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L’ONU chiede alla Russia il ritiro dal Donbass

13 Ott

Si è conclusa stanotte (ore italiana) l’Assemblea Generale dell’ONU, convocata con urgenza a tutela dell’integrità territoriale dell’Ucraina, dopo l’annessione del Donbass e dopo il veto russo nel consiglio di sicurezza.

La risoluzione ONU condanna i “cosiddetti” referendum russi e l’annessione di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia, e afferma che la pretesa di Mosca non ha validità nel diritto internazionale e costituisce la base per alterare lo status di “queste regioni dell’Ucraina”.
La nuova risoluzione – soprattutto – invita la Russia a ritirare “immediatamente, completamente e incondizionatamente” tutte le sue forze dal territorio ucraino.

La risoluzione era stata presentata all’Assemblea Generale dell’ONU (UNGA) dopo il veto russo per un testo simile da approvare nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

143 stati hanno votato a favore, mentre 35 si sono astenuti, tra cui Cuba, Iran, Cina, India, Sri Lanka, Pakistan, Kazakistan, Kyrgyzistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Sudafrica, Etiopia, Eritrea ed altre 16 nazioni africane.
Corea del Nord, Siria, Nicaragua e Bielorussia sono stati gli unici quattro paesi a votare contro la risoluzione insieme alla Russia.

La risoluzione non è vincolante, essendo solo una “raccomandazione” – ai sensi degli articoli 10 e 11 dello Statuto delle Nazioni Unite – e la sua forza si fonda sul numero e il peso delle nazioni favorevoli.

Val bene sapere che le risoluzioni per il ritiro di un esercito invasore hanno raramente ottenuto successo, dato che è un fattore che l’aggressore mette in conto già nel progettare l’attacco, ma le risoluzioni hanno un notevole peso nell’import ed export di risorse, beni e valute.

In questo senso, registriamo il voto favorevole di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, che fanno parte dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, e del Brasile, che fa parte del blocco BRICS con Russia, India, Cina e Sud Africa.

In termini strategici, a parte il peso commerciale e industriale di Cina e India, va registrato che non hanno aderito alla risoluzione, astenendosi o votando contro, la gran parte delle nazioni che controllano le rotte commerciali che portano petrolio, minerali e merci dall’Oriente verso l’Europa e il Giappone .

Non è irrilevante il fattore che la risoluzione chieda il ritiro delle truppe russe (non il cessate il fuoco e l’intervento di Forze di Pace), con Cina, India e Pakistan in ‘conflitto di interessi’, essendo a loro volta oggetto di moratorie per territori contesi.

Demata

L’ombra della guerra sul prossimo G-20 in Indonesia

4 Apr

Mentre anche in Giappone esplode l’indignazione per il massacro di Bucha e le scuole lanciano una campagna di crowdfunding per i rifugiati ucraini, secondo quanto riporta Kyodo News, su 699 entità giapponesi in 10 economie, il 55% delle aziende giapponesi con sede all’estero ha avuto un impatto sulle proprie operazioni commerciali – o prevede che lo sarà – dall’invasione russa dell’Ucraina, secondo un sondaggio condotto da da Pasona Group Inc. a metà marzo.
Di questo 55% percento delle aziende con sede all’estero, il 43,2 percento ha affermato di sentire già gli effetti del conflitto, mentre il 22,7 percento ha dichiarato di aspettarsi di farlo entro un mese e il 26,8 percento entro tre mesi.

Le aziende con sede nell’unico paese europeo incluso nel sondaggio (la Francia) sono state di gran lunga le più colpite con il 92,3% che ha risposto di aver subito un impatto in qualche modo, seguita dalla Malesia con il 72,0% e da Singapore con il 66,7%. L’impatto più citato (43,2%) è stato l’aumento dei costi delle materie prime, inclusi petrolio, prodotti chimici e metalli, seguito dall’aumento dei costi logistici e dei prezzi dell’energia.

Quel che più preoccupa i giapponesi (e anche noi) è che, tra due settimane, in Indonesia si terrà il G-20 della nazioni più industrializzate con la partecipazione di Argentina, Australia, Brasile, Gran Bretagna, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa, Corea del Sud, Turchia, Stati Uniti ed Unione Europea.

La stampa giapponese prevede che l’Indonesia non escluderà la Russia dall’incontro, ma altri membri hanno anche espresso preoccupazione per la sua partecipazione, dopo che il presidente Joe Biden ha affermato che la Russia dovrebbe essere rimossa dal G-20 e gli Stati Uniti potrebbero non partecipare.
Ad ogni modo, I ministri delle finanze del G-20 e i governatori delle banche centrali stanno valutando la possibilità di non rilasciare una dichiarazione congiunta al termine del convegno.

Il 18 febbraio, circa una settimana prima che la Russia iniziasse il suo attacco all’Ucraina, i leader finanziari del G-20 avevano affermato – secondo Nippon.com – che “avrebbero continuato a monitorare i principali rischi globali, comprese le tensioni geopolitiche che stanno sorgendo e le vulnerabilità macroeconomiche e finanziarie”, senza citare la crisi ucraina.

Il Giappone ha aderito alle sanzioni NATO dopo quasi una settimana di pressing della Casa Bianca. Secondo quanto riportato da Ntv.co, il primo ministro Kishida Fumio conferma che il Giappone rimarrà coinvolto nei progetti di sviluppo di petrolio e gas Sakhalin-1 e Sakhalin-2 in Russia e continuerà a pagare il proprio gas naturale con valuta pregiata, ma incrementerà le sanzioni contro la Russia.

Anche il governo giapponese ha condiviso l’appello del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres per un’indagine indipendente porti a una responsabilità effettiva e la ferma condanna delle “violazioni del diritto internazionale, come il danneggiamento dei civili”.

“Siamo profondamente scioccati e riteniamo estremamente grave che molti civili siano stati vittime in Ucraina”, ha affermato il principale portavoce del governo giapponese, il segretario capo di gabinetto Hirokazu Matsuno. “Uccidere civili innocenti è una violazione del diritto umanitario internazionale ed è assolutamente intollerabile”.

Demata

I diritti umani secondo l’Islam e non solo

25 Gen

Pochi sanno che i paesi di tradizione islamica sottoscrivono una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ‘leggermente’ diversa dalla nostra.

Ad esempio, il “diritto alla giustizia” (art. 4) per il quale “ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge islamica e che nessun’altra legge gli venga applicata” , che “nessuno ha il diritto di costringere un musulmano ad obbedire ad una legge che sia contraria alla Legge islamica” e che (art. 5) “nessuna accusa potrà essere rivolta se il reato ascritto non è previsto in un testo della Legge islamica”.

Peggio ancora l’art. 12, che tutela il “diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola” che nei paesi islamici prevede che “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito”.
La Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo segue precisando che “nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica”

Infine, il “diritto di famiglia” prevede (art. 19) che “ognuno degli sposi ha dei diritti e dei doveri nei confronti dell’altro che la legge islamica ha definito con esattezza” e precisamente che «le donne hanno dei diritti pari ai loro obblighi, secondo le buone convenienze. E gli uomini hanno tuttavia una certa supremazia su di loro» (Cor., II:228).

I diritti universali, insomma, non sono proprio così ‘universali, se 1/3 della popolazione mondiale vive in stati dove i ‘diritti’ sono solo ‘islamici’.
Ma almeno li hanno firmati e, tra l’altro, la versione islamica dei diritti umani prevede regole ‘migliori’ per lo sfruttamento del lavoro e per l’usura: c’è anche chi non li ha firmati o l’ha fatto solo in parte ed in modo ‘sterile’.

Infatti, saranno probabilmente pochi quelli che si sono accorti che Israele non ha firmato i trattati ONU per il traffico di migranti, le tutele del lavoro, la tortura, la protezione dei civili, la pena di morte eccetera e, soprattutto, che … la Santa Sede non ha firmato nemmeno quelli sulle donne, sulla schiavitù, sul lavoro forzato o quanti relativi ai diritti umani e le libertà fondamentali dell’individuo in Europa.

Demata

Nord Corea, un pericolo reale

5 Apr

La recente escalation nordcoreana – con tanto di minacce di attacco nucleare preventivo contro Giappone, Sud Corea e USA – è una rappresaglia contro la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di attuare nuove sanzioni a causa di un ennesimo esperimento nucleare condotto circa un mese fa dall’oligarchia al potere. Tecnicamente si tratta di una dichiarazione di guerra.

La Corea del Nord è uno Stato socialista con un sistema economico pianificato, ma governato tramite una monarchia ereditaria ormai arrivata alla terza generazione, e classificato, sia da Human Rights Watch sia da Amnesty International, come uno degli stati dove il rispetto dei diritti umani è tra i più bassi al mondo.

L’attuale Caro Leader (così è chiamato il monarca) è Kim Jong-un, educato presso la Scuola Inglese Internazionale di Berna (Svizzera) e amante della vita lussuosa, un uomo maniacalmente zelante (un gung-ho) che, nel giro di un paio d’anni, ha fatto uccidere o ha rimosso oltre un centinaio tra ufficiali e alti funzionari, sempre con accuse ‘infamanti’ come l’ubriachezza od il sesso extraconiugale.

Una Corea del Nord che, da alcuni anni, si dedica al traffico internazionale di stupefacenti, tramite alcune delle proprie ambasciate e la fitta rete di spie ‘infiltrate (quotidiano sudcoreano «Chosun») con un «Pil annuale» stimanto in almeno 3.000 chili (100- 200 milioni di dollari) di metanfetamine, molto diffuse tra i giovani giapponesi, di qualità molto elevata e prodotte nei laboratori di Chongjin e Heungnam, in base a standard rigorosi.

Una droga molto diffusa anche nella stessa Corea del Nord (Newsweek – 2011) a causa della mancanza di medicinalie dell’uso di queste droghe sintetiche come palliativi contro  malattie degenerative e tumori, fino a diventarne dipendenti. D’altra parte, la maggior parte degli ospedali e delle cliniche sono carenti di medicinali ed equipaggiamenti essenziali, oltre ad acqua corrente ed elettricità (fonte BBC), in un paese che destina gran parte del proprio PIL in spese militari, propaganda e repressione.

 Un coreano su quindici, tra quelli tra i 20 ed i 45 anni, è un militare in servizio, mentre uno su quattro è militare della riserva. Uno ogni cento, bambini inclusi, è recluso in un campo di concentramento e lavoro forzato, in condizioni di schiavitù,  sottoposto a torture e ad esecuzioni sommarie, deprivato del cibo e di abiti adeguati al clima freddo. La Corea del Nord è stata più volte accusata di rivendere gli aiuti alimentari, che vengono inviati dall’ONU e dagli altri stati, tra cui gli USA, allo scopo di incrementare il proprio livello bellico.

In Corea, ricordiamolo, i venti di guerra aleggiano da tempo, fin da quando Kim Jong-il – nonno dell’attuale Caro Leader – tentò di ‘annettersi’ il sud del paese, sfuggendo al controllo dei padroni russi, che l’avevano nominato governatore della parte settentrionale, andata sotto la loro influenza dopo la sconfitta del Giappone, nella II Guerra Mondiale. La famosa Guerra di Corea fu un attacco a sorpresa senza stato di guerra dichiarato, avvenuta tra il 1950 ed il 1953, perduta dal presidente statunitense Truman, mentre il generale sul campo, il lungimirante Mc Arthur, insisteva per attaccare anche Pechino, all’epoca male armata ed organizzata, dopo aver sbaragliato i nord coreani.
Da allora sessant’anni di scaramucce, che da qualche mese hanno preso una piega inquietante.
Le già pessime relazioni diplomatiche della Corea del Nord con il mondo intero peggioravano notevolmente nel dicembre scorso, quando venne effettuato con successo il lancio di un missile atto sia a mettere in orbita satelliti sia a lanciare testate nucleari, attirando le ire delle Nazioni Unite, visto che sospetta che il progetto sia in realtà il test di un missile balistico Shahab-5 per conto dell’Iran.
Relazioni che sono peggiorate dopo un test nucleare (il terzo, del 12 febbraio scorso, attuato nonostante diverse ammonizioni e sanzioni dell’ONU). Un ‘test pienamente riuscito’, come annunciato dal regime comunista di Pyong Yang, che ha anche provocato un terremoto di 4,9 gradi della scala Richter.

A seguire, il 1 marzo, si svolgono esercitazioni militari degli USA e della Corea del Sud nel Mar Giallo il 30 marzo 2013, ed il 7 marzo arriva un irrigidimento delle sanzioni già in corso, con voto favorevole sia della Cina Popolare sia della Russia, e, tre settimane dopo, arriva l’annuncio del governo nordcoreano di essere in “stato di guerra” con la Corea del Sud.

Non appagato da tanta truculenza, nè intimorito dalla seppur blanda reazione internazionale, Kim Yong-Un, il 1 aprile 2013, annunciava la riapertura del reattore nucleare di Yongbyon, bloccato da anni per le ingiunzioni dell’ONU, ed il 3 aprile 2013 l’esercito nordcoreano riceveva il via libera per un attacco nucleare contro gli Stati Uniti.

Intanto, le frontiere con la Corea del Sud si sono chiuse, inclusa l’area ad economia speciale di Kaesong dove operano 130 aziende sudcoreane con un fatturato di circa un miliardo di dollari a ‘danno’ di decine di migliaia di ‘semi schiavi’ nord coreani,  ma lo sono anche quelle con la Cina Popolare, dove lavoravano altrettante decine di migliaia di ‘semi schiavi’, nel timore di un’ondata di profughi. Il tutto mentre la Russia esprime preoccupazione, gli USA e Giappone  si preparano ad un attacco a sorpresa, l’Europa latita.

Un attacco che potrebbe non arrivare mai, stando a chi ritiene un segnale di apertura ai mercati la recente nomina a premier del 75enne Pak Pong-ju, un riformista intenzionato a ridurre alcune spese militari a favore della spesa civile. Un attacco sul quale le Borse USA, in risalita, potrebbero star già investendo e di cui sia Pechino sia Mosca hanno espresso timore.

Poche ore fa, dopo che il Caro Leader Kim Jong-un ha fatto dislocare sulla costa orientale del Paese un missile a medio raggio ed il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha lanciato l’ennesimo appello, si è appreso che la Corea del Nord avrebbe in agenda un nuovo test nucleare.

Intanto, i razzi-vettore nordcoreani sono in grado di coprire una distanza di 4.000 chilometri circa, ovvero, se fossero lanciati, potrebbero raggiungere la base statunitense di Guam, nell’Oceano Pacifico, ma anche Pechino, Tokio e Shangai.
Se, invece, fossero lanciati dal nord dell’Iran, sarebbero Tel Aviv, Roma, Berlino e Mosca ad essere sotto tiro, mentre, collocandoli su una nave, ogni zona del pianeta sarebbe esposta ad un ricatto.

L’esistenza di una tirannide nucleare come quella nordcoreana è una minaccia planetaria, non un mero problema territoriale od un’ennesima gatta da pelare per gli Stati Uniti. La vicenda in corso, tra l’altro, mira ad espellere gli stati ‘coloniali’ (Giappone e USA) dal Mar Giallo allo stesso modo con cui l’India sta estendendo la propria giurisdizione sull’Oceano Indiano a danno, per ora, delle marinerie italiane e tedesche.

Non è dimostrandosi abbondantemente corruttibile che la Old Rotten Europe (oggi Unione Europea) potrà evitare il proprio declino e la propria esclusione dagli scenari mondiali, dove, viceversa poteva ritagliarsi un ruolo di autorevole e, soprattutto, incorruttibile mediatore.

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Palestina: iniziare da Gerusalemme

30 Nov

L’Assemblea Generale con 138 voti a favore, 41 astenuti e 9 contrari accetta la Palestina, come osservatore, nel contesto delle Nazioni Unite: un plebiscito.
Finisce così, almeno dal punto di vista ‘legale’, una situazione che, ormai da più parti, veniva definita di apartheid, riguardo i palestinesi residenti in Israele, e di disconoscimento, riguardo quanti vivono da assediati od esuli nella terra dove nacquero i loro padri ed i loro nonni.

Il voto dell’ONU ed il nuovo status concesso ai palestinesi consentiranno la possibilità di chiedere al Tribunale Penale Internazionale di indagare su eventuali crimini commessi dai leader sionisti durante cinquata anni di guerra civile, in una terra che – è tutto dire – 55 anni fa si chiamava Palestina ed oggi si chiama Territori ed Israele.

Incredibilmente,  secondo il premier israeliano Benyamin Netanyahu il voto all’Onu «non avvicinerà la costituzione di uno Stato palestinese, ma anzi la allontanerà». E, nonostante l’ombra e l’onta dei processi internazionali in arrivo, si dice sicuro che «non cambierà alcunché sul terreno», neanche dove si sono cacciati i palestinesi con modi poco od affatto legittimi per far posto a coloni arrivati da chissà dove …

Un atteggiamento israeliano, di chiusura assoluta, che preoccupa gli USA, che hanno votato contro, allineandosi sulle posizioni isrealiane.

Per l’ambasciatrice Usa all’Onu, Susan Rice, si tratta di «una risoluzione controproducente», il segretario di Stato americano Hillary Clinton è convinta che l’entrata della Palestina nell’ONU, come osservatore per il momento, «pone nuovi ostacoli sul cammino della pace».

Tutt’altri toni arrivano dalla Città del Vaticano, parte in causa nella questione palestinese, che accoglie «con favore la decisione dell’Assemblea Generale, con la quale la Palestina è diventata Stato Osservatore non membro delle Nazioni Unite».

La Germania – ancora inchiodata alle proprie responsabilità storiche verso gli Ebrei e preoccupata come sappiamo solo dell’andamento dell’Euro – si è astenuta ed il portavoce di Angela Merkel ha prontamente annunciato che il Primo Ministro d’Israele Benjamin Netanyahu ed altri membri del governo saranno a Berlino la prossima settimana.

La Francia, viceversa, che aveva sostenuto fin da principio l’ingresso della Palestina nel contesto ONU, adesso chiede con la massima urgenza che inizino dei negoziati.

Intanto, mentre Assad resiste in attesa di una nuova Siria e mentre l’Iran prosegue nella sua politica di subpotenza internazionale, l’ONU afferma il proprio potere ribadendo che l’orologio è fermo al 1967 ed alle mappe e suddivisioni che allora vennero determinate e dalle quali dovranno ripartire i negoziati.

Mappe e suddivisioni che individuano Gerusalemme come città smilitarizzata sotto controllo internazionale: un luogo di pace, insomma, e di fede nell’Unico Dio, già oggi inifluente in termini di scacchiere militare.

Si potrebbe iniziare da lì: dal Santo Sepolcro, dalla Spianata del Tempio, dal Muro del Pianto. Un sol posto con tre nomi. Se Israele ha davvero buone intenzioni, se non vagheggia una predestinazione divina, questo è il segnale che tutti attendono.

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8 marzo, non c’è festa per le donne Rom

7 Mar

Credevamo che le donne in semischiavitù esistessero solo a casa dei Talebani, col burka e costrette a chiedere l’elemosina, senza istruzione ed esposte a malattie e violenze. Ci eravamo  sbagliati, c’è anche l’Italia. Almeno se parliamo delle donne Rom regolarmente e storicamente residenti qui da noi.

Secondo il Report di Save the Children (link), il 45% delle donne Rom di Roma si sposa da minorenne e sono il 30% quelle che partoriscono prima dei 18 anni. Almeno il 10% di loro non fa esami del sangue nè ecografie prima del parto.

Questo accade perchè il 70% di loro non ha assistenza sanitaria e solo il 50% sa che esiste il Consultorio, che cosa sia ed a quali diritti e prestazioni ha accesso.

Poco più del 15% ha un lavoro, la metà è del tutto dipendente dal marito, un altro 15%, o poco meno, vive di elemosine.

Donne Rom di Roma, visto che per almeno la metà di loro, che sono di etnia “yugoslava”, parliamo di persone arrivate – o addirttura nate – nella Capitale prima del 1996. Ma, a quanto pare, ancora oggi non romane “a tutti gli effetti”.

A Milano non deve andare meglio, se un’indagine condotta, in due anni, su un gruppo di 1142 rom da due ‘medici di strada’ del Naga  in 14 aree milanesi (link) dimostrerebbe che gli aborti sono numerosi: una media di 3,8 aborti per donna, ma … solo il 32% delle donne dai 14 anni in su ha avuto almeno un’interruzione di gravidanza (volontaria o spontanea).

L’indagine, che ha fatto scalpore sotto la Madonnina, precisa che le aree destinate a campo nomadi sono state trovate “quasi tutte prive di servizi igienici, nella maggior parte dei casi la spazzatura non veniva ritirata e tutte in condizioni di sovraffollamento”, cosa che rende ancora più insicure e precarie le condizioni delle donne, specialmente se in maternità.

Più in generale, uno studio sulla situazione italiana di ERRC ed Opera Nomadi, acquisito dal Committee on the Elimination of Discrimination against Women dell’ONU (CEDAW) (link), conferma che le donne Rom in Italia subiscono spesso violenza, sessuale o semplicemente fisica, ma specialmente da italiani e non cercano aiuto presso le istituzioni competenti, poiché temono l’intervento si ritorca contro di loro o prevedono, in base ad esperienze pregresse, di essere ignorate.

Episodi pubblici di violenza e aggressività verso le donne Rom, anche se incinte, sono relativamente comuni. Diversi studi indipendenti menzionati nel Rapporto riportano una certa incidenza di episodi che coinvolgono pubblici ufficiali o impiegati.

Come anche i dati del Rapporto confermano che molte donne Rom (forse il 30%) avevano meno di 16 anni, se non solo dodici, all’età del “vero matrimonio”, celebrato secondo i riti Rom e non secondo la legge italiana.

Il 70% di loro è analfabeta o semianalfabeta, vivono in larga parte di elemosina o dipendenti dal marito, ma la sorte peggiore tocca a quel 15% che trova un lavoro “vero”, dove spesso subisce vessazioni e violenze.

Almeno metà delle donne Rom ha informazioni, relative ai servizi ed ai diritti cui può accedere, scarsissime, se non nulle, nonostante la grande mole di risorse spese per i progetti di mediazione culturale attuati da tanti comuni.

Secondo il Rapporto predisposto per il CEDAW-ONU, “le autorità, sia in Italia sia all’estero, ritengono che il matrimonio precoce tra Rom sia determinato culturalmente e non prendono iniziative per eliminare questa pratica pericolosa,” che viene perpetuata dagli “integralisti” come “pratica culturale dei Rom”, ma “le donne Rom intervistate vogliono che questa pratica abbia fine“.

Il Rapporto, ricevuto dal Committee on the Elimination of Discrimination against Women dell’ONU (link), precisa che “alla base dell’approccio del governo italiano alla questione Rom e Sinti c’è la convinzione che siano popolazioni “nomadi”, sebbene quasi tutti i Rom presenti in Italia siano sedentari“.

Potremmo anche iniziare a vergognarci o, quanto meno, riflettere.

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Kim Jong-il, epitaffio per un tiranno

20 Dic

La Repubblica Democratica Popolare di Corea è uno Stato a sistema economico pianificato, retto da una dittatura monocratica e totalitaria di ispirazione stalinista-maoista con un pervasivo culto della personalità elaborato intorno agli esponenti della famiglia Kim, al potere dal 15 agosto 1945.

Fu allora che Kim Il-Sung, comandante comunista dell’Esercito rivoluzionario popolare coreano (ERPC) nella resistenza all’occupazione giapponese, venne acclamato segretario generale del Partito dei lavoratori di Corea.

Nel 1970,  mentre in Russia ed in Cina il Comunismo iniziava a prender atto del proprio fallimento complessivo cercando di innovarsi,  Kim Il-sung attuò in Corea del Nord un sistema di classificazione che strutturava la società in tre classi: il nucleo, i “tiepidi” e gli ostili, divisi a loro volta in cinquantuno categorie.

Da allora, lo status (e il destino) di ogni coreano del nord viene determinato dalla lealtà politica e dai precedenti familiari, incluso l’accesso a viveri e altri beni materiali. L’appartenenza di classe determina anche l’accesso all’istruzione, alle carriere e ai posti di responsabilità, ma anche ai privilegi che vi sono annessi: automobili, negozi speciali, appartamenti riscaldati, cure sanitarie.

Nel 1994, alla morte di Kim Il-Sung successe il figlio Kim Jong-il, ritenuto sostanzialmente un imbelle, che immediatamente proclamò tre anni di lutto nazionale e pretese di essere chiamato “Beloved Leader Kim Jong-il” …
Che i nordcoreani fossero caduti dalla padella alla brace fu subito chiaro: del tutto succube della casta militare, il tiranno attese, ad esempio, oltre un anno prima di chiedere gli aiuti umanitari internazionali, a fronte di una grave carestia iniziata nel 1994 con almeno 220.000 vittime (secondo i dati ufficiali) e, probabilmente, oltra tre milioni di morti secondo le organizzazioni non governative.
Come anche venne accentuata, se possibile, la prassi dell’internamento che venne estesa ai parenti di terzo grado di chiunque fosse scomodo agli appartenenti al regime.

L’infamia di cui si è macchiato il regime di Kim Il-Sung se di suo figlio Kim Jong-il è inenarrabile, anche a causa dei pochissimi testimoni riusciti a fuggire all’estero: poche decine in oltre sessant’anni.

Uno di questi, l’ex carceriere Ahn Myong Chol, ascoltato da una commissione internazionale, racconta che nei campi i prigionieri vengono costretti in 12 ore di lavoro al giorno in campi, fabbriche o miniere, oltre ad ore ed ore di “rieducazione”.
Anche per un semplice ritardo comporta brutali pestaggi, non di rado letali. L’uccisione di evasi permette, inoltre, ai carcerieri di essere trasferiti nella polizia locale, come premio, e non è raro che si incitino i prigionieri alla fuga per poi ucciderli freddamente. E’ anche vietato ai parenti di piangere di fronte alle quotidiane brutalità (stupri, violenze, esecuzioni sommarie) subite dai prigionieri, i cui cadaveri vengono semplicemente accatastati od, al massimo, parzialmente seppelliti.
Il cibo è talmente scarso che i prigioneri si nutrono di rane, topi, lombrichi.

Ad aggiungersi a questi sventurati, ci sono coloro che quotidianamente scompaiono dalle campagne e dalle città, senza che nessuno si ricordi più di loro, dato che chi li cercasse farebbe la stessa fine.

Nel 2011, per la prima volta, sono state registrate le prime proteste “organizzate” della storia della Corea del Nord, avvenute nelle città della provincia confinante con la Cina Popolare. Evidentemente, è difficile attribuire ad i “corrotti colonialisti USA”, il dilagante “benessere” del potente vicino cinese.  Sempre nel corso del 2011, l’ONU ha ricevuto una richiesta formale per aprire un’inchiesta ufficiale sulla Corea del Nord per crimini contro l’umanità

Adesso che Kim Jong-il è morto, il successore designato è suo figlio Kim Jong-un, un ventottenne che ha studiato fino alle superiori in Svizzera, è amante del lusso e, naturalmente, è inviso alle gerarchie militari, che mantengono il paese nel terrore.

Riuscirà l’avidità della famiglia Kim ad abbattere il comunismo in Corea e farsi dinastia?
Probabile: è quello che sta avvenendo anche in Cina Popolare.

Detto questo, prendiamo atto che i Comunisti – Sinistra Popolare hanno emesso il seguente comunicato di cordoglio: “Il Segretario del Partito Marco Rizzo e il Responsabile esteri Alfonso Galdi hanno espresso dolore e presentato le proprie condoglianze al popolo nordcoreano per la morte di Kim Jong-il, guida della causa rivoluzionaria dell’ideologia Juche e del Partito, dell’esercito e del popolo della Repubblica Democratica Popolare di Corea.”

Marco Rizzo rappresenta l’Italia al Parlamento Europeo (Lista dei Comunisti Italiani nella circoscrizione nord-ovest) ed è stato vicepresidente della Commissione per gli affari esteri, della Sottocommissione per la sicurezza e la difesa, della Delegazione per le relazioni con i paesi dell’America Centrale, tra cui il regime cubano, e della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo, tra cui lo Yemen.

Considerato che in Corea del Nord si commettono crimini contro l’umanità da decenni … senza parole.

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Iran, Turchia e gli errori di Israele

16 Nov

Mentre l’Europa, distratta e pacifista, si dibatte discutendo d’Euro, di debito sovrano e di declino nazionale, dall’altro lato del Mediterraneo si sta assistendo ad una rapida escalation del “problema israeliano”.

Si, “problema israeliano”, come lo percepiscono oltre un miliardo di islamici, anche detto “problema palestinese” da parte di circa 700 milioni di euro-americani e, naturalmente, gli israeliani.

In realtà, non me ne vogliano i sionisti “puri e duri”, il Medio Oriente è “di per se” conformato per essere gestito da un’autorità sovranazionale: è un impianto infrastrutturale che si perde nella notte dei tempi. Basti dire che, a ben guardare le mappe, nessuno degli stati di quei territori, ad eccezione di Turchia e Libano, può dirsi “autosufficiente”.

Ritornando alla “questione israelo-palestinese”, non possiamo trascurare che, nel 1947, gli Inglesi erano mossi da motivazioni umanitarie e non sioniste, quando concessero il permesso all’esodo in Palestina, e che l’ONU, nel 1967, fissò una ragionevole e negoziabilissima linea di demarcazione che Israele non ha mai rispettato, in ragione della necessità di difendersi dai terroristi.

Eppure, se entriamo nel campo del diritto internazionale, la Gran Bretagna non ha mai “allargato” i confini dell’Ulster, per creare una “fascia di protezione” contro i terroristi dell’IRA, che, proprio negli stessi anni, arrivavano dalle basi collocate nella repubblica irlandese. Come anche va sottolineato che i palestinesi di religione cristiana, che terroristi non sono, subiscono lo stesso trattamento degli islamici, i cui correligiosi hanno commesso stragi.

Vicende che, attenzione, sono state condannate anche da molti ebrei atei o cristiani, come, ad esempio, quelli che militano nei partiti della sinistra europea, oltre che da tanti giovani israeliani.

Ed, così andando le cose, arriviamo ai nostri giorni, quelli “in cui il governo israeliano discute i piani d’attacco ai reattori nucleari di Ahmadinejad”, come riporta il Corriere della Sera. Un’idea veramente folle, se consideriamo le ricadute internazionali, oltre che interne.

Se Israele attaccasse l’Iran, le reazioni di Hamas ed Hezbollah, con il conseguente carico di autobombe e di razzi homemade, rappresenterebbero l’aspetto più gestibile dell’impresa.

Infatti, Israele dovrà attendersi una reazione della Cina Popolare, non militare e non immediata come da tradizione orientale, ma è evidente che i cinesi non dimenticherebbero una tale “affermazione di potenza” da parte di Israele nè sottovaluteranno un’azione immotivata e unilaterale verso l’Iran, che è un alleato strategico di Pechino e che reclama il diritto a dotarsi di un’atomica, visto che ce l’hanno Israele, Russia, Pakistan, India e Cina.

In secondo luogo, un attacco senza preavviso trasformerebbe Siria, Irak, Afganistan e Pakistan in una polveriera, con il possibile risultato di unire gli integralisti sciiti e sunniti.

E nulla è dato sapere su come reagirebbero le democrazie ed i mercati europei.

Ma il male peggiore arriverebbe dalla reazione di Libia, Egitto, Tunisia eccetera, dove i Day of Rage hanno abbattuto tiranni e ribadito la legge islamica entro, per ora, i limiti di uno stato laico come avviene in Turchia, che è la potenza, industriale e militare, del Medio Oriente.

Gi attriti tra Ankara e Tel Aviv sono ormai quotidiani, le basi aeree turche  sono ai confini del Libano, a pochi minuti di volo dagli obiettivi, mentre la marina potrebbe garantire addirittura uno sbarco in forze, ad esempio a Gaza.

Senza contare il fatto che la reazione iraniana arriverebbe comunque, probabilmente sotto forma di attentato, e che, per cancellare lo stato di Israele, basterebbe rendere radioattiva la città di Tel Aviv, cosa minacciata più volte da quel pazzo di Ahmadjinejad.

Una Turchia, rifiutata dall’Europa, che ha un esercito con addestramento ed armamenti NATO, la quale, senza ricorrere a scenari apocalittici, potrebbe sospendere l’enorme fornitura di acqua potabile con cui serve Israele, visto cosa accadrebbe nelle moschee di tutto il mondo se venissero attaccate le centrali nucleari a nord di Tehran.

Infine, il mondo intero, che difficilmente perdonerebbe chi avesse dato lo start up ad un conflitto regionale di tale portata.

Israele deve fermarsi ed accettare che, con buona pace di integralisti e sionisti, l’idea di un “dio” che predilige popoli e nazioni è minoritaria e contestabilissima: la divisione dei territori deve essere “laica” e non “integralista”, da ambo le parti.
E’ anche inaccettabile l’idea di “guerra preventiva”, enunciata da Moshe Dayan e realizzata, malamente davvero, da George Walker Bush: produce un’enorme quantità di martiri e di eroi.

Le premesse di una guerra si combattono con l’ipotesi di una pace e questo non significa essere pacifisti, ma semplicemente ricordare che c’è un tempo per le armi ed un altro per le parole, come anche che uno stato assediato non è uno stato libero, nè verso l’interno nè verso l’esterno.

Quanto al futuro, il vero “nemico” dell’isolazionismo di Israele è la Turchia, visto che il Medio Oriente ha bisogno di un’autorità sovrannazionale “laica” che possa garantire la pacifica convivenza di islamici, ebrei e, non dimentichiamolo, cristiani.

Sarà lo stesso sogno cosmopolita degli ebrei dei ghetti, quello che sta trainando la globalizzazione mondiale e che accomuna i giovani di tutto il mondo su internet, a sconfiggere, prima o poi, l’isolazionismo sionista, oltre che l’integralismo islamico.

Medio Oriente: arriva la Pace?

24 Set

Abu Mazen, in nome del popolo palestinese, ha chiesto all’ONU il riconoscimento di uno Stato di Palestina, che possa avviare i colloqui diretti di pace con Israele.
I palestinesi esultano nelle piazze, a casa loro, in Israele e nel mondo, arriva la Pace.

La Pace? Per ora proprio no.

20.000 poliziotti israeliani ed altrettanti militari sono dislocati in Cisgiordania in stato di massima allerta e questo durerà almeno fino alla fine del Capodanno ebraico.
Ci si prepara al bagno di folla (e di sangue) previsto per il ritorno di Abu Mazen in patria, nella settimana prossima.
L’entusiasmo è un potente movente e non è improbabile che ci saranno morti tra incidenti, infortuni, scontri ed azioni isolate.
Le forze di sicurezza israeliane e palestinesi sono state attivate in forze proprio per contenere queste situazioni e prevenire un’escalation.

Non è un caso che a Gaza, invece, sia tutto fin troppo tranquillo, perchè Hamas non approva l’iniziativa di Abu Manzen, che sarebbe andato alle Nazioni Unite “per mendicare uno Stato” e che sarà “costretto rinunce rispetto agli interessi nazionali dei palestinesi”.
Oppure che nei territori occupati, come nelle colonie ebraiche di Kusra ed Hebron, sono ore di massima tensione e già si contano 4 morti, due adulti e due bambini, due ebrei e due palestinesi.

Nessun vincitore …

(leggi anche Palestina-Israele: il ciclo dell’odio)

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Palestina-Israele: il ciclo dell’odio

24 Set

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un’enorme quantità di coloni ebrei si trasferì nello Protettorato di Palestina, partendo dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, dove erano approdati in fuga dalla Germania, dai Paesi dell’Est, dalla Francia e dall’Olanda.

Miliioni di europei, come gli invasori crociati, ebrei, come i traditori biasimati da Maometto: una premessa esplosiva.

Le premesse, tra l’altro, furono diverse: da un lato la “promessa”, più americana che inglese, per la creazione di uno stato sionista, dall’altra la politica interna britannica che non sapeva cosa fare di quei milioni di rifugiati, che avevano accolto per quasi dieci anni durante gli orrori del Nazismo.

Chi di noi può immaginare cosa fosse il melting pot siriano post grecofenicio post bizantino post cristiano post musulmano di quel Medio Oriente degli Anni ’30 che fa da sfondo ai film di Indiana Jones?

Di sicuro, convivevano pacificamente.

Quanto sarebbe ancor più splendida oggi la città dei Pellegrini ancora affidata agli antichi e pacifici “consegnatari” (da parte di Gesù-Jahvè-Allah, naturalmente).

Non è andata così e dopo 60 anni dobbiamo constatare che è il luogo sulla Terra dove si sono verificati più conflitti che altrove.

Molti di più, quasi quotidianamente.

Le politiche militari, da ambo le parti, non hanno prodotto alcun miglioramento territoriale, se non a favore della popolazione ebraica edhanno compresso le rispettive fasce di sicurezza e reso invivibili aree che lo erano.

Nella cieca retorica dei belligeranti, nè le popolazioni nè i leader si sono accorti dell’inutilità “de facto” di tutti i tentativi di “eliminare” l’avversario.

Il mondo non si è fermato nel 1947, come avvenuto in Palestina, quando tutto ebbe inizio con un gruppo di sionisti (cosa diversa da Ebrei o da Israele) arrivati dall’Europa (la “Banda Stern”) che si mise in testa di scacciare gli Inglesi alla maniera dell’IRA in Irlanda, invece di integrarsi nel contesto che li accoglieva benevolmente: arrivarono a far esplodere un albergo di Gerusalemme dove risiedevano i corrispondenti e gli attaché britannici per la Palestina.

E’ quella strada che ha portato, oggi,  i nipoti di persone scacciate dalle case che avevano costruito con le proprie mani, a mandare madri di famiglia a farsi esplodere tra i ragazzini.


E’ esclusivamente per fare un consuntivo dell’annosa questione che vale la pena di ricordare i principali “fatti militari” che hanno coinvolto Israele e Palestina da allora.

  • 1948 Prima guerra arabo-israeliana
  • 1951 Guerra siro-israeliana ed occupazione militare di Gerusalemme
  • 1956 Seconda guerra arabo-israeliana “di Suez”
  • 1967 Terza guerra arabo-israeliana “dei Sei Giorni”
  • 1973 Quarta guerra arabo-israeliana “del Kippur”
  • 1978-1983 Guerra civile libanese
  • 1987 Rivolta di Gaza (Prima Intifada)
  • 2001 Intifada di  al-Aqsa
  • 2002 Assalto ed assedio della sede dell’Autorità Palestinese a  Ramallah
  • 2004 Elicotteri israeliani sparano 4 missili contro manifestanti a Rafia alla frontiera con l’Egitto
  • 2006 Attacco contro gli Hezbollah (scarsi risultati) e vasta devastazione del Libano
  • 2008-09 Bombardamento e rastrellamento di Gaza (per ora almeno 500 di morti  e diverse migliaia di feriti tra la popolazione civile)

Diversi dati sono evidenti:

– la degenerazione del conflitto con il coinvolgimento sempre più feroce o brutale della popolazione civile, come a Gaze due anni fa circa, dato che nè lo Stato israeliano nè l’Authority palestinese hanno il controllo della situazione nè sono in grado di conseguirlo

– la progressiva indisponibilità, per la parte araba della popolazione certamente più esposta, a recepire gli eventi fuori da  un quadro millenaristico e jiadista, con il conseguente imbarbarimento dei metodi di lotta e di indottrinamento

– l’incapacità, da parte di Israele, a perseguire soluzioni diverse dall’intervento militare con armamenti pesanti e, soprattutto, utili a favorire, a permettere la nascita di un Governo e di uno Stato Palestinese.

Nelle future, si spera, negoziazioni sarà fondamentale capire cosa sarà dei territori che Israele ha occupato illegalmente, dato che erano riservati alle Nazioni Unite (Gerusalemme, campi profughi, zone smilitarizzate).

La nuova fase che porta Abu mazen all’ONU, si è avviata, ricordiamolo, anche grazie all’incombente Tribunale per i criminidi guerra dell’Aja, in relazione ai fatti di Gaza, ed alla ripresa della linea clintoniana alla Casa Bianca, che aveva già dato successiin passato.

Vedremo come andrà e vedremo se una ridotta armata europea, su mandato ONU, potrà intervenire in Palestina a separare i contendenti, visto che gli Israeliani proprio non potrebbero attaccarli e che i Palestinesi già guardano a noi e ci accoglierebbero come hanno fatto i loro cugini Libanesi.

La Filistina, insieme alla vichinga Helgoland e alla celtica Stonenghe, è la terra d’origine anche degli Europei, greci o fenici che fossero, non solo degli Ebrei.

Siamo coinvolti molto più di quanto vorrebbero i Governi di mezza Europa ed i pacifisti israelo-palestinesi guardano a noi.

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