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Crimea, Ucraina, Kazakistan, Siria, petrolio, gas, Heimat, dominio dei mari e altro ancora

31 Mar

Se qualcuno volesse scrivere la sceneggiatura o delineare uno scenario internazionale di quanto sta accadendo tra Stati Uniti, Germania e Russia via Ucraina-Siria-Crimea, ce ne sarebbe abbastanza per un ottimo polpettone cinematografico stile Spy Stories ambientate durante la Guerra Fredda.

Iniziamo dalla scacchiera.

Il progressivo incremento dei trasporti via mare va di pari passo con le piraterie, i porti franchi e le micronazioni dalle tante pretese. La flotta russa, oltre ad essere più moderna di quella USA in fatto di portaerei, è pressochè inutilizzata e confinata nei mari freddi del Baltico e dell’Artico. La superiorità della tecnologia militare russa è notoria anche a livello di aviazione (Sukoi – Mig), di ‘artiglieria’ leggera (sistemi razzo russi e iraniani) e di armi leggere (Kalashnikov). E, quanto alle guerre in Afganistan, possiamo prendere atto che i soldati russi si dimostrarono ben più coriacei dei cow boys yankees odierni.

Il Climate Change prefigura un notevole incremento delle terre coltivabili a disposizione delle repubbliche ex sovietiche, Russia inclusa. Niente di fantascientifico. E’ già accaduto 3-4.000 anni prima di Cristo e dal 600 d.C a seguire che le popolazioni scandinave, grazie al disgelo, siano cresciute demograficamente ed abbiano dovuto espandere i propri territori. Inoltre, il dopo Fukushima rende ancor più interessante l’uso del gas naturale come fonte energetica. Questo gas, per motivi geografici, deve passare attraverso l’Ucraina o il mare al largo della Polonia, che sono ambedue, ormai, delle colonie della Deutsche Bank e della Goldman&Sachs. Una discreta quantità del gas ‘russo’ proviene dalla repubblica kazaka, dove vivono e governano gli ultimi discendenti di quella che alcuni considerano la ‘dodicesima tribù di Israele’, i Cazàri.

ervature energetiche Eurorussia

Israele, a sua volta, non sembra essere per nulla infastidito nè dalle guerre – prima irakena, oggi siriana, per non parlare della caotica rivoluzione egiziana – nè dall’iperattivismo saudita in Medio Oriente. E, d’altra parte, mandare in tilt Damasco è il mezzo migliore per evitare che si ricomponga l’ultimo califfato mancante al mosaico, ovvero la riunione di Libano, Siria, Giordania e Iraq. Qualcosa di inimmaginabile negli anni ruggenti del sionismo, ma altrettanto realistica se Erdogan (ri)vince alla grande le elezioni.
E i ‘nemici’ di Israele sono noti da decenni: Russia, Iran e, guarda caso, Siria. Come lo sono gli ‘amici’: Stati Uniti e, guarda caso, Germania e Arabia Saudita.

Syrian Pipelines Siria Oleodotti

Dunque, esiste la probabilità che qualche potente kazako e qualche suo lontano cugino di New York o di Tel Aviv non vedano di buon occhio l’aggiramento dell’Ucraina e della Germania con gli oleodotti e i gasdotti del South Stream attraverso il Mar Nero. Tutto legittimo, come potrebbe esserlo, viceversa, l’idea russa di risolvere a pie’ pari il ‘problema ceceno’, che ha finora bloccato la realizzazione dell’autostrada energetica, riprendendosi la Repubblica di Crimea, regalata da Krushev all’Ucraina e da questa inglobata, che si trova abbastanza a nord per poter abbandonare la Cecenia al proprio destino di area tribale.

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Per completare la scacchiera, ricordiamo che l’Italia si  approvvigiona di gas tramite la Tunisia e potrebbe infischiarsene, come gli stati europei del Nord Europa che utilizzano il North Stream, come anche ha forti interessi (tramite ENI) in Kazakistan e, dunque, la ‘cresta’ che gli ucraini fanno sul gasodotto  principale non può farci gioire. Come non gioiscono – di sicuro – nè i bulgari, nè i serbi, nè i turchi, nè gli albanesi e neanche i molisani, che dalla messa in opera del South Stream potrebbero ottenere l’energia e l’upgrade necessari per lo sviluppo.
L’Italia è anche il paese al quale fu demandato di provvedere alla costruzione di caccia F35, in quantità non inferiore a 100 come sembra, che prima o poi saranno usati per fare la guerra da qualche parte.
E, se il Kazakistan vi ha portato alla mente il caso Shalabayeva-Bonino, mettiamo anche in conto che neanche 12 ore dopo le rassicurazioni di Obama a Renzi sul caso dei marò in India, il governo indiano ha dichiarato illegittimo l’uso delle leggi antiterrorismo a carico dei nostri militari, aprendo un’inchiesta.
Meglio incassare, si sarà detto Matteo Renzi, piuttosto che un nuovo caso Mattei … tanto sarà difficile scalzare ENI dalle repubbliche ex sovietiche e … dalla Turchia.

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Il tutto mentre, prima o poi, la Gran Bretagna si troverà – per la prima volta in 200 anni con un re giovane e, dopo tanti secoli, con un principe cadetto scalpitante. E mentre la Scozia potrebbe diventare una repubblica, incassando molto del petrolio del Mare del Nord, Londra sta cercando in ogni modo di ottenere il controllo dei ricchi pozzi delle Falkland – Malvinas, al largo dell’Argentina.
I francesi hanno i loro problemi, con una sinistra che ormai è andata ad aggiungersi ai lauti banchetti (e qualche scampagnata extraconiugale) dell’alta borghesia affermatasi nell’Ottocento.
Quanto alla Germania, c’è poco da dire: nel momento in cui è arrivata (anni fa) a dotarsi di una corolla di stati satellite (Olanda, Lussemburgo, Polonia, Ucraina, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca, Triveneto …), grazie al potere delle proprie banche e alla forza delle proprie istituzioni, i suoi confini coincidono con quelli della Heimat.

Obama?
Possibile che gli USA siano talmente alla canna del gas – tra complesso industrial-militar-finanziario e un melting pot che funziona in parte – da dover trasformarsi nel braccio (armato) degli interessi di Germania e Israele?
Dov’è l’afflato di Carter e di Clinton che riuscirono a costruire e sugellare l’armistizio ancora corrente, seppur instabile, tra Israele e Palestina? Dov’è la competenza di George Bush senior che preferì non invadere l’Irak? E dove sono gli staff di quei presidenti americani?

Perchè, da quando Barak Obama è subentrato a G. W. Bush come presidente agli inizi del 2009, della ‘Road map for peace‘ non se ne è più parlato?
E come spiegarsi il perchè, se Hillary Clinton – che pure ci aveva provato – ha lasciato la carica di Segretario di Stato a John Kerry, nipote di James Grant Forbes II e pronipote di Robert Charles Winthrop per parte di madre, ma anche nipote di ebrei austroungarici, immigrati ai primi del ‘900 in USA,  e con due zii  – Otto e Jenni  – sterminati dai nazisti con tutte le loro famiglie.

Timori dovuti, dato che Mr. President ha già dimostrato – in occasione delle rivolte arabe contro i regimi corrotti – di non cavarsela molto bene fuori dai confini delle metropoli wasp statunitensi. Come anche, ha lanciato promesse al vento, vedi il ritiro dall’Afganistan o la guerra lampo in Siria, per non parlare dell’Obamacare o dell’assimilazione degli ispanici o, peggio, del grande piano infrastrutturale che annunciò cinque anni fa.
Questa è la chiave di volta.

Putin-Vs.-Obama

Per il resto, va tutto bene. La Germania – grazie al distacco della Crimea dall’Ucraina – ormai arriva a Kiev e controlla i rubinetti di francesi e olandesi. L’Italia incassa sconti e commesse più due marò liberi, tanto tra tre mesi la banderuola gira. Israele ha un rapporto con i Sauditi ormai ben consolidato e, se l’Imperatore americano facesse il suo mestiere, si dedicherebbero ambedue al business as usual piuttosto che trovarsi prima o poi la casa in fiamme.
Russia e Kazakistan hanno indietro la loro Crimea e potranno avere un South Stream che fa capo all’attuale hub di Odessa, senza dover dipendere – come accade a noi italiani – dai voleri (e dagli affarucci) dei Graf di Berlino (e Monaco di Baviera), che – come Machiavelli e la storia medievale insegnano – abitano troppo vicino alle nostre amate coste.

Un grande presidente americano avrebbe rilanciato la Road Map per il Medio Oriente, prima che i turchi stacchino gli acquedotti che alimentano Israele. Un segretario degli esteri, con una carrriera da pacifista e da procuratore integerrimo del caso Contras, avrebbe rilanciato la Road Map per il Medio Oriente, prima che le masse arabe (egiziane e non solo) rivolgano all’esterno piuttosto che all’interno le loro tensioni.
Ma Obama e Kerry di politica estera ne masticano poca e di storia e dottrina politica ancor meno, basta leggere i curricula da avvocati per saperlo, e così andando le cose a festeggiare saranno Putin e Merkel …

Non a caso i repubblicani di Romney sono partiti alla carica, poichè proprio in campagna elettorale Obama accusò il suo contendente di ‘ricadere nella Guerra Fredda’, mentre i democratici – temendo che la debolezza finora dimostrata dal ‘loro’ presidente possa rivelarsi  un boomerang – ormai si sono  aggregati al coro bipartisan che al Congresso chiede di inviare aiuti militari in Ucraina ‘per supportare il nascente governo’.
La Crimea? E’ russa, come avranno avuto modo di spiegare le diplomazie francesi e inglesi …

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Ariel Sharon, l’uomo di Qibya, di Sabra e di Chatila

12 Gen

Ariel Scheinermann (poi cambiato in Sharon)  nacque il 26 febbraio 1928 nella cooperativa agricola di Kfar Malal, nel Mandato britannico della Palestina (oggi Israele), da una famiglia di ebrei lituani immigrati in fuga dalla Rivoluzione russa.

All’età di 10 anni Sharon entrò nel movimento giovanile sionista Hassadeh per confluire, a soli a 14 anni, nel Gadna, un battaglione giovanile paramilitare, e in seguito all’Haganah, un gruppo paramilitare, precursore delle Forze di Difesa Israeliane.

comandò come maggiore una forza speciale dell’esercito creata apposta per reagire con rappresaglie agli attacchi terroristici sul suolo israeliano. Il 14 ottobre 1953, quando era un ufficiale l’Unità 101, partecipò alla strage di Qibya, facendo saltare quarantacinque abitazioni uccidendo sessantanove arabi costretti al loro interno. L’ONU, in data 24 novembre 1953, nella Risoluzione 101. espresse la “più forte condanna” delle violenze commesse.

Sharon Massacro Qibya 1953

Nominato generale all’età di 28 anni, partecipò a praticamente tutti gli episodi bellici israelo-palestinesi.

La Commissione d’inchiesta sugli eventi dei campi profughi a Beirut (Commissione Kahan), istituita dal governo israeliano il 28 settembre 1982 per investigare sul Massacro di Sabra e Shatila – durato dal 16 al 18 settembre 1982 – da parte di falangisti libanesi, avvenne sotto l’avallo dell’allora ministro della difesa Ariel Sharon: «Abbiamo stabilito che il ministro della Difesa [Ariel Sharon] ha la responsabilità personale. A nostro parere, è giusto che il ministro della Difesa tragga le conseguenze personali derivanti dai difetti emersi, per quanto riguarda il modo in cui ha scaricato i doveri del suo ufficio, e, se necessario, che il Primo Ministro eserciti la sua autorià a rimuoverlo da ufficio».[link]

Il reporter David Lamb scrisse sul quotidiano Los Angeles Times del 23 settembre 1982 che «alle 16 di venerdì il massacro durava ormai da 19 ore. Gli Israeliani, che stazionavano a meno di 100 metri di distanza, non avevano risposto al crepitìo costante degli spari né alla vista dei camion carichi di corpi che venivano portati via dai campi».
Il processo per i Crimini di Guerrax presso il Tribunale dell’Aja per i fatti di Sabra e Chatila è stato archiviato, perchè il principale testimone d’accusa contro Ariel Sharon, Elie Hobeika, venne ucciso da un’autobomba pochi giorni prima del processo.

Costretto alle dimissioni, ottiene un nuovo ministero poco dopo ed il 28 settembre 2000, accompagnato da una scorta armata di circa un migliaio di uomini occupa la Spianata delle moschee a Gerusalemme, tradizionalmente controllata dai palestinesi, scatenando la Seconda Intifada, che contò circa mille morti tra gli israeliani e oltre 5.000 tra i  palestinesi.
Lo stato di guerra generatosi fornì a Sharon il consenso necessario per vincere le elezioni su una piattaforma di critica degli accordi di Oslo.

Il 3 dicembre 2001 Ariel Sharon a capo del governo israeliano dispose il confino del suo eterno nemico, il leader palestinese Yasser Arafat nella Muqāṭa di Ramallah, e quasi un anno dopo i corazzati e i blindati israeliani penetrarono nel recinto per demolire la struttura, scatenando aspri combattimenti e il successivo assedio.

Solo il 29 ottobre 2004, Arafāt ha potuto lasciare il suo luogo di confino per recarsi a Parigi, nell’ospedale militare di Percy, per vivere i suoi ultimi giorni. Secondo il report dell’Università di Losanna si è riscontrato un «innaturale alto livello di polonio radioattivo nelle costole e nel bacino» di Arafat e che c’è «un 83% di probabilità che sia stato avvelenato».

Poco più di un anno dopo, il 4 gennaio 2006, Ariel Sharon venne colpito da una grave emorragia cerebrale, che lo ridusse in coma e, poi, in uno stato di coscienza minima.  Nel settembre 2013 viene sottoposto a un delicato intervento chirurgico e l’11 gennaio 2014 la radio israeliana ne annuncia il decesso.

Chissà se si è mai trovato a riflettere se avesse il diritto di condizionare così pesantemente il futuro non solo dei palestinesi e degli israeliani, ma – praticamente – del mondo intero …

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per i Crimini di Guerra

Palestina: iniziare da Gerusalemme

30 Nov

L’Assemblea Generale con 138 voti a favore, 41 astenuti e 9 contrari accetta la Palestina, come osservatore, nel contesto delle Nazioni Unite: un plebiscito.
Finisce così, almeno dal punto di vista ‘legale’, una situazione che, ormai da più parti, veniva definita di apartheid, riguardo i palestinesi residenti in Israele, e di disconoscimento, riguardo quanti vivono da assediati od esuli nella terra dove nacquero i loro padri ed i loro nonni.

Il voto dell’ONU ed il nuovo status concesso ai palestinesi consentiranno la possibilità di chiedere al Tribunale Penale Internazionale di indagare su eventuali crimini commessi dai leader sionisti durante cinquata anni di guerra civile, in una terra che – è tutto dire – 55 anni fa si chiamava Palestina ed oggi si chiama Territori ed Israele.

Incredibilmente,  secondo il premier israeliano Benyamin Netanyahu il voto all’Onu «non avvicinerà la costituzione di uno Stato palestinese, ma anzi la allontanerà». E, nonostante l’ombra e l’onta dei processi internazionali in arrivo, si dice sicuro che «non cambierà alcunché sul terreno», neanche dove si sono cacciati i palestinesi con modi poco od affatto legittimi per far posto a coloni arrivati da chissà dove …

Un atteggiamento israeliano, di chiusura assoluta, che preoccupa gli USA, che hanno votato contro, allineandosi sulle posizioni isrealiane.

Per l’ambasciatrice Usa all’Onu, Susan Rice, si tratta di «una risoluzione controproducente», il segretario di Stato americano Hillary Clinton è convinta che l’entrata della Palestina nell’ONU, come osservatore per il momento, «pone nuovi ostacoli sul cammino della pace».

Tutt’altri toni arrivano dalla Città del Vaticano, parte in causa nella questione palestinese, che accoglie «con favore la decisione dell’Assemblea Generale, con la quale la Palestina è diventata Stato Osservatore non membro delle Nazioni Unite».

La Germania – ancora inchiodata alle proprie responsabilità storiche verso gli Ebrei e preoccupata come sappiamo solo dell’andamento dell’Euro – si è astenuta ed il portavoce di Angela Merkel ha prontamente annunciato che il Primo Ministro d’Israele Benjamin Netanyahu ed altri membri del governo saranno a Berlino la prossima settimana.

La Francia, viceversa, che aveva sostenuto fin da principio l’ingresso della Palestina nel contesto ONU, adesso chiede con la massima urgenza che inizino dei negoziati.

Intanto, mentre Assad resiste in attesa di una nuova Siria e mentre l’Iran prosegue nella sua politica di subpotenza internazionale, l’ONU afferma il proprio potere ribadendo che l’orologio è fermo al 1967 ed alle mappe e suddivisioni che allora vennero determinate e dalle quali dovranno ripartire i negoziati.

Mappe e suddivisioni che individuano Gerusalemme come città smilitarizzata sotto controllo internazionale: un luogo di pace, insomma, e di fede nell’Unico Dio, già oggi inifluente in termini di scacchiere militare.

Si potrebbe iniziare da lì: dal Santo Sepolcro, dalla Spianata del Tempio, dal Muro del Pianto. Un sol posto con tre nomi. Se Israele ha davvero buone intenzioni, se non vagheggia una predestinazione divina, questo è il segnale che tutti attendono.

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Iran, Turchia e gli errori di Israele

16 Nov

Mentre l’Europa, distratta e pacifista, si dibatte discutendo d’Euro, di debito sovrano e di declino nazionale, dall’altro lato del Mediterraneo si sta assistendo ad una rapida escalation del “problema israeliano”.

Si, “problema israeliano”, come lo percepiscono oltre un miliardo di islamici, anche detto “problema palestinese” da parte di circa 700 milioni di euro-americani e, naturalmente, gli israeliani.

In realtà, non me ne vogliano i sionisti “puri e duri”, il Medio Oriente è “di per se” conformato per essere gestito da un’autorità sovranazionale: è un impianto infrastrutturale che si perde nella notte dei tempi. Basti dire che, a ben guardare le mappe, nessuno degli stati di quei territori, ad eccezione di Turchia e Libano, può dirsi “autosufficiente”.

Ritornando alla “questione israelo-palestinese”, non possiamo trascurare che, nel 1947, gli Inglesi erano mossi da motivazioni umanitarie e non sioniste, quando concessero il permesso all’esodo in Palestina, e che l’ONU, nel 1967, fissò una ragionevole e negoziabilissima linea di demarcazione che Israele non ha mai rispettato, in ragione della necessità di difendersi dai terroristi.

Eppure, se entriamo nel campo del diritto internazionale, la Gran Bretagna non ha mai “allargato” i confini dell’Ulster, per creare una “fascia di protezione” contro i terroristi dell’IRA, che, proprio negli stessi anni, arrivavano dalle basi collocate nella repubblica irlandese. Come anche va sottolineato che i palestinesi di religione cristiana, che terroristi non sono, subiscono lo stesso trattamento degli islamici, i cui correligiosi hanno commesso stragi.

Vicende che, attenzione, sono state condannate anche da molti ebrei atei o cristiani, come, ad esempio, quelli che militano nei partiti della sinistra europea, oltre che da tanti giovani israeliani.

Ed, così andando le cose, arriviamo ai nostri giorni, quelli “in cui il governo israeliano discute i piani d’attacco ai reattori nucleari di Ahmadinejad”, come riporta il Corriere della Sera. Un’idea veramente folle, se consideriamo le ricadute internazionali, oltre che interne.

Se Israele attaccasse l’Iran, le reazioni di Hamas ed Hezbollah, con il conseguente carico di autobombe e di razzi homemade, rappresenterebbero l’aspetto più gestibile dell’impresa.

Infatti, Israele dovrà attendersi una reazione della Cina Popolare, non militare e non immediata come da tradizione orientale, ma è evidente che i cinesi non dimenticherebbero una tale “affermazione di potenza” da parte di Israele nè sottovaluteranno un’azione immotivata e unilaterale verso l’Iran, che è un alleato strategico di Pechino e che reclama il diritto a dotarsi di un’atomica, visto che ce l’hanno Israele, Russia, Pakistan, India e Cina.

In secondo luogo, un attacco senza preavviso trasformerebbe Siria, Irak, Afganistan e Pakistan in una polveriera, con il possibile risultato di unire gli integralisti sciiti e sunniti.

E nulla è dato sapere su come reagirebbero le democrazie ed i mercati europei.

Ma il male peggiore arriverebbe dalla reazione di Libia, Egitto, Tunisia eccetera, dove i Day of Rage hanno abbattuto tiranni e ribadito la legge islamica entro, per ora, i limiti di uno stato laico come avviene in Turchia, che è la potenza, industriale e militare, del Medio Oriente.

Gi attriti tra Ankara e Tel Aviv sono ormai quotidiani, le basi aeree turche  sono ai confini del Libano, a pochi minuti di volo dagli obiettivi, mentre la marina potrebbe garantire addirittura uno sbarco in forze, ad esempio a Gaza.

Senza contare il fatto che la reazione iraniana arriverebbe comunque, probabilmente sotto forma di attentato, e che, per cancellare lo stato di Israele, basterebbe rendere radioattiva la città di Tel Aviv, cosa minacciata più volte da quel pazzo di Ahmadjinejad.

Una Turchia, rifiutata dall’Europa, che ha un esercito con addestramento ed armamenti NATO, la quale, senza ricorrere a scenari apocalittici, potrebbe sospendere l’enorme fornitura di acqua potabile con cui serve Israele, visto cosa accadrebbe nelle moschee di tutto il mondo se venissero attaccate le centrali nucleari a nord di Tehran.

Infine, il mondo intero, che difficilmente perdonerebbe chi avesse dato lo start up ad un conflitto regionale di tale portata.

Israele deve fermarsi ed accettare che, con buona pace di integralisti e sionisti, l’idea di un “dio” che predilige popoli e nazioni è minoritaria e contestabilissima: la divisione dei territori deve essere “laica” e non “integralista”, da ambo le parti.
E’ anche inaccettabile l’idea di “guerra preventiva”, enunciata da Moshe Dayan e realizzata, malamente davvero, da George Walker Bush: produce un’enorme quantità di martiri e di eroi.

Le premesse di una guerra si combattono con l’ipotesi di una pace e questo non significa essere pacifisti, ma semplicemente ricordare che c’è un tempo per le armi ed un altro per le parole, come anche che uno stato assediato non è uno stato libero, nè verso l’interno nè verso l’esterno.

Quanto al futuro, il vero “nemico” dell’isolazionismo di Israele è la Turchia, visto che il Medio Oriente ha bisogno di un’autorità sovrannazionale “laica” che possa garantire la pacifica convivenza di islamici, ebrei e, non dimentichiamolo, cristiani.

Sarà lo stesso sogno cosmopolita degli ebrei dei ghetti, quello che sta trainando la globalizzazione mondiale e che accomuna i giovani di tutto il mondo su internet, a sconfiggere, prima o poi, l’isolazionismo sionista, oltre che l’integralismo islamico.

Medio Oriente: arriva la Pace?

24 Set

Abu Mazen, in nome del popolo palestinese, ha chiesto all’ONU il riconoscimento di uno Stato di Palestina, che possa avviare i colloqui diretti di pace con Israele.
I palestinesi esultano nelle piazze, a casa loro, in Israele e nel mondo, arriva la Pace.

La Pace? Per ora proprio no.

20.000 poliziotti israeliani ed altrettanti militari sono dislocati in Cisgiordania in stato di massima allerta e questo durerà almeno fino alla fine del Capodanno ebraico.
Ci si prepara al bagno di folla (e di sangue) previsto per il ritorno di Abu Mazen in patria, nella settimana prossima.
L’entusiasmo è un potente movente e non è improbabile che ci saranno morti tra incidenti, infortuni, scontri ed azioni isolate.
Le forze di sicurezza israeliane e palestinesi sono state attivate in forze proprio per contenere queste situazioni e prevenire un’escalation.

Non è un caso che a Gaza, invece, sia tutto fin troppo tranquillo, perchè Hamas non approva l’iniziativa di Abu Manzen, che sarebbe andato alle Nazioni Unite “per mendicare uno Stato” e che sarà “costretto rinunce rispetto agli interessi nazionali dei palestinesi”.
Oppure che nei territori occupati, come nelle colonie ebraiche di Kusra ed Hebron, sono ore di massima tensione e già si contano 4 morti, due adulti e due bambini, due ebrei e due palestinesi.

Nessun vincitore …

(leggi anche Palestina-Israele: il ciclo dell’odio)

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Shministit, in ebraico “obiettori”

18 Set

Shministit, in ebraico, vuol dire “nel 12° anno”, vuol dire “obiettore di coscienza”.

Sono tanti i giovani ebrei che accettano “dodici anni di disgrazie” pur di non agire contro i palestinesi, mussulmani o cristiani che siano.

La loro esistenza testimonia a tutto il mondo che ebreo non significa sionista e semita non equivale ad usurpatore.

Sono anni, molti più di dodici, che va avanti questa vicenda ed ormai siam oalla seconda generazione di obiettori, ormai, che hanno rinnegato la politica di occupazione militare dei Territori, iniziata nel 1967 da “falchi” come Moshe Dayan e Golda Meyer ed alimentata per due decenni dalle scelte di Ariel Sharon.

I governi israeliani fingono che il fenomeno non esista e quello di Netanhyau, dinanzi ad una popolazione turbata dagli eccidi di Gaza, sta facendo altrettanto.

Potrebbero ricordarglielo gli Europei, ma non lo faranno ed, intanto, giovani ebrei e giovani arabi continuano a morire ed a soffrire, senza un futuro che possa chiamarsi Pace.

Israele: il 10% degli elettori sono pacificamente indignados

4 Set

Anche in Israele, da otto settimane, gli Indignados assediano il governo, chiedendo più equità sociale e più legalità, più politica e meno partiti: 400.000 persone, quasi il 10% dell’elettorato, ha manifestato oggi in tutto il paese (250.000 nella sola capitale).

Era iniziato tutto con una tenda piazzata in Rothschild Boulevard, a Tel Aviv, ed è andata che ieri c’erano migliaia di manifestanti anche a Gerusalemme, a Haifa ed a Eilat, dove l’eterna guerra di Palestina sconsiglia i pubblici assembramenti.

Cosa chiedono gli Indignados al governo presieduto da Nethanyau, la cui politica ha finora accentuato il già pesantissimo isolamento internazionale in cui vive il paese?

Riduzione dei carichi fiscali per i settori sociali esclusi dalla crescità del Pil di questi anni, politiche per i giovani e le famiglie, più fondi all’istruzione, meno corruzione e più sicurezza.
Tutto il mondo è paese.

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