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Armi: i dati europei e le ragioni della National Rifle Association

24 Feb

In Italia, secondo Wired.it, “una ricerca delle Nazioni Unite del 2008 aveva stabilito che il 12,9% dei cittadini possedeva un’arma in maniera legale” e che, nel mondo, “il tipico possessore di armi ne tiene in casa tre tra pistole e fucili”. Dunque, calcolando che all’epoca eravamo 60,5 milioni, questo potrebbe equivalere a circa 7 milioni di italiani ‘armati’ e a non meno di 10-15 milioni di armi semiautomatiche che potrebbero essere in legale possesso degli italiani.

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Le stime ufficiali (in Italia non esiste un registro delle armi) raccontano di ‘soli’ 7 milioni di armi circolanti, cioè la metà di quanto ragionevolmente possibile, se  Firearms in the European Union, un rapporto dell’ottobre 2013, riportava  25 milioni di armi regolarmente registrate da privati cittadini per la prima e  19 milioni per la seconda. Ad ogni modo, stando ai dati di Gunpolicy.org , non eravamo al 34% degli USA o al 37% della Finlandia e neanche al 6,1 di Inghilterra e Galles o al 4,8% dell’Olanda, ma più o meno in media con Germania, Svezia e Francia attestate intorno al 16%.

In Europa, le vittime per armi da fuoco sono circa 6.700 all’anno secondo uno studio del Flemish Peace Institute. Un numero molto più basso (nonostante l’Unione europea abbia 503 milioni di abitanti a fronte dei 302 milioni degli Stati Uniti) di quello che si registra negli Stati Uniti, dove nel 2014 pistole e fucili hanno provocato l’uccisione di 33.599 persone con un tasso di mortalità di 10,54 vittime su 100 mila abitanti..

I dati europei sono essenziali per capire perchè la National Firearms Association nega che la diffusione delle armi da fuoco abbia un nesso diretto con il numero di omicidi da arma da fuoco:

  • la Finlandia (37% cittadini armati) e la Svezia (16%) hanno la stessa quota di cittadini uccisi o suicidati con armi da fuoco (0,45 e 0,41 a testa ogni 100 mila residenti) 
  • la Francia (16% cittadini armati) e la Gran Bretagna (6%) che fanno segnare a testa (0,06 e 0,07) lo stessa media di cittadini uccisi o suicidati con armi da fuoco
  • l’Italia (12% cittadini armati) ha un tasso di omicidi da arma da fuoco (0,71) enorme rispetto a nazioni dove le armi sono diffuse in modo paragonabile come Francia, Germania e Svezia (16%).

In Europa, come confermato da un accurato studio pubblicato da Lettera43 , la Germania ha il numero di armi più alto e la Finlandia il numero maggiore di pistole e fucili per cittadino, ma proprio l’Italia, che è il principale produttore di armi da fuoco, ‘vanta’ anche il maggior numero di omicidi da armi da fuoco, la cui diffusione non è censita, ma solo stimata.

Inoltre, la NRA statunitense rivendica un nesso ‘positivo’ tra diffusione delle armi da fuoco e sicurezza dei cittadini ed anche in questo caso l’Italia ‘vanta’ numeri a favore degli armaioli.
Il nostro Bel Paese è primo al mondo nella classifica per il numero di agenti presenti sul territorio, se si vuole escludere Russia e Turchia, con 467 unità  ogni 100.000 abitanti, mentre negli Stati Uniti dove sono disponibili almeno 300 milioni di armi da fuoco ed il 34% ne possiede almeno una, di di ‘law enforcement’ ne bastano 230 ogni 100.000 persone, a parte il senso di sicurezza/insicurezza che appare essere ben diverso, almeno a leggere le cronache.

A monte dell’uso di armi da fuoco contro altri esseri umani inermi esistono solo scelte personali di chi si fa assassino, eventualmente facilitate da fattori socioculturali, come – ad esempio – quelli che connotano così particolarmente l’Italia (ad esempio il crimine organizzato e la lentezza della Giustizia) o che vedono la maggiore diffusione di armi negli USA proprio negli stati rurali che maggiormente soffersero la Guerra Civile e la Recessione oppure ne esige la ‘libera vendita’ come negli USA e non solo.

Ma questa è un’altra storia, quella dell’Homo Sapiens e non degli ‘attrezzi’ da lui creati.

A noi tutti interessa sapere che delle armi letali ed abbastanza semplici da usare non arrivino nelle mani sbagliate.
Censirle in un registro non sarebbe affatto male.

Demata

Cortei: basta violenza

22 Nov

Tra le tante questioni irrisolte che emergono in questa Italia alla frutta, arriva la querelle cortei, manifestanti militarizzati, polizia violenta. Ed arriva nel momento peggiore, mentre l’azione di governo starebbe rilanciando una parte del settore produttivo, ma affossando il welfare e non contrastando sufficientemente le pretese della Casta.

Così accade che, ad un anno di distanza, la magistratura e le forze dell’ordine portino al pettine i nodi rimasti sospesi da quando uno sparuto gruppo di facinorosi mise a ferro e fuoco il centro di Roma, con denunce, arresti e perquisizioni in tutta Italia.

Intanto, i sindacati della scuola, esclusa la Flc-Cgil, hanno deciso di sospendere lo sciopero della scuola indetto per sabato, 24 novembre, con relativa manifestazione romana.

Ciliegina sulla torta, i poliziotti del reparto mobile potrebbero mettersi in ferie, in blocco, per non trovarsi coinvolti in eventuali scontri di piazza a margine della manifestazione di sabato a Roma.

Ottima l’iniziativa del ministro Cancellieri, quella di numerare il retro dei caschi dei poliziotti in assetto antisommossa. Alla quale però fa eco la giusta richiesta che vi sia tolleranza zero verso i manifestanti con caschi od il volto coperto.

E qui viene il dunque.

Il Regio Decreto 773/1931, Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, agli artt. 18-24 prevede che:

  1. art 18 i promotori di manifestazione devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al Questore, che può impedire che abbia luogo o prescrivere modalità di tempo e di luogo per lo svolgimento. Cambiare percorso, ad esempio, viola questa norma;
  2. art 20  la Questura può sciogliere la manifestazione se accade che gli slogan siano  ‘sediziosi o lesivi del prestigio dell’autorità” o che sia messo in pericolo l’ordine pubblico e/o la sicurezza dei cittadini, come anche se durante le manifestazioni sono commessi delitti. Lanciare sassi e petardi od offendere ed irridere le forze dell’ordine e pubblici uffici, come anche occupare uno svincolo od una ferrovia, sono motivo di scioglimento della ‘riunione’;
  3. art. 21  è sempre considerata manifestazione sediziosa l’esposizione di bandiere o emblemi, che sono simbolo di sovversione sociale o di rivolta o di vilipendio verso lo Stato, il governo o le autorità ed è manifestazione sediziosa anche la esposizione di distintivi di associazioni faziose. Tutto vietato, dunque, da chi istiga l’odio di classe o razziale o di genere a chi, fuori e dentro gli stadi, trasforma il tifo sportivo in fazione violenta;
  4. art. 22/23/24  quando, nei casi previsti dagli articoli precedenti, occorre disciogliere un assembramento in luogo pubblico, le persone sono invitate a disciogliersi dagli ufficiali di pubblica sicurezza. Se  l’invito rimanesse senza effetto, va ordinato il discioglimento con tre distinte formali intimazioni, preceduta ognuna da uno squillo di tromba. Se anche queste rimanessero senza effetto,  la ‘riunione’ va disciolta con la forza. La massima parte se non la totalità delle ‘cariche di polizia’ eseguite in Italia durante gli ultimi 80 anni hanno seguito questa procedura, anche sotto il Fascismo e durante gli Anni di Piombo.

Inoltre, l’art. 4,  della legge 18 aprile 1975, n. 110, prevede che “senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”. Chiaro, anzi chiarissimo, o no?

E per concludere, ricordiamo che la Legge 22 maggio 1975, n. 152 ordina,  all’articolo 5, che “è vietato l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.

In poche parole, potremmo azzardare l’ipotesi che pochissime delle tante manifestazioni ‘antagoniste’, che si sono svolte negli ultimi 40 anni, hanno avuto il crisma della legalità e della legittimità: dai caschi ai petardi, agli slogan offensivi (ad esempio dare del ‘boia’ a qualcuno), dalle molotov ai bulloni, dalle ‘spranghe’ ai bastoni, fino ai cambi di percorso ed agli ‘occupy’ che mandano in tilt mezza città, ambulanze incluse.

Aggiungiamo che Roma, la stessa città che più volte è scesa spontaneamente in piazza, portando il numero dei cortei ad oltre un milione di partecipanti, non ne può più di essere dilaniata da blocchi e devastazioni causati, a ben vedere, da poche migliaia di persone, se non centinaia o decine, in occasione di ogni riforma al voto in Parlamento o di un derby calcistico finito male.
Già il calcio, il tifo calcistico, dove la tolleranza eccessiva della nostre leggi, ha trasformato gli stadi e gli spazi antistanti in una sorta di ‘palestra dell’ardimento’ per provocatori, teppisti, esagitati e malviventi, che, a distanza di una quindicina di anni, sta dando i suoi frutti, come constatiamo sia a Milano, con il sequestro del commercialista di Berlusconi, od aRoma, con l’assalto al Drunken Ship di Campo dei Fiori, con tanto di feriti in prognosi riservata e turisti in fuga.

Applichiamo la legge: ai cortei si va a volto scoperto, senza ‘armi improprie’ e senza slogan truculenti. Non si cambia il percorso prefissato, non si imbrattano gli edifici mentre si passa, non si disturbano le ordinarie attività dei cittadini che non aderiscono.
Meglio ancora se, come propone Cancellieri, le forze dell’ordine avessero un visibile codice di identificazione, e se, come suggerirebbe il buon senso, tutti i processi per reati avvenuti durante una manifestazione, inclusi quelli eventuali delle forze dell’ordine, si svolgessero per direttissima.

Intanto, viste le premesse, Roma attende un nuovo ‘sabato di fuoco’, se in occasione della manifestazione della Flc-Cgil, dovesse verificarsi l’aggregazione di gruppi che intendessero non rispettare le regole, indossando caschi, cambiando percorso, lanciano oggetti e petardi.

Qualcosa che Roma consoce bene è che è già accaduta  il 14 novembre scorso dopo una giornata (il 13 novembre) in cui erano già scesi in piazza studenti e sindacati per protestare contro le misure di Austerity del Governo, al mattino con un sit-in in Piazza Sant’Apostoli, terminato alle 13:30, ed al pomeriggio con un corteo diretto a Piazza di Porta San Paolo, conclusosi alle ore 20:30 – quando si tennero manifestazioni in tutta la città:

  1. gli studenti, dalle ore 9 e 30, che partiti da due capi della città diversi (le sedi della Sapienza e di RomaTre) attraversavano tutto il centro;
  2. i Cobas, invece, con partenza da Piazza della Repubblica, alle ore 9:30 ed arrivo a Piazza Sant’Apostoli;
  3. la Cgil con partenza da Piazza Bocca della Verità e diretto per le vie del centro;
  4. numerosi sit-in di protesta tra Viale Trastevere e Montecitorio;
  5. scontri, tafferugli e danneggiamenti sul Lungotevere e sotto il Ministero di Grazia e Giustizia.

I cittadini hanno diritto a riunirsi pacificamente. Gli altri cittadini hanno diritto a non essere coinvolti, se non aderiscono all’iniziativa. Le forze dell’ordine intervengono nel rispetto delle leggi, se i comportamenti ledono qualcuno od inficiano l’ordine pubblico oppure sono dei reati belli e buoni. I trasgressori, chiunque essi siano, vanno processati con rapidità.

Si può organizzare una manifestazione ‘statica’ che permette il confronto tra chi aderisce ed impedisce provocazioni ed infiltrazioni, si può convocare un corteo che, diramandosi per la città, la manda in tilt e si espone alle azioni illegali di alcuni.

Vedremo cosa decideranno le organizzazioni che hanno mantenuto la convocazione romana di sabato venturo. Prevarrà il senso di responsabilità e la capacità di controllare la ‘riunione’ oppure vincerà la voglia di esposizione mediatica e di allargamento del malessere?

Così difficile metterlo in pratica?

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Tortura: se ne riparla l’anno che verrà

5 Ott

Sta per arrivare al vaglio del Sentao il testo di legge prodotto dalla Commissione Giustizia per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura.

Una carenza ingiustificabile per un paese civile che però non gode dell’interesse dei media e della Politica, di conseguenza, il dibattito finora svoltosi è passato del tutto inosservato.

Tortura, un atto spregevole che riguarda – nell’accezione comune – un mondo che non vogliamo conoscere, dato che è lì che ogni società seppellisce la propria ‘cattiva coscienza’:  detenuti e carcerieri.

Un reato che ogni democrazia deve necessariamente andare a qualificare, se vuo chiamarsi tale, dato che lo Stato si fonda primariamente sul monopolio della violenza, resa lecita e normata dalle leggi.

Un problema ‘italiano’ se, circa due anni fa, ad pochi mesi le condanne in appello per i fatti di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001, il nostro ambasciatore all’ONU ebbe a dichiarare che l’Italia non aveva bisogno di una legge ad hoc sulla tortura.

Oggi, nel nuovo testo, il reato di tortura non è più un reato specifico delle forze di sicurezza. E’ vero che negli altri paesi la nozione di reato è direttamente correlata alle forze di polizia, ma sarebbe riduttivo non prevederlo anche per eventuali milizie e mafie, ovvero qualsiasi cittadino.

Purtroppo, la Commissione Giustizia ha ritenuto opportuno che il reato di tortura sia prescrivibile, contro ogni logica, visto che non lo è per tutte le corti internazionali. In sede di approvazione, si spera che qualche emendamento ribadisca l’imprescrivibilità di un reato che è, per gravità e dimensione psicologica del’azione, giusto un millimetro al di sotto dell’omicidio volontario premeditato. Forse, anche molto oltre l’assassinio, se guardiamo l’efferratezza.

Dulcis in fundo, a differenza di tante nazioni, l’Italia si dimostra ‘consuetudinarimanete taccagna’ con i deboli e non è previsto un fondo per la tutela delle vittime, che portano segni incancellabili delle violenze subite.

Legge migliorabile? Forse, dato che, mercoledì 26 settembre, il Senato ha reinviato il testo in  Commissione del testo.
Certamente, però, si finirà per discuterne tra un anno con la prossima legislatura.

Non resta che chiedersi perchè in Italia (e quasi solo in Italia) dichiarare reato la tortura sembra impossibile. O, meglio, faremmo meglio a chiederci cosa succede od è successo in un passato recente nel nostro paese se esiste questa impossibilità …

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Roma inerme: la Mafia è alle porte

24 Nov

Secondo il criminologo Francesco Bruno, «il segnale è inequivocabile: vi è la presenza evidente di una struttura mafiosa a Roma di grosso calibro». Mentre le organizzazioni locali «non sono bande classiche ma vere organizzazioni clandestine».

E Gianni Alemanno conferma che «ci siano o possano esserci contatti tra il grande crimine che ha comprato pezzi di economia romana e che per ora si è limitato al riciclaggio di capitale sporchi e le bande che operano sul territorio nell’ambito per ora del solo controllo dello spaccio della droga».

La ricetta del Ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, è quella che si aspettava da tempo e che Mastella e Maroni avevano negato: più uomini, più mezzi, più controllo del territorio. Speriamo che basti.

Purtroppo, nonostante la gravità del contesto che vede le organizzazioni mafiose impossessarsi sanguinariamente di Roma, il PD romano, per voce di Ileana Argentin, non esita a criminalizzare il Sindaco di Roma, per «aver perso tre anni a minimizzare anche i più evidenti fenomeni di criminalità nella Capitale, sollecitando media e organi di informazione a non dipingere Roma come terra di conquista di organizzazioni malavitose».

Eppure, i “veri” problemi che inficiano la sicurezza di Roma sono di vecchia data.


Innanzitutto, il Lazio accoglie quasi metà dei collaboranti di giustizia esistenti in Italia, se solo una piccola parte di costoro continua a delinquere, a Roma c’è l’equivalente di una cupola.
Inoltre, a causa del rischio di incappare in qualche VIP, i controlli sui locali pubblici sono scarsi e poco incisivi, come lo sono i controlli antialcol ed antidroga all’uscita.
Infine, essendo la Capitale dipendente dagli snodi logistici di Fondi e di Civitavecchia-Gioia Tauro, è improbabile che, tra Veltorni e Storace, si potesse NON prevedere “cosa” si sarebbe impossessato di questi gangli vitali per l’economia locale.

Andando in “profondità”, dobbiamo rilevare che 18 anni di politiche “de sinistra”, dopo quelle cinquantennali del centrodestra democristiano, consegnano alla città:

  • oltre un milione di persone, tra cui poveri ed anziani, ma anche malviventi e sussidiati, che vive in case popolari
  • un livello di istruzione dei maschi adulti spaventosamente basso: circa il 40% degli under50 è non è in possesso di un diploma.

Se parliamo delle case popolari ricordiamo anche che le pertinenze non possono essere pattugliate dalle forze dell’ordine, come sono impattugliabili le borgate totalmente abusive che assediano la città.
Giusto per non mancare, ricordiamo anche che i servizi sociali, notoriamente clientelari e/o esternalizzati, non sono in grado di organizzare gli interventi (giudiziari e sociali) che servirebbero per l’enorme massa di bulli, persone prive di requisiti e famiglie allo sbando.

Gianni Alemanno passerà alla storia come il “sindaco immobile”, questo è probabilmente nell’essere dei fatti, ma è del tutto errato affrontare il problema “mafia a Roma” come fosse una delle quotidiane sterili polemiche capitoline in cui si “diletta” il nostro Consiglio Comunale.

Come lo è continuare a guardare solo all’immagine, alle clientele ed ai potentati locali senza tentare di “emancipare la suburbia” e di innovare, dopo due millenni, questa città nei servizi come nelle sanzioni.

E’ inconcepibile che in una Capitale circa un quarto della popolazione viva di sussidi o sia assistita in vario modo: la città deve essere produttiva e deve avere abbastanza cittadini in grado di esserlo.

Come anche, a Roma, non possiamo continuare ad amministrare le pene come ai tempi del Papa Re: le carceri devono essere moderne e lontane, altro che Regina Coeli sul Lungotevere, come fosse casa e bottega.

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Perché Al Qaeda attacca l’Italia?

30 Mag

La speranza generale, dopo l’annuncio dell’uccisione di Bin Laden, era che Al Qaeda potesse frammentarsi in coordinamenti regionali sempre più autonomi e, ovviamente, deboli.

I due attacchi ai militari italiani, a 48 ore di distanza l’uno dall’altro, non lasciano ben sperare, specialmente per il fatto che l’attentato di Herat era ben studiato e programmato.

Certo, le azioni sono ininfluenti dal punto di vista strategico, come ci ricorda Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi e Difesa, ma sono i ragazzi ad essere sotto il fuoco nemico e sarebbe bene sapere il perché.

Di sicuro, la congiuntura politica ci espone notevolmente.

Agli analisti del Jihad non sarannno sfuggite le vittorie elettorali che vedono in testa candidati che hanno avuto l’appoggio di tanti circoli e “centri sociali” pacifisti e/o antiamericani e/o filopalestinesi. E, d’altro canto, a sentire la Lega, dominus di questo governo,  l’Italia è talmente al lumicino da non potersi permettere neanche 3-4mila soldati in missione …

Da questo punto di vista, il ritorno strategico per Al Qaeda sarebbe enorme, se l’Italia abbandonasse la coalizione afgana od il Libano.

Inoltre, gli Jihadisti (sunniti, sefarditi o wahabiti che siano) hanno sempre considerato la Scia come una vera e propria eresia interna all’Islam.

Non va, dunque, trascurato il dato che gli italiani siano schierati, nella sostanza, a protezione dei territori controllati da Hezbollah sciiti in Libano e di quelli controllati da Gulbuddin Hekmatyar, il leader sciita che non si è mai associato nè con né contro gli occupanti ed il governo Karzai.
La notoria vicinanza di Massimo D’Alema verso gli Hezbollah e le relazioni vaticane con gli Ayatollah possono essere un fattore da considerare.

C’è, infine, il fronte nordafricano, con la Libia, martoriata dal caos e dai bombardamenti, e l’Egitto, dove la deriva integralista sembra avere solide radici nel sud e nelle smisurate periferie.

Anche in questo caso, l’Italia non gode di una posizione facile, sia per i rapporti molto utilitaristici con Gheddafi (ndr. prioritari sugli impegni NATO) sia, molto probabilmente, per le nostre politiche di respingimento (ndr. condannate dall’ONU) e  le migliaia di morti annegati nel Canale di Sicilia o bruciati dalla sete nei deserti e carceri libici.

Naturalmente, l’ultima cosa da fare è quella di ritirare i nostri soldati, che ci renderebbe deboli, ridicoli ed inutili agli di un mondo che non ci guarda più, da anni, con particolare benevolenza.

La prima da farsi dovrebbe essere il dimostrare di essere in grado di intervenire nell’area del Mediterraneo, come soccorsi in mare e come protezione armata delle popolazioni inermi. La seconda dovrebbe consistere in una “moratoria”, per i partiti e per le redazioni nostrane, ad una maggiore distanza  ed un minore entusiasmo verso certi (cosiddetti se non autoproclamatisi) “rappresentanti del popolo”.

Ovviamente, possiamo immaginare tutti dove andranno a parare, nei prossimi giorni, i talk show e le ben-pensanti dichiarazioni dei politici.

Uno sciopero generale contro l’Italia che galleggia

6 Mag

Oggi è sciopero generale, proclamato dalla COnfederazione Generale dei Lavoratori, “nei confronti di un governo che, a trentasei mesi dal suo insediamento, continua nella sua sola e unica operazione di galleggiamento che sta determinando un pericoloso arretramento del Paese”  e ancora per: “rilanciare il tema del lavoro promuovendo buona occupazione e nuove occasioni di impiego insieme alla ricerca di soluzioni positive alle troppe crisi industriali accumulate sui tavoli del ministero dello Sviluppo economico”.
Il quarto in meno di tre anni con questo governo.

Il 58% dei lavoratori delle aziende private italiane avrebbe aderito allo sciopero generale, su un campione pesato statisticamente di 500 aziende.
Negli stabilimenti Piaggio, l’adesione è all’85%, mentre in Continental e Unicoop Firenze le adesioni sono, addirittura, al 90%.
La Filt, la federazione dei trasporti, annuncia almeno 20 voli cancellati e 40 ritardati a Fiumicino e 30 voli cancellati a Linate, mentre a Malpensa è in sciopero circa la metà del personale di bordo della Easyjet.
Minori, ma comunque elevate, le adesioni di insegnanti, ospedalieri, ministeriali e dipendenti degli enti locali.

Un vistoso successo per Susanna Camusso, considerato che era la sola CGIL a proclamare questa astensione dal lavoro.
Una centralità del sindacato “rosso”, offuscata, come da tradizione, dalla pressione, non sempre pacifica e paziente, dei giovani, che temono (giustamente) di vedersi negare il futuro (come accaduto ai loro padri) e come “strillano” i loro slogan.

Infatti, in diverse città si sono registrati momenti di tensione che hanno coinvolto giovani apparentemente “ordinari”, non i “soliti” black block antagonisti.

A Roma, gli studenti hanno bloccato alcuni binari della Stazione Termini, sono ferme le metropolitane e le ferrovie cittadine il servizio di autobus è ridotto al 30% dei bus urbani e il 50% di quelli extraurbani.
A Torino, dopo che la Commissione di Garanzia ha revocato lo sciopero dei trasporti locali in concomitanza della sfilata degli alpini, si sono verificati incidenti tra studenti e ex-militari. Gruppi antagonisti hanno cercato di entrare nella sede di Equitalia sono registrate cariche della polizia.
A Genova, la città è praticamente bloccata, dato che gli studenti hanno occupato la sopraelevata.
Tutto tranquillo e grande adesione a Palermo, Milano e Napoli, dove, però, a capo del corteo c’era la stessa Susanna Camusso.

La CGIL sarà sempre la CGIL, “rossa e marxista”, su questo non si può dubitare, con non è dubitabile che gran parte degli scioperanti non siano “comunisti”, ma è altrettanto evidente che oggi, in strada, c’era una parte dell’Italia “che non ci sta al declino”.
Speriamo che almeno il Parlamento, se non anche i governi nazionali e regionali, prendano atto che la gente chiede sviluppo e non mero “galleggiamento”, vuole futuro e non repliche già viste.

leggi anche “Chi è Susanna Camusso