesauribili.
Intanto, l’impatto ambientale delle nuove tecnologie per arrivare alla decarbonizzazione è incalcolabile, ma certamente pesante, come lo sarà quello della transizione ‘elettrica’ su economia e consumi, cioè sicurezza, pace, povertà eccetera. Viceversa, l’impatto ambientale, economico e sociale degli idrocarburi sono ben noti, sappiamo che sarebbero ancor più contenibili con tecnologie ibride e politiche ‘a chilometro zero’ e di gas ce ne è davvero tanto. Anche senza la Russia.
E siamo tutti in attesa della ‘fusione nucleare pulita’ in corso di sviluppo in Francia sulla base di scoperte italiane e che risolverebbe all’origine la fornitura di energia industriale e domestica.
E il petrolio? Gli USA dipendono dall’Arabia Saudita, tanto quanto la Cina dipende dalla Russia e le ex repubbliche sovietiche.
E da questo derivano i rischi di una terza guerra mondiale. Specialmente se l’Unione Europea non individuerà una road map ed un mediatore (Mario Draghi?) per convincere i due presidenti a sedersi ad un tavolo: prima della pace ci sono gli armistizi, che a loro volta vengono predisposti mentre la guerra è ancora in corso.
Dopo Sarajevo e Danzica, facciamo che la Storia europea non si ripeta nel Donbass.
Purtroppo, i referendum svoltisi in Donbass somigliano molto a tanti altri che hanno legittimato annessioni e unificazioni negli ultimi 180 anni, con corrispettiva nascita di forme di anti-Stato ancora oggi persistenti. Non vanno legittimati nè per quel che rappresentano oggi nè per quel che comporteranno in futuro.
Ma non perseguire almeno un armistizio, almeno per mettere in sicurezza le centrali nucleari e le popolazioni, come per consentire l’intervento internazionale ed accertare crimini e deportazioni, creando le premesse per una ‘restituzione’ dei territori, oltre ad essere poco giustificabile è proprio il fattore che fa espandere i conflitti.
Roma brucia, ma non prendiamocela con Gualtieri: un guaio simile non sorge in pochi mesi.
Prima di lui, c’erano Raggi, Marino, Alemanno, Veltroni a … combattere con l’espansione di una metropoli che poteva contare scarse risorse proprie del territorio, ma negli Anni 70-80 fu urbanizzata con una modesta densità demografica, programmata per una bassa formazione professionale, sviluppata con tanto territorio e poche infrastrutture.
Dunque, c’è un declino iniziato per scelte fatte in piena speculazione edilizia per aumentare la popolazione e il Pil, senza adeguate premesse di crescita. E di questo Roma se ne è resa conto solo dopo il tentativo del Sindaco di Rutelli di modernizzarla come amministrazione e trasporti. Dopo di che, inevitabilmente, le Giunte hanno subito il degrado delle già carenti infrastrutture urbane con Veltroni (ndr quando le ‘buche’ divennero normali a Roma), poi quello della burocrazia capitolina conai tempi di Alemanno (ndr gli scandali), poi quello dei servizi tecnici e demaniali con Marino (ndr commissario prefettizio), infine quello dell’immondizia e dei trasporti con la Giunta Raggi. E sono ancora sul tavolo.
Dunque, non prendiamocela (solo) con il Sindaco Gualtieri, se non per la temerarietà di candidarsi ad una mission impossible come fare il sindaco di Roma … dopo NON aver promesso ‘lacrime e sangue’.
Fatto sta che, a proposito di prevenzione incendi:
se costruisci una città su un colle arido e ventilato invece che a riva di fiume come voleva tuo fratello Remo … già parti male;
se la estendi nelle forre comprendo tutti i rivi, tanto ci pensano liberti e schiavi … ti predisponi bene;
se la tieni come fosse qualcun altro ad occuparsene e accumuli roba infiammabile per qualche secolo … sei a buon punto;
se ognuno fa come gli pare e so pure ‘gnoranti (che qui significa ‘ostinato’), “semo solo noi” … e tanti auguri a tutti.
Alla fine degli Anni ’90, due aree urbane delle dimensioni di Roma vennero colpite da forti terremoti che ne devastarono le infrastrutture, lasciarono molti edifici degradati, indebolirono il business, l’occupazione e il reddito. A Kobe – con la mentalità giapponese – servirono quasi 10 anni per rimettersi al passo. A Los Angeles, invece, la percezione del disastro collettivo e il senso di insicurezza sono stati tra i fattori speculativi che prima hanno consentito di ‘sorvolare’ sulla situazione e poi … hanno disastrato il mercato assicurativo-immobiliare.
Non sorprende il blocco dell’export della carne dei maiali e derivati italiani alle frontiere di Svizzera, Kuwait, Cina, Giappone e Taiwan, dopo che nel dicembre 2021 sono state ritrovate diverse carcasse di cinghiali fra Liguria e Piemonte, risultate positive al virus della peste suina africana (ASF) una malattia infettiva veterinaria altamente contagiosa letale già pochi giorni dalla comparsa delle petecchie emorragiche.
I maggiori vettori di espansione del virus sono
la proliferazione di cinghiali e maiali inselvatichiti, ormai stanziali persino in alcune periferie metropolitane
la caccia al cinghiale, che immette nel mercato e sulle tavole carni suine potenzialmente infette
la distribuzione dei ‘prodotti dei suini infetti’ fuori dalle aree colpite (in quarantena e con blocchi commerciali), attraversando grandi distanze (migliaia di chilometri).
Dunque, dopo i danni dell’influenza aviaria che negli ultimi mesi ha già portato all’abbattimento di oltre 14 milioni di polli, tacchini e altri volatili in Italia, ci ritroviamo sull’orlo del medesimo disastro per quanto riguarda suini ed insaccati.
«Siamo costretti ad affrontare questa emergenza perché è mancata l’azione di prevenzione e contenimento come abbiamo ripetutamente denunciato in piazza e nelle sedi istituzionali di fronte alla moltiplicazione dei cinghiali che invadono città e campagne da nord a sud dell’Italia dove si contano ormai più di 2,3 milioni di esemplari». (Coldiretti)
Nel ricercare le cause di questa inerzia, è emblematica la grottesca vicenda tutta capitolina (degna del miglior Alberto Sordi) per l’abbattimento di sette cinghiali a due passi dal Vaticano [link] e delle azioni politiche che ne seguirono:
la senatrice di Leu Loredana De Petris, presidente del gruppo Misto, presentò una interrogazione parlamentare per il gesto “gravissimo, di una vigliaccheria inaudita”;
la sindaca M5S Virginia Raggi denunciò che “il Protocollo sui Cinghiali, da noi sottoscritto insieme alla Regione, non è stato attuato dall’Ente competente, Regione Lazio”;
la Giunta comunale di Roma Capitale annunciò “la costituzione immediata di una commissione d’inchiesta amministrativa per fare luce sui fatti e valutare eventuali profili di responsabilità”;
l’ assessora regionale all’Ambiente Enrica Onorati (PD) precisava che “la decisione della telenarcosi e della eutanasia … spetta, è bene ricordarlo, al Sindaco della città” con “un protocollo di intesa voluto dal prefetto di Roma per sopperire alle inefficienze dell’amministrazione competente”.
l’opposizione di Centrodestra tacque, evitando di rimarcare “cinghiali, topi grandi come labrador, gabbiani assassini, abbiamo visto di tutto“, come poi fece Giorgia Meloni (FdI), ma … era in campagna elettorale.
Secondo un rapporto del 2013 dalla FAO, “prevenire la diffusione [della peste suina africana] è particolarmente necessario per l’intero settore produttivo dei suini in Europa. … gli Stati europei devono mantenere un alto livello di allerta. Devono essere pronti per prevenire e reagire effettivamente all’introduzione [della peste suina Africana] nei loro territori per molti anni a venire“.
Allerta, prevenzione e reazione che in base alla nostra Costituzione competono agli Enti Locali, non allo Stato.
Secondo i dati di Arpa Milano, “i fuochi d’artificio sono responsabili del 6% del Pm10 durante l’intero anno”, ma si tratta di “un picco proprio nelle ore tra la mezzanotte del 31 dicembre e il mattino del 1 gennaio”.
Secondo le stime del WWF, diverse migliaia gli animali muoiono ogni anno a causa dei botti che esplodono a fine anno, ma ci sono anche tanti fuochi d’artificio che non producono rumore, bensì luce.
Ben venga vietare ciò che scoppia e che può far del male agli uomini prima che agli animali, ma che dire se oggi, alla stregua di altri comuni, anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha firmato l’ordinanza che prevede il “divieto assoluto di utilizzare materiale esplodente, fuochi artificiali, petardi, botti, razzi.”
Perché vietare fuochi artificiali e razzi? Perchè privarci della gioia collettiva della Luce, che festeggiamo da quando divenimmo uomini civilizzati?
E perchè consentire “fontane, bengala, bottigliette a strappo lancia coriandoli, fontane per torte, bacchette scintillanti, trottole, girandole e simili”? Solo perchè la burocrazia li chiama “petardini da ballo” (categoria F1 della normativa)?
La condivisione ‘sociale’ della gioia (e della luce) che fastidio da? Meglio ognuno ‘nel suo privato’? Proprio durante la pandemia? Ed a proposito di ‘libertà’ … nulla da ridire?
Perchè lo Stato paga le mascherine ai docenti e non agli alunni, come lamentano tanti diretti interessati sui Social e sui siti specializzati?
Semplice: la salute dei docenti è di competenza dello Stato, che è tenuto a provvedere in quanto datore di lavoro.
Invece, la salute degli alunni è di competenza delle Regioni, esclusiva secondo la Costituzione (Art. 117), “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.” Solo nel caso degli alunni del Triennio tecnico la Scuola – cioè lo Stato – dovrebbero provvedere al fabbisogno di mascherine, essendo equiparati di norma a ‘lavoratori’, con tanto di copertura Inail.
Ma le Regioni ci raccontano sempre che i soldi sono pochi, come se noi non ricordassimo che è dall’anno 2001, che le regioni a statuto ordinario godono della compartecipazione al gettito erariale dell’IVA, attingendo ‘direttamente’ dalle risorse nazionali per i pregressi (e delimitati) trasferimenti del servizio sanitario regionale e del diritto allo studio.
In realtà, alcune regioni investirono meritevolmente, altre spesero in modo disastroso, come mostra questo grafico pubblicato dal Corriere della Sera nel 2010.
E oggi non basta l’IVA più l’Irperf e tanto altro ancora.
Le regioni che dieci anni fa arrivarono ad un debito esorbitante, lo hanno solo consolidato in mutui/debiti bancari, ma non risanato. In altre parole, le onerose rate – che dureranno un decennio o due – erodono (e azzerano in alcuni casi) la disponibilità di spesa corrente di Enti che non esistono solo per pagare stipendi e forniture, ma innanzitutto per erogare prestazioni di qualità almeno sufficiente.
A partire dalle mascherine, che … paga Pantalone: le manda l’Esercito.
La pandemia Covid-19 ha avuto un impatto importante sui valori dei calciatori in rosa nelle varie squadre e, secondo i dati forniti da Transfermarkt, tra le società calcistiche italiane oggi è il Lecce a ritrovarsi i costi per ingaggi più elevati in rapporto al valore della rosa (72,7%).
Seguono la Spal e poi la Juventus dopo 10 anni di presidenza Agnelli spenderebbe 294 milioni di euro l’anno per una rosa che vale ‘solo’ 621 milioni. All’opposto, il lungimirante Napoli che all’inizio del campionato aveva a bilancio costi per ingaggi di soli 103 milioni per una rosa che vale 535 milioni e l’Inter di Marotta e Conte che ne spende 139 per una rosa che ne vale 554.
Oppure la virtuosa Atalanta che spenderebbe solo 36 milioni per la sua rosa che ne vale 266, mentre il glorioso Milan è ben distante con una rosa da 334 milioni e stipendiata per 125.
Ed anche se andassimo al derby della Capitale, dove la Roma a stelle e strisce ha una rosa valutata a 385 milioni ‘contro’ una Lazio a tradizione italiana che ne vale 304, ma la prima spende quasi il doppio della seconda per gli ingaggi: 125 milioni giallorossi contro 72 albicelesti.
In parole povere, ecco trovate le cause del campionato declinante della Juventus, del Milan e della Roma, che hanno ed avranno maggiori difficoltà a rilanciarsi nell’emergenza Covid-19, senza riequilibrare il bilancio tra valori e costi.
Alitalia è finita nel 1996, quando vennero accertati a bilancio annuale 1,217 miliardi di perdite, a causa principalmente della perdita di attrazione (sic!) per l’arrivo dei voli low cost e dei costi insostenibili per i contratti di lavoro del personale particolarmente privilegiati. Da allora, solo una mezza dozzina di tentativi malriusciti o falliti di ristrutturarla, privatizzarla, rilanciarla.
Ma il problema è Alitalia oppure lo sono il socio di maggioranza e la location industriale?
Cosa c’era da fare e cosa non è stato fatto, arrivando al gigante dalle gambe di argilla di oggi, è scritto nei bilanci del 1997, quando venne miracolosamente rimessa sesto con 400 miliardi di utili e l’anno dopo ridistribuiva il dividendo ai soci.
1,217 miliardi di perdite recuperati con la riduzione dei costi, ristrutturazione dei contratti, ricapitalizzazione e vendita del 37% delle azioni tramite quotazione in Borsa, alleanza internazionale per ottimizzare rotte e feederaggio (KLM), un Hub internazionale ‘vicino all’Europa’ che servisse la Lombardia e la Val Padana, già allora in forte crescita infrastrutturale e demografica.
Viceversa, grazie agli ostacoli allo sviluppo di Malpensa e nella privatizzazione completa di Alitalia ad oggi persistenti, dopo poco tempo KLM recedeva dai due accordi del 1999 di collaborazione con KLM, per l’area passeggeri ed area cargo.
Da allora il diluvio, mentre restavano incompleti o inefficaci accordi e partnership, finchè nel 2008, pochi mesi dopo un prestito ponte di 330 milioni di euro, Alitalia veniva sentenziata per insolvenza dal Tribunale di Roma e l’inchiesta penale per bancarotta di Alitalia-Linee Aeree Italiane si è conclusa con quattro condanne in primo grado nel 2015, con conseguenze drammatiche:
migliaia di piccoli azionisti vedono sfumare i propri risparmi, dopo che nel 2008 il governo Berlusconi trasformò le loro azioni in una bad company
inizia il contenzioso della SEA Handling di Malpensa coinvolta nell’abbraccio letale, prima con Alitalia come creditrice della compagnia aerea e poi anche in un’intervento giudiziale UE per gli aiuti di Stato illeciti a compensazione dei debiti
accordi o comunque ‘manifestazioni di interesse’ a bizeffe (sembra oltre 30), ma tutti senza successo, da KLM, Air France, SkyTeam, CAI – Compagnia Aerea Italiana, Lufthansa, Air One, l’OPA del 2006, Aeroflot, Delta Airlines, fino ad Etihad Airways che dal 2015 è proprietaria del 49% di Alitalia e da due anni si ritrova con il Commissariamento.
Il problema è sempre lo stesso: il socio di maggioranza ha sempre dimostrato di essere in difficoltà, quando si tratta di intervenire come in qualsiasi altra azienda quotata in Borsa che deve assicurare servizi quotidiani.
Ad esempio, a causa del bilancio disastroso nel 2017, era stato stilato un pre-accordo tra i sindacati e l’amministrazione per evitare il fallimento, prevedendo 980 esuberi, tagli medi degli stipendi dell’8% e la diminuzione delle ferie, ma il referendum sindacale l’aveva bocciato con il 67% di “no”. Così, il mese dopo si è avviata la procedura di amministrazione straordinaria , ma è anche arrivato – per l’ennesima copertura del bilancio abissale a carico dei contribuenti – un primo finanziamento da 240 milioni di euro seguito da un secondo di360 milioni a ottobre 2017 e la terza tranche altri 300 a 15 gennaio 2018, per un totale di 900 milioni su cui sta indagando l’Unione europea.
Insomma, se si vuol sperare di ‘dare le ali’ ad Alitalia, servirebbe innanzitutto una profonda ristrutturazione del capitale azionario, se il Mef accusa solo perdite e – contestualmente – una integrazione con il trasporto di superficie che oggi manca e l’ammodernamento dei contratti di lavoro e delle regole interne aziendali.
Andando agli aspetti ‘aziendali’, Lufthansa vince perchè ha delocalizzato e ampliato, andando oltre Francoforte e non focalizzandosi su Berlino, bensì sviluppando notevolmente l’Hub di Monaco di Baviera, addirittura con un proprio terminal, e l’interscambio di Dusseldorf, che garantisce oltre 300 collegamenti ferroviari al giorno, oltre a diversificare tra passeggeri, logistica, catering, assistenza, tour operator.
Lufthansa ha investito il giusto e con lungimiranza, il Mef ha riversato forse molto di più in Alitalia, ma solo per coprirne le perdite di dissesto in dissesto.
Dunque, escludendo gli investimenti esteri e l’innovazione e crescita che ne vengono, il nostro Governo sembra avere solo due opzioni ‘italiane’:
la ‘pubblica’ Ferrovie dello Stato con il rischio che venga travolta dall’ennesimo tracollo ‘annunciato’ di Alitalia
la privata Atlantia, disposta a dissanguarsi in Alitalia per qualche anno, pur di recuperare in immagine e presenza infrastrutturale – logistica, dopo gli scandali del Ponte Morandi e dello stato di manutenzione generale.
Non sarà la soluzione in alcun caso, se oggi, a differenza di trenta anni fa, si dimentica il vero tallone d’Achille dell’Alitalia.
Era il marzo 1980, quando la Regione Lombardia approvava il primo ampliamento di Malpensa come aeroporto intercontinentale, nella prospettiva avveratasi che oggi, Anno Domini 2019, … in quelle regioni settentrionali vive la metà degli italiani, si produce più di metà del PIL italiano e si da corso alla fase di connessione e digitalizzazione dei processi produttivi /prestazionali, dopo aver già proceduto diffusamente all’automazione e alla robotica.
Se a Roma tra Fiumicino e Ciampino transitano 45 milioni circa di passeggeri l’anno, è un fatto che tra Milano, Bergamo, Bologna e Venezia si spostino in aereo quasi 65 milioni di persone.
Ricordiamo – tanto per chiarire bene tutto – che un viaggiatore che sbarca a Dusseldorf impiega solo 12 minuti dal terminal alla stazione centrale, grazie anche agli investimenti di Lufthansa, mentre da Fiumicino a Roma Termini ne servono quasi il triplo, cioè 32 minuti sulla carta. E se dalla Hauptbahnhof di D’dorf si è già nella city ed in un’oretta si raggiungono le varie città industriali renane od olandesi, dalla nostra central station capitolina in un’ora al massimo si arriva forse ad Aprilia e, magari, anche all’Eur … che è sulla via tra aeroporto e stazione centrale, ma non ha fermate.
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