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Stefano Cucchi la punta di un iceberg: quali tutele per i malati italiani?

7 Nov

La Stampa una frase particolarmente significativa del dottor Paolo Arbarello – il perito verso il quale la famiglia del povero Stefano Cucchi oggi reclama: «Non è stato semplice muovere rilievi a dei colleghi».

Prendiamo atto: in Italia non è affatto semplice per dei medici «muovere rilievi a dei colleghi» – figurarsi accusare – neanche se c’è da fare giustizia per un morto ammazzato. A dirlo è l’ex direttore di medicina legale della Sapienza.
Sarebbe, dunque, bello che l’Ordine dei Medici e il Ministero della Salute rassicurassero noi comuni mortali quanto meno monitorando affinchè i medici non diventino ancor più – nell’immaginario collettivo – un’ avida, sprecona e omertosa casta di cui sani e malati devono diffidare.

E sarebbe anche cosa urgente, se Stefano Cucchi, dopo ben due passaggi in ospedale, «è morto per il dolore tremendo alla colonna vertebrale ed all’addome per un globo vescicale di urina di ben un litro e mezzo che gli ha prodotto lacerazioni interne». Non basta che i medici coinvolti nel caso Cucchi furono giustamente condannati in prima udienza per omicidio colposo: se accade una cosa del genere ad un epilettico significa che nei due Pronti Soccorsi erano saltati tutti i protocolli …

Come anche un pestaggio in carcere non dovrebbe – ma può – accadere, visto che si accomunano uomini privi di libertà con altri dotati di potere assoluto: la sociologia ha ampiamente dimostrato la problematica. Ma non deve assolutamente accadere che vada impunito che si infierisca – senza intenzione di uccidere ma con brutalità – su un tossicodipendente, epilettico e denutrito: non fu un caso il ministro La Russa espresse “sollievo per i militari mai coinvolti”, riferendosi ai carabinieri che avevano arrestato Stefano Cucchi.
Non si comprende davvero come gli autori del pestaggio siano andati assolti anche dal semplice reato di percosse.

Una questione che non riguarda solo i detenuti o i malati di epilessia – e altre malattie ‘convulsive’ – come Stefano Cucchi.
Avere difficoltà a «muovere rilievi a dei colleghi» riguarda tutti – malati, pubblici impiegati, cittadini e giovani in cerca di lavoro – se poi va a finire che si da la caccia ai falsi invalidi ma poi scopriamo che l’Istat dichiarava per il 2012 che una buona fetta dei lavoratori over55  soffriva di almeno due patologie di rilievo e un terzo era in ‘condizioni di salute non buone’.

I medici e le strutture sanitarie di questi malati provvedono di norma ad informarli dei loro diritti e delle opportunità previste, consegnandogli certificazioni dettagliate e prescrivendo tutele adeguate? E questi malati – se voglio agire a tutela dei propri interessi – riescono a trovare dei medici che non abbiano serie difficoltà a «muovere rilievi a dei colleghi»?
Se sono ancora al lavoro, invece che in pensione liberando posti, e se l’Inps conta 6 milioni di invalidi – mentre la media dovrebbe essere di 8,5 se applicassimo gli standard europei – è evidente che almeno una parte dei malati non ha pieno accesso ai propri diritti per errore o negligenza medica nell’informazione e nella canalizzazione del paziente all’interno del sistema sanitaario , ovvero nella gestione ‘burocratica’ (che burocratica NON è) del malato.

Come sarebbe la crisi italiana se i nostri medici avessero operato almeno da dieci anni nel rispetto delle norme europee, in modo da garantire il dovuto accesso per i malati – anziani o meno – con serie situazioni invalidanti ai propri diritti ? Quanti posti di lavoro in più avremmo, quanta liquidità circolante ci sarebbe, quanta automazione e semplificazione avremmo guadagnato nel turn over?
Quanto ci costa non riconoscere i nostri malati e/o non tutelarli adeguatamente dall’errore e dalla negligenza medica in sede di informazione e di indirizzamento, come di prescrizione e di tutele?

E perchè lo Stato non interviene se uno dei migliori medici legali d’Italia precisa che non è «semplice muovere rilievi a dei colleghi», ma lo stesso non accade se si tratta di categorie come ingegneri, chimici, biologi, magistrati, avvocati eccetera?
Perchè su Stefano Cucchi – epilettico e tosssicodipendente – le associazioni dei malati taccciono?

leggi anche Stefano Cucchi, le colpe di tutti

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Stefano Cucchi, le colpe di tutti

7 Giu

Stefano Cucchi – in data giovedì 15 ottobre 2009, verso le ore 23.30 – viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti, a Roma, e trovato in possesso di un modesto quantitativo di droga, una ventina di grammi di cocaina e hashish in tutto.

Incredibile a dirsi, ma Stefano Cucchi – tossicodipendente ed epilettico con qualche spicciolo di droga in tasca – viene sottoposto a “custodia cautelare in carcere”, che è la forma più intensa di privazione della libertà personale in tema di misure cautelari.
Una misura, prevista dall’art. 275 del Codice di Procedure Penale, da applicare solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata, ovvero solo in tre casi, cioè pericolo di fuga e conseguente sottrazione al processo ed alla eventuale pena, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di turbamento delle indagini.

Al momento dell’arresto, il giovane non aveva alcun trauma fisico e pesava 43 chilogrammi per 176 cm di altezz, ma, il giorno dopo,16 ottobre, quando viene processato per direttissima, aveva difficoltà a camminare e a parlare e mostrava inoltre evidenti ematomi agli occhi.
Nonostante la modesta quantità di stupefacenti in suo possesso, la lunga storia di tossicodipendenza, l’epilessia, la denutrizione, il giudice stabilisce una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e che Stefano Cucchi rimanesse per tutto questo tempo in custodia cautelare nel carcere romano di Regina Coeli.
C’era il sospetto che fosse uno spacciatore, come poi confermatosi grazie alla collaborazione dei genitori, che – dopo la morte del figlio – scoprono e consegnano 925 grammi di hashish e 133 grammi di cocaina, nascosti da Stefano Cucchi in una proprietà di famiglia.

Una scelta, quella della privazione della libertà, decisamente infausta, visto che già dopo l’udienza le condizioni di Cucchi peggiorarono ulteriormente e viene visitato presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia, dove gli vengono riscontrate “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente” e dove Stefano dichiara “lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. Anche all’arrivo in carcere viene sottoposto a visita medica che evidenzia “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”.
Trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per effettuare ulteriori controlli, viene refertato per lesioni ed ecchimosi alle gambe, all’addome, al torace e al viso, una frattura della mascella,  un’emorragia alla vescica ed  due fratture alla colonna vertebrale.

Un quadro clinico gravissimo ed eloquente per il quale i sanitari chiedono il ricovero che però viene rifiutato dal giovane stesso, che nega di essere stato picchiato.
Stranamente, con una tale prognosi e l’evidenza biomedica di un brutale pestaggio nessuno dei sanitari intervenuti (in tribunale, nel carcere di Regina Coeli, nell’ospedale Fatebenefratelli) sente il dovere di segnalare al drappello ospedaliero ed a un magistrato la cosa, come accadrebbe, viceversa, se a presentarsi al Pronto Soccorso fosse – massacrato e reticente – un qualunque cittadino.

Stefano Cucchi, con un’emorragia alla vescica e due vertebre fratturate, ritorna in carcere. Il giorno dopo, 17 ottobre,  viene nuovamente visitato da due medici di Regina Coeli, trasferito al Fatebenefratelli e poi, all’ospedale Sandro Pertini, nel padiglione destinato ai detenuti.
Lì trascorre altri tre giorni in agonia, arrivando a pesare 37 chili, ai familiari vengono negate visite e notizie, muore ‘per cause naturali’ il 22 ottobre 2009.

Durante le indagini circa le cause della morte, ottenute con grande fatica dalla famiglia anche grazie ad un forte coinvogimento popolare, diversi testimoni confermarono il pestaggio da parte di agenti della polizia penitenziaria. Un testimone ghanese e la detenuta Annamaria Costanzo dichiararono che Stefano Cucchi gli aveva detto d’essere stato picchiato, il detenuto Marco Fabrizi ebbe conferma delle percosse da un agente,  Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti picchiare Cucchi con violenza (fonte Il Messaggero).

“Pestato nei sotterranei del tribunale. Nel corridoio delle celle di sicurezza, prima dell’udienza. Stefano Cucchi è stato scaraventato a terra e, quando era senza difese, colpito con calci e pugni”. L’omicidio preterintenzionale viene contestato a Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, sospettati dell’aggressione.  (fonte La Repubblica)

Traumi conseguenti alle percosse, che da soli non avrebbero, però, potuto provocare la morte di Stefano Cucchi. Per i quali non si aprono indagini immediate, nè in tribunale quando Cucchi si presenta in quelle condizioni, nè dopo quando rimbalza tra Fatebenefratelli e carcere, informando un magistrato.
Ed infatti, oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vengono indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato adeguatamente il giovane.

Stefano Cucchi muore per il digiuno, la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l’emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1400 cc di urina, con risalita del fondo vescicale e compressione delle strutture addominali e toraciche). Determinante fu l’ipoglicemia in cui i medici lo avevano lasciato e tale condizione si sarebbe potuta scongiurare mediante la semplice assunzione di zuccheri.

Un pestaggio in carcere non dovrebbe, ma può accadere, visto che si accomunano uomini privi di libertà con altri dotati di potere assoluto. Che si infierisca con brutalità su un tossicodipendente, epilettico e denutrito è un abominio, non a caso il ministro La Russa espresse “sollievo per i militari mai coinvolti”, riferendosi ai carabinieri che avevano arrestato Stefano Cucchi.

Ma è davvero mostruoso che un malato trascorra la propria agonia in una corsia, dove dovrebbe essere monitorato, nutrito, curato, tutelato senza che nulla di tutto questo accada.
Una colpa gravissima che ricade tutta sui medici preposti e giustamente condannati in prima udienza per omicidio colposo.
Gli agenti di polizia penitenziaria sono stati assolti – in primo grado – dall’accusa di lesioni personali e abuso di autorità con la formula che richiama la vecchia insufficienza di prove.

“Nonostante siano passati 25 anni da quando il nostro Paese ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e altre pene e trattamenti… inumani e degradanti, ancora nell’ordinamento italiano non è stato introdotto un reato specifico, come richiesto dalla Convenzione, che la sanzioni”. (Irene Testa, segretario dell’associazione radicale Detenuto Ignoto).

Un vuoto legislativo che ci «colloca agli ultimi posti in Europa» denuncia Mauro Palma, presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. Un buco nero tornato alla ribalta dopo che i pm che indagano sui fatti di Bolzaneto legati al G8 di Genova sono stati costretti a contestare agli indagati solo l’abuso di ufficio. (fonte Corsera)
Una ‘problematica’ che si ripresenta, tra i tanti,  per Stefano Cucchi e per Federico Aldrovandi, per Giuseppe Uva (Varese), per Aldo Bianzino (Perugia), per Marcello Lonzi (Livorno), per Stefano Guidotti (Rebibbia), per Mauro Fedele (Cuneo), per Marco De Simone (Rebibbia), per Marcello Lonzi (Livorno), Habteab Eyasu (Civitavecchia), Manuel Eliantonio (Genova),  Gianluca Frani (Bari), Sotaj Satoj (Lecce), Maria Laurence Savy (Modena), Francesca Caponetto (Messina), Emanuela Fozzi (Rebibbia) e Katiuscia Favero (Castiglione Stiviere).

In effetti, nel 1987 Roma ratificò la convenzione Onu che vieta la tortura, ma in Italia non è mai stata fatta la legge in materia, nonostante già nel dicembre 2006 la bozza di legge era stata approvata alla Camera  e  nel luglio 2007 era stata licenziata dalla Commissione Giustizia del Senato. Intanto, nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per “cause naturali” e la restante parte per “cause da accertare”.

«Avrebbe dovuto approdare in aula nei giorni della crisi ma è stata lasciata morire. È necessario che il prossimo Parlamento metta tra le sue priorità l’approvazione del provvedimento che introduce il reato di tortura in Italia» auspica”. (Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone per i diritti nelle carceri)

Il ‘prossimo parlamento’ c’è e nel Padiglione detenuti dell’Ospedale Sandro Pertini sembra siano rimasti solo tre medici, visto che i loro colleghi degli altri reparti hanno il diritto di rifiutare il trasferimento, , come accade per tanti altri servizi necessari ai cittadini.

Intanto, prendiamo atto che per Stefano Cucchi un intero ospedale non è riuscito a fornire un cucchiaio di zucchero (meglio una flebo di glucosio), che le lesioni gravi e l’abuso di potere ci sono state, ma non si sa chi le abbia perpetrate e, soprattutto, che nessuno dei medici le ha denunciate.

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Carceri, la realtà dei dati

7 Feb

Gravissime le affermazioni del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in visita al penitenziario milanese di San Vittore:  «È emergenza, avrei firmato amnistia anche dieci volte». Gravissime perchè aprire il fronte dell’amnistia in piena campagna elettorale significa, de facto, parteciparvi.

A parte la forza attrattiva del consensmafia astenutao di migliaia di persone detenute e dei loro familiari – per non parlare delle ombre esistenti su altre elezioni ed altri indulti/amnistie/deregolazioni – il tema si rappresenta ‘di per se’ come un fattore di condizionamento della politica futura e futuribile da parte di un presidente uscente, specie se leggiamo che «bisogna fare tutto quello che è possibile tenendo fermo che, se non si può avere il consenso in Parlamento, non passa». Vale la pena di ricordare che per l’amnistia per decine di migliaia di delinquenti è necessario il consenso popolare, sennò è difficile trovare parlamentari disposti al voto, temendo che, poi, qualcuno degli amministiati vada a far guai proprio nel collegio elettorale di riferimento.

Gravi, comunque, sono le parole del Presidente Napolitano, perchè denunciano le condizioni oggettive, ormai subumane, in cui versano ormai tanti detenuti e, indirettamente, i loro carcerieri, mentre i dati dimostrano una situazione ‘leggermente’ diversa da quella comunemente prospettata, che indica “un’origine dei mali’ piuttosto verosimile che più meritevolmente potrebbe attrarre gli strali del Quirinale.

Secondo recenti statistiche,  i detenuti in Italia sono 67-68.000 su circa 42.000 ‘posti letto, ma circa 11.000 non dormono nè vivono in carcere dato che 7.000 sono in affidamento in prova e 4.000 agli arresti domiciliari. L’esubero di detenuti è, dunque, di circa 15.000 persone: un detenuto in più ogni 5-6 già in cella, senza detrarre quanti sono in infermeria od in viaggio.

Di questi detenuti 24.908 sono stranieri e ne sarebbero espellibili forse anche la metà, se esistessero degli accordi per assicurare la loro detenzione nei paesi d’origine. Come anche, se i Comuni garantissero dei congrui ed efficienti servizi sociali si potrebbero estendere alcuni benefici a parte dei 10.000 detenuti con pene residuali inferiori ai tre anni.
Peccato che molti di questi (27.345  al 31 dicembre 2008) siano spesso delinquenti abituali, cioè hanno commesso almeno un reato contro il patrimonio (furti, rapine, truffe) o contro la pubblica amministrazione, ma è anche vero che ben 8.652 persone erano detenute nel 2008 per violazioni di leggi sulle armi, per le quali si potrebbero spesso prevedere misure detentive diverse dal carcere.

Inoltre, il fatto che oltre 26.000 detenuti siano tossicodipendenti e che siano oltre 23.000 gli ‘spacciatori’, tra i quali non è noto quanti siano semplici possessori, conclama il dato fallimentare della Legge Giovannardi-Fini. Le Carte dei Diritti che l’Italia ha sottoscritto a livello internazionale comportano la necessità di garantire adeguati assistenza  sanitaria per tutti e valido supporto psicoterapeutico per chi voglia superare la dipendenza.
Cose che possono essere fatte meglio e con minori costi non incarcerando i drogati, piuttosto che sovraffollando le carceri e trasformandole in una sorta di girone dei dannati dalle mille lingue parlate e dai cento desideri osceni. Tra l’altro, il consumo di cannabis in Olanda è quasi la metà che in Italia e Spagna ed almeno questo dovrebbe far riflettere.

In poche parole, almeno diecimila stranieri potrebbero essere detenuti a casa loro se l’Italia trovasse un accordo con i loro paesi d’origine, quasi il doppio dei detenuti non sarebbero mai entrati in carcere se l’italia avesse leggi sulle droghe e sulle armi simili a quelle degli altri paesi europei.

Inoltre, solo il 3% dei detenuti è impiegato in qualche attività lavorativa esterna, mentre solo il 24% lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, mentre, nel 2009, i corsi professionali hanno coinvolto solo il 13,3% dei detenuti. Che il carcere abbia finalità formative e riabilitative appare come una mera chimera e, di sicuro, l’ozio in cui è lasciato il 63% dei detenuti è del tutto inaccettabile agli occhi di chi paga le tasse, specialmente sapendo che tra i detenuti improduttivi sono quasi 20.000 quelli che hanno commesso reati sessuali, omicidi e sequestri, ovvero sono inviati ai ‘lavori forzati’ in gran parte dei paesi civilizzati.

Riguardo i ben 37.300 detenuti (55,32%) in attesa di condanna definitiva, contro una media europea del 25%, sarebbe interessante sapere se, poi, sono stati condannati – chiedendosi se non si poteva fare prima – o, caso mai ed in che misura, siano stati assolti – chiedendoci perchè avevamo imprigionato un innocente per mesi ed anni.

Numeri allarmanti arrivano riguardo il numero di detenuti per reati contro la pubblica amministrazione (appena 6.151), per associazione mafiosa con poco più di 5.200 reclusi: è evidente, agli occhi di tutti, che sia impossibile, in un paese conciato come il nostro, che siano così pochi i criminali assicurati alla giustizia e condannati per i crimini che generano maggiore degrado sociale.

Come anche, con tutto quello che è accaduto nel nostro paese durante gli Anni di Piombo e durante la lotta alla Mafia ed alla Ndragheta, con stragi e delitti efferati, è incredibile che gli ergastolani siano solo 1.357.

Lo spaccato che ne viene dai dati è molto chiaro: almeno un terzo degli attuali detenuti non dovrebbe essere lì, grazie a leggi e soluzioni più civili e pragmatiche, e serve spazio per i tanti attualmente a piede libero, non perseguiti od ignoti dalla legge, che continuano a commettere reati gravi da mafiosi o come pubblici impiegati.

Dunque, se il nostro Presidente della Repubblica vuole davvero sanare l’avvilente situazione dei detenuti delle carceri italiane, lasci perdere un’impopolare amnistia e solleciti una depenalizzazione per l’immigrazione irregolare ed il possesso/consumo di stupefacenti, oltre che degli accordi internazionali, che permettano il rimpatrio per gli immigrati e l’inserimento comunitario per i tossicodipendenti che lo richiedano, ed un maggior rigore ed efficacia contro le mafie ed i corrotti.
Altrimenti, son lacrime da coccodrillo.

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Cesare vince a Rebibbia ed anche a Berlino

19 Feb

“Cesare deve morire” dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani ha vinto l’Orso d’Oro alla 62esima Berlinale, il Festival del cinema di Berlino.

Il premio per il miglior film arriva dopo ben 21 anni di “assenza” italiana dal podio e vede, in contempranea, un altro successo italiano con il docufilm “Diaz – Don’t Clean Up This Blood” di Daniele Vicari, che ha vinto il Premio del Pubblico.

Il film dei “maestri” Paolo e Vittorio Taviani è stato girato nella Sezione di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia con i detenuti stessi come attori.
La storia racconta la messa in scena del Giulio Cesare shakespeariano, alla fine rappresentato con successo sul palcoscenico del carcere.

Un percorso di ricerca attorale e “del Se” che coinvolge profondamente i detenuti tra “la grande tragedia” – shakespeariana e umana – pur mantenendo tutte le cadenze della vita carceraria.

“Non ci stancheremo mai di ripeterlo: Shakespeare va riscoperto sempre – commenta Paolo Taviani alla stampa – Ci siamo permessi di trattarlo un po’ male: lo abbiamo preso, smembrato, decostruito, ricostruito. Ma forse Shakespeare sarebbe stato contento di vedere rappresentato in un carcere il suo ‘Giulio Cesare’”.

“Ci siamo detti che se fossimo riusciti a fare incontrare tra loro queste due realtà così drammatiche, allora avremmo avuto il nostro film”.

“La cosa che ci ha molto commosso e stupito durante la lavorazione è che questi detenuti attori recitavano benissimo, ma in un modo diverso da quello che è il recitare convenzionale. Nel nostro Bruto c’era un dolore vero che gli altri attori non hanno”.

“Cesare deve morire” è “un racconto sulla potenza della scoperta dell’arte. ‘Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione’ dice uno dei protagonisti alla fine”.

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Carceri troppo piene: numeri e riflessioni

29 Lug

“Nelle carceri italiane a migliaia vivono in condizioni disumane e gli ospedali psichiatrici giudiziari sono un orrore, inconcepibile in un paese civile. Questa situazione ci allarma e umilia davanti all’Europa. Bisogna trovare soluzioni politiche”. (Giorgio Napolitano)

E’ possibile che, dinanzi ad una situazione intollerabile,  il nostro Presidente non chieda anche la costruzione di più carceri e di maggiore qualità, ma solo una “soluzione politica”, che, evidentemente, riduca il numero dei reclusi?

Improbabile.

Anche perchè, nella realtà dei numeri, i  criminali detenuti non sono poi troppi, circa 100 ogni 100mila abitanti, a fronte di Una Norvegia che ne annovera 70 e gli USA che arrivano a circa 500 detenuti ogni 100.000 abitanti.
Eppure, qui da noi i direttori degli istituti di pena scendono in piazza perché non hanno fondi neanche per “comprare i materassi e la carta igienica da dare ai detenuti”, i quali sembra vivano anche in 13 per cella.

Secondo i dati diffusi in rete, i detenuti sono poco meno di 70.000, di cui circa 27.000 in attesa di giudizio, di cui circa 15.000 verranno assolti o, soprattutto, andranno prescritti.
Possono sembrare tanti, quindicimila, ma ricordiamo che in Italia, ogni anno, vanno prescritti 150-200.000 reati, a volte anche gravi e gravissimi, nonostante spesso gli indagati siano stati condannati almeno in primo grado. Nel decennio, sono stati cancellati per prescrizione due milioni di procedimenti penali.

Le persone che entrano in carcere per la prima volta sono 32mila, di cui solo un terzo (6-7.000 persone) verrà, poi, assolto.
Dunque, se i nostri tribunali potessero lavorare con maggiore celerità ed efficacia, grazie ad un codice di procedura penale più efficiente, i reati prescritti andrebbero in giudicato, oltre al beneficio di evitare tanta detenzione preventiva, e dovremmo far fronte ad una popolazione carceraria di 100-150.000 persone, almeno fino a quando la certezza della pena, attualmente “prescrivibile”, non dovesse indurre gli italiani a vivere nella legalità.

Questo quadro di lassismo è confortato dal dato che, in Lombardia, la percentuale dei detenuti che “esce nel giro di una settimana varia dal 50 al 60 per cento.”

Inoltre, sono circa 23.000 gli stranieri detenuti, spesso per reati violenti o connessi al traffico di sostanze o di persone, che grazie ad accordi internazionali potrebbero essere trasferiti nelle strutture carcerarie dei paesi d’origine. Ricordiamo anche che da loro è commesso il 23% dei reati di stampo mafioso.

I boss al 41 bis sono il 10% della popolazione carceraria, circa seimila persone, una vera goccia nel mare se pensiamo che, ormai, anche Lombardia e Veneto appaiono seriamente infiltrate. Anche in questo caso, potremmo ipotizzare la necessità di un maggior numero di posti nelle nostre carceri, forse altri 50.000.

Ed i reati per possesso di droga o per immigrazione clandestina?
Forse, è a questi ultimi che si riferiva il nostro Presidente, visto che i primi riguardano la sfera personale dei cittadini e la nozione scientifica di “droga”, mentre i secondi rappresentano un’innovazione normativa piuttosto discutibile e decisamente inefficace.

Basterebbe eliminare la parola “detiene” dall’art.73 della legge Giovanardi-Fini, per veder crollare il numero di detenuti per “detenzione di droga” e che, essendo tossicodipendenti e non spacciatori, andrebbero aiutati, piuttosto che puniti.
Tra l’altro, gran parte dei 25.000 tossicodipendenti detenuti sono stati condannati per reati diversi dalla semplice detenzione di sostanze stupefacenti.

Ricordando che il 60% degli irregolari sono ex-lavoratori regolari e che i morti alle nostre frontiere sono ormai decine di migliaia, varrebbe la pena di notare che, abroigando il reato di immigrazione clandestina introdotto dalla Legge Maroni, ridurremmo sensibilmente il numero di detenuti stranieri e, soprattutto, accogliendo le indicazioni pervenute dalla Suprema Corte, dalla Santa Sede, dall’Unione Europea, dall’ONU.

Non è di certo l’indulto o l’amnistia, che risolveranno un’infrastruttura carceraria che andrebbe ammodernata ed ampliata, nonchè deregolata, allorchè si volesse prevedere un effettivo percorso di rientro nella società produttiva.

Possiamo alleggerire l’attuale sovraffollamento (156 detenuti ogni 100 posti previsti) solo iniziando ad uniformare la nostra legislazione sui reati minori, derubricando o depenalizzando reati o, ancora, adottando quelle forme sostitutive al carcere che la Mitteleuropa ha già adottato. Non dimentichiamo che il numero di detenuti che, in Italia, conseguono un titolo di studio in carcere è davvero esiguo.

Possiamo evitare di ritrovarci con un problema analogo, tra due o tre anni, sono assicurando maggiore legalità al Sistema Italia tutto, ovvero abbattendo i reati stessi, e, ahimè, iscrivendo al debito pubblico dello Stato la costruzione di nuove carceri e l’ammodernamento delle attuali.