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La ‘nuova Sinistra’ nei sondaggi di La Repubblica

10 Dic

La Repubblica sta proponendo ai suoi lettori un sondaggio: “Matteo Renzi ha stravinto le primarie ed è il nuovo segretario del Pd. Secondo voi quali devono essere le sue priorità?”
Il “sondaggio non ha, ovviamente, un valore statistico”, come  recita il sito, ma, essendo ormai arrivati ad 80.000 ‘voti’, un qualche valore descrittivo deve ormai pur averlo.

Il 60% dei cliccanti preferisce, più o meno in parti uguali, tre priorità: tagliare i costi della politica, con abolizione del Senato, lotta alla disoccupazione e nuove forme di avviamento al lavoro, legge elettorale maggioritaria. Ricordando che La Repubblica è (era?) molto diffusa tra i docenti, troviamo un altro 10% che va a scuola e ricerca e il 7% al rilancio della politica culturale e del patrimonio artistico.

Il restante 23% dei click si divide tra le priorità prettamente politiche, ovvero tra lotta alla povertà (6%), disarmo e riduzione delle spese militari (5%), lotta al rigorismo della Ue e rilancio della politica ambientale (4%), rapido superamento del governo Letta (3%).

Come non sono i costi della politica a vessare il Paese, bensì quelli della Pubblica Amministrazione, non sono solo le nuove forme di avviamento a creare lavoro, non quanto – almeno – lo siano meno burocrazia, meno tasse e più investimenti. E non è una legge maggioritaria la bacchetta magica per un consenso che non c’è, piuttosto i due turni con ballottaggio alla francese.

La fotografia della ‘nuova Sinistra’ che emerge dagli ‘ottantamila’ di La Repubblica non è confortante, se la politica ambientale interessa così poco nel paese delle alluvioni e delle discariche tossiche, con tot rischio di terremoti e periferie urbane ben degradate, come se si possa eludere la necessità di ‘ripartire’ da quel poco di ambiente che ci è rimasto e dalle opere pubbliche che languono da decenni.

Quale, poi, sia la distanza tra la ‘nuova Sinistra’ ed i ceti più svantaggiati è tutta raccontata da quel 7% che mette al primo posto la “politica culturale e del patrimonio artistico” a fronte di quel 6% che reclama la lotta alla povertà (che includerebbe politiche per le famiglie e salario minimo) …

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Lezioni sospese. Ed il monte ore annuale?

13 Feb

La buriana sembra essere passata e la neve passa loscettro del disastro al ghiaccio ed al gelo.
Intanto, nei centri abitati riaprono le scuole, dopo sette o dieci giorni di sospensione della didattica.

Il sistema scolastico italiano prevede, come tutti sanno, che le classi ed i singoli alunni svolgano un determinato numero di ore, affinchè l’anno scolastico sia “valido” e si possa essere promossi od amemssi agli esami.

Parliamo di 1056 ore annue per gran parte degli istituti, di 990 per medie, elementari e buona parte dei licei, fino al minimo di 891 ore, previsto per i classici.
Ore che vengono distribuite, quasi esclusivamente, su 33 settimane annue, con frequenze che vanno dai cinque ai sei giorni alla settimana e con una durata quotidiana delle lezioni di 5-6 ore.

La norma, così come voluta dal ministro Gelmini, non prevede deroghe al numero minimo di ore svolte dalla classe e consente ai singoli alunni un massimo di una 50 di assenze annue, salvo casi eccezionali e documentati.
D’altra parte, la norma non è altro che il recepimento delle direttive e dei trattati europei: nulla da fare, dunque, se vogliamo emettere dei titoli riconosciuti all’estero.

In due parole, se il Calendario scolastico della Regione Lazio, per il 2011-12, prevedeva 210 giorni di lezione, sabati inclusi, ne restano solo 200-202 per le scuole di Roma, ad esempio, ed ancor meno per tutte quelle località dove stamane le lezioni sono rimaste sospese.

Così andando le cose, va capito cosa accadrà, nel futuro prossimo venturo, allorchè verrà a porsi il problema che, in molti comuni del Centroitalia tra cui la Capitale, la durata dell’anno scolastico potrebbe non poter contare su un numero di giorni congruo, a fronte di un diritto costituzionalmente garantito.
Dieci, quindici giorni di sospensione delle lezioni sono tanti, tantissimi, se, poi, c’è da recuperarli.

Le scuole di pensiero a riguardo sono tante e tutte affette da una qualche “difficoltà”.

Dall’ipotesi che le ore vengano svolte “in aggiunta” all’orario “normale”, per iniziativa dei dirigenti e degli organi collegiali delle scuole, senza intaccare il calendario regionale, ma stravolgendoi trasporti e obbligando i docenti ad orari eccedenti.
A quella che le singole Regioni adottino modifiche ai rispettivi calendari scolastici, azzerando le vacanze pasquali, ipotesi impraticabile per gli esiti di forte impopolarità, mentre riforme ed elezioni incombono.

Per finire alla prevedibilissima “deroga” ministeriale, magari a mezzo circolare, anzichè decreto, sollevando tutti dall’obbligo di recupero delle ore di lezione mancanti e lanciando al paese un chiaro – e pericoloso – segno di populismo … e di “benevolenza”. Il tutto  – ancor più pericolosamente – in barba all’europeismo vantato da Mario Monti in tante sedi internazionali.

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Scuola facile per gli stranieri

9 Feb

Che “qualcosa non vada” al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, diretto dal ministro Profumo, gli addetti ai lavori l’avevano già capito da qualche giorno.
Parliamo degli Esami di Stato convocati a mezzo di una semplice circolare, anzichè con la dovuta ordinanza.

Dettagli, che dicono molto sulla competenza e sullo stile.

La conferma è di questi giorni, quando, sempre a mezzo circolare, si invitano gli istituti di istruzione secondaria, inclusi i licei, ad accettare le iscrizioni di studenti stranieri licenza di scuola media.

Qualora gli studenti con cittadinanza non italiana siano ancora, secondo l’ordinamento scolastico italiano, in età di obbligo di istruzione … vengono iscritti alla classe corrispondente all’età anagrafica, salvo che il collegio dei docenti deliberi l’iscrizione ad una classe diversa, tenendo conto, dell’ordinamento degli studi e del corso di studi eventualmente seguito nel paese di provenienza, dell’accertamento di competenze, abilità e livelli di preparazione dell’alunno e del titolo di studio eventualmente posseduto dall’alunno. Qualora, invece, gli studenti stranieri che richiedono l’iscrizione ad una classe intermedia non siano più soggetti all’obbligo, almeno sedicenni, il consiglio di classe può consentire l’iscrizione di giovani provenienti dall’estero“.

Ovviamente, “l’accertamento di competenze, abilità e livelli di preparazione dell’alunno” avverrà a carico del già magro “Fondo d’Istituto”, come lo saranno tutte le attività di recupero e supporto necessarie a ragazzi e ragazze che, solo in ragione dell’età, si ritrovino catapultati in una classe liceale, senza conoscere la lingua e senza aver seguito un percorso formativo minimamente omogeneo e coerente.

Molto più logico, viceversa, prevedere che le scuole medie offrano sessioni straordinarie per gli esami di licenza e, soprattutto, tenere conto che agli studenti italiani la norma vigente non permette neanche di cambiare tipo di studi superiore, dopo l’inizio delle lezioni a settembre, ovvero dopo il termine ultimo per gli esami integrativi.

Ma per fare questo, il ministro Profumo avrebbe dovuto articolare e concertare un decreto, anzichè una circolare, che, però, lascia il tempo che trova.

Il perchè è facile a dirsi.

Al di là delle risorse – finanziarie ed umane che sono necessarie – le disposizioni del ministro Profumo sono inviate a mezzo “circolare” e, in base alle norme vigenti, le istituzioni scolastiche autonome e le singole regioni sono libere di recepirla o meno … come per tutte le circolari.

Infatti, le circolari sono un “atto regolativo interno”, mentre le istituzioni scolastiche sono, per dettato costituzionale, “autonome” dal punto di vista gestionale.
Attendiamo, dunque, un’ordinanza – di nome e di fatto – per gli Esami di Stato ed un decreto – non una circolare – per quanto riguarda gli alunni stranieri.

Povera Italia.

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Ipsos MORI, default USA, indignados europei: specchi diversi di un tempo che cambia

14 Lug

Ipsos MORI, eminente ente di ricerca del Regno Unito, ha pubblicato uno studio  molto accurato sulla globalizzazione, che analizza nel dettaglio alcuni aspetti relativi alla soddisfazione dei cittadini ed ai relativi aspetti etici (link).

Innanzitutto, emerge che quasi nessuno “è contento della globalizzazione”: pressoche nessuno tra gli europei (ad eccezione dei polacchi), gli statunitensi e giapponensi è favorevole, mentre tra i paesi “entusiasti” solo l’India e la Cina Popolare raggiungono o superano il 30%.

La maggiore preoccupazione, che la globalizzazione induce nei cittadini, è la “disoccupazione” (50% delle persone), seguita dall’incubo della “povertà” (40%) e da una significativa attenzione a “crimini” e “corruzione” (oltre il 30%).

Nella sostanza, potremmo affermare che esiste una diffusa percezione di vivere in una società ingiusta e, probabilmente, illegale.

Non a caso oltre la metà degli intervistati, ad eccezione di Francia, Belgio ed Ungheria, è convinta che “lo Stato debba esercitare un controllo verso le Big Companies, pubbliche o private che siano”. Si va da un’adesione del 50% (USA e Italia) ad un exploit anche superiore all’80% per i paesi emergenti come India, Brasile e Cina Popolare.

La percentuale rasenta il plebiscito  se la domanda diventa “se il governo dovrebbe diventare più aggressivo nel regolamentare l’attività delle Big Companies nazionali o multinazionali“, con il 75% dei favorevoli in Europa, USA e G8.

Piuttosto ambiguo l’esito di un’altra coppia di indicatori, visto che tantissimi sembrano consapevoli che “gli investimenti delle Big Companies sono essenziali per lo sviluppo del paese”, oltre l’80%, ma le percentuali crollano al 42% nel Nordamerica ed al 31% in Europa, se gli si chiede se temono “eventuali ricadute occupazionali in conseguenza di restrizioni per le grandi aziende”.

Probabilmente, i cittadini dei “paesi avanzati”, europei e americani, vedono nelle “proprie” Big Companies un valore aggiunto di egemonia internazionale, ma, a differenza dei paesi emergenti, sono disposti a modificare il proprio stile di vita o le relazioni sociali, in cambio di maggiori garanzie verso corrotti e speculatori.

La battaglia del default statunitense, tra Obama ed i Reps del Congresso, è una delle tappe di questa istanza che dai cittadini si rivolge alla politica, alla finanza, al clero, all’impresa. L’impasse dell’euro-moneta, la fragilità dell’euro-politica, la coincidenza tra lobbies e partiti saranno un’altra tappa di questa lunga partita.

L’unica cosa certa è che adesso abbiamo una pietra miliare per indirizzare il rapporto tra politica, aziende e cittadini e questa è proprio  il documento dell’Ipsos MORI, che esce quasi in simultanea con l’emergere di “indignados liberali”, un po’ in tutta Europa, e con la “svolta” che, entro venti giorni, dovrà necessariamente imboccare l’America con tutto quello che ne conseguirà per l’area Euro e non solo.

Ipsos MORI, fede e globalizzazione

14 Lug

Ipsos MORI, eminente ente di ricerca del Regno Unito, ha pubblicato uno studio  molto accurato sul rapporto tra fede/religione e globalizzazione (link).

A riguardo, Tony Blair, ex primo ministro inglese convertitosi recentemente al cattolicesimo, ha tenuto a dichiarare che: «questo sondaggio dimostra quanto conti, ancora oggi, la religione e come nessuna visione del mondo contemporaneo, politica o sociale, possa ritenenrsi completa senza la comprensione del rapporto tra fede e globalizzazione»

Ho letto il documento britannico e riporta cose molto diverse da quelle di cui Tony Blair parla.

Innanzitutto, alla domanda se la religione contribuisce a creare dei valori comuni e dei fondamenti etici necessari ad affrontare il 21esimo secolo, i paesi cristiani rispondono sostanzialmente NO, con una media di “credenti” intorno al 30%, che Messico e Italia raggiungono un risicato 50% mentre in Turchia non superano il 44%. Solo in USA e Brasile i “favorevoli” si attestano al 65%.

A contraltare, salta fuori che solo il 15% dei cristiani europei ed il 30% degli statunitensi crede che la fede sia l’unica via che porta alla “salvezza”.
Il 66% dei cristiani considera sì importante la fede, ma in Europa, ad eccezione dell’Italia, la media è inferiore al 45%.

E’ impressionante il dato per cui solo il 52%, a prescindere dalla religione, considera l’impegno sociale, la Charity, come un fatto personale. La percentuale crolla sotto il 25% se parliamo di paesi cristiani a fronte del 61% dei mussulmani.
I cristiani, inoltre, hanno amici o conoscenti di religione diversa nella misura del 5%, gli islamici del 10% (sic!).

Il quadro che emerge dallo studio di Ipsos MORI è piuttosto chiaro: la religiosità è recessiva in Europa (Turchia inclusa), la Charity (solidarietà sociale) non è un aspetto etico prettamente religioso, l’Islam mostra, per ora, una maggiore adattabilità e tenuta verso la cultura sincretica e materialista che avanza con la globalizzazione.

FIOM, tanto rumore per cosa?

11 Gen

La FIOM, nel 2009, totalizzava 363.507 iscritti tra i lavoratori attivi del settore metalmeccanico ed informatico. La confederazione “rossa” dei metalmeccanici non rappresenta, dunque, le “masse”, i “lavoratori”, il “proletariato”, ma è solo un’associazione di una categoria.
Del resto, sono trascorsi almeno 40 anni da quando il mondo del lavoro ha iniziato a mutare dalla “grande fabbrica” al “terziario flessibile”: gli operai sono diventati una ristretta minoranza della popolazione.

Oggi, ad esempio, va registrato che la CGIL è il sindacato del pubblico impiego e dei servizi, se annoverava (nel 2009) 407.716 iscritti nella Pubblica Amministrazione, 372.268 nel commercio, turismo e servizi, 367.768 tra gli edili, 188.127 nella scuola e 152.953 nei trasporti.

In assoluto, i lavoratori attivi iscritti alla CGIL sono solo 2.751.964 a fronte di 2.994.203 pensionati, spesso provenienti dalla FIOM e dalla FILT.

Cosa significa tutto questo?
Molte e poche cose allo stesso tempo.

La CGIL ha 5.746.167 iscritti, ovvero i suoi iscritti rappresentano un terzo di tutto l’elettorato di centrosinistra, e, anche se la relazione non è così diretta, sono pari alla metà degli elettori del Partito Democratico.
Considerato che è un “sindacato di sinistra” e non un “sindacato e basta”, questo rappresenta un vincolo (ed un limite) politico per il nostro Parlamento ed il nostro sistema elettorale, oltre che per i partiti e per l’editoria di sinistra. Tra l’altro, se ragionassimo in termini sessisti, considerato che la gran parte degli iscritti sono maschi, potremmo azzardare che buona parte degli elettori di sinistra di questo sesso sono anche aderenti alla CGIL.

C’è, poi, la FIOM che raccoglie circa il 10% degli iscritti attivi di tutta la CGIL, meno del 2% dei lavoratori italiani attivi (24 milioni) e meno dell’1% dell’elettorato (~ 45 milioni).
Come dire che poche noci nel sacco riescono sempre a fare tanto rumore? Probabilmente si, ma a condizione che i media scambino le lucciole per lanterne …