Il Consiglio nazionale ad interim di transizione è la guida politica della Coalizione della Rivoluzione del 17 febbraio, nata in seguito alle sommosse popolari in Libia contro il regime di Gheddafi.
Il manifesto politico del Consiglio, “Visione per una Libia democratica”, chiede una nuova costituzione, libertà di associazione, di opinione e di stampa, pluralismo e tutela delle minoranze; libere elezioni e separazione dei poteri, superamento delle discriminazioni di genere, colore, razza o posizione sociale, nuove relazioni lotta al terrorismo.
Nulla di inquitante, tutto sacrosanto e legittimo, ma il Consiglio Nazionale Libico è stato riconosciuto solo da Italia e Francia. Eppure, è composto da 31 membri, governa le regioni liberate dalla Rivoluzione, si è riunito la prima volta a Beida il 24 febbraio 2011, i leader noti sono Mustafa Abdul Jelil (ex ministro della difesa ed attuale Segretatio Generale), Abdul Hafiz Ghoga (ex ministro degli esteri ed attuale Vicesegretario generale e portavoce), Omar el-Hariri, Alì Tarhuni, Alì el-Essaui.
Con loro ci sono Fathi Mohammed Baja e Abdul Ilah Moussa al-Meyhoub (noti intellettuali democratici), Fathi Tirbil Salwa e Salwa al-Dighaili (attivisti dei diritti civili),
Il primo dei (presunti) problemi è che Mustafa Abdul Jelil e Abdul Fatah Younis (ex ministro degli interni), pur essendo dei “traditori del regime”, appartengono al gruppo tribale di Omar Mokhtar El-Hariri, eroe della rivoluzione antimonarchica di Gheddafi e poi, nel 1975, leader del primo tentativo di rovesciamento del Raiss. Attualmente è il leader militare della “nuova” Libia, dopo 15 anni di carcere duro, dal 1975 al 1990, e 20 di arresti domiciliari: una sorta di Nelson Mandela della Cirenaica.
Certo, non sono l’ideale per le “big companies” che già erano alla “Fase 4″ ed avevano acquistato il petrolio del 2030.

Di tutt’altra pasta sembra essere il colonnello Khalifa Haftàr (o Hifter), indicato da McClatchy Newspapers come “leader dell’opposizione”, che il Washington Post del 26 marzo del 1996 indicava come “leader di un Lybian National Army” con base in USA e che, durante gli ultimi 20 anni, avrebbe vissuto in un sobborgo di Norfolk in Virginia, dopo essere stato catturato in Ciad ed aver disertato nel National Front for the Salvation of Libya.
Un’organizzazione, il NFSL, che nel 1984 fallì il tentativo di uccidere Gheddafi e guidata oggi da Ibrahim Abdulaziz Sahad, fortemente “voluta” dai sauditi e dagli statunitensi, come afferma il “libro bianco” Manipulations africaines, pubblicato da Le Monde diplomatique nel 2001, che indica il NFSL come “sostenuto dalla CIA”. Nonostante sia indicata come la principale organizzazione politica, poco si sa del National Conference for the Libyan Opposition, “braccio politico” del NFSL composto da esuli libici in Inghilterra e USA, e non sembra essere questo il circuito di riferimento per Mahmud Jibril, oggi a capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale.

Un battitore libero, economista, esperto in governance strategica, con un master in scienze politiche presso l’Università di Pittsburg. Mahmoud Jibril è l’uomo che ha ottenuto il riconoscimento diplomatico dei francesi e degli italiani, dopo essere stato un esperto della Monitor Group inc, (la “think tank enteprise” della Harward University di Cambridge, nel Massachussets), è rientrato in Libia nel 2007, con lo “sdoganamento” internazionale di Gheddafi, che lo pose a capo del National Economic Board che promuoveva rapporti con aziende globali.
Il timore principale degli osservatori è nell’incognita “del dopo”, in un paese dove un terzo della popolazione libica è affiliata o affine alla confraternita dei Senussi, che ebbero la corona libica nel 1951 con Idrīs I, che hanno sempre avuto un atteggiamento strumentalmente filo-britannico (come i “cugini” wahabiti d’Arabia) e che furono fieri antagonisti della colonizzazione italiana. Non a caso Omar Mukhtar, il capo ribelle impiccato nel 1931 dagli Italiani, era uno di loro, come lo era Sharif El Gariani, anziano cofondatore della confraternita (Al Bayda 1844) e principale intermediario proprio con gli italiani. Ahmed al-Zubair Ahmed al-Sanusi è l’ultimo leader senussi in vita nel territorio libico, ma, rilasciato nel 2001, è fisicamente distrutto da 31 anni di carcere duro ed isolamento.

La Sanusiya è una “tariqa” (ndr. confraternita) fondata agli inizi dell’800 dallo sharif Muḥammad ibn ʿAlī detto al-Sanūsī, appartenente alla tribù dei Awlād Sīdī ʿAbd Allāh, discendenti di Fāṭima figlia di Maometto, e propone un culto influenzato dalla visione spirituale salafita, che alimenta Al Quaeda in Magreb. In realtà, si tratterebbe di un movimento sostanzialmente moderato: niente fanatismo, niente obbedienza cieca alle madrasse ed agli ulema, bensì “ijtihād”, ovvero ricerca e determinazione personale.
Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti, si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.
Chi non è mio nemico, è mio amico? Forse.
Resta solo il dato, piuttosto allarmante, dimostrato da uno studio del 2007, pubblicato dall’Accademia Militare di West Point, che evidenzia l’elevato numero di jihadisti in Irak provenienti dalla Cirenaica (Bengasi e Derna), reclutati dai militanti del Libyan Islamic Fighting Group, fondato nel 1985 da reduci della resistenza afgana, attualmente diretto da Anas Sebai.

Nel 2003 si stimava che i membri attivi fossero del LIFG fossero un centinaio con 2-3mila simpatizzanti, nel 2005 l’organizzazione divenne formalmente parte di “Al Quaeda in Maghreb” ed oggi i suoi sostenitori potrebbero essere diventati di più, grazie all’infiltrazione jihadista nella comunità dei Senussi fortemente radicata a Derna, Bengasi e Rimal ed alla disponibilità di armi saccheggiate.

E’ questo il dato che allarma gli analisti e che ispira prudenza nel supportare gli insorti.
E’ anche vero che, animate dall’originario “spirito beduino” o meno, qualche centinaio di teste calde dovranno pur sempre esserci, sotto il sole del Sahara come del Nevada, e, soprattutto, che una rivoluzione non è affatto un pranzo di gala.
leggi anche Libia, petrolio e guerra,
“La guerra ingiusta”
e “Massacri libici, affari italiani”
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