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Chi sarà il candidato Presidente del PD

26 Gen

L’elezione del Capo dello Stato richiede, dalla terza seduta in poi, 505 dei 1009 voti espressi da 630 deputati, 320 senatori (315 eletti, 5 a vita) e 58 delegati delle Regioni (art. 83 Costituzione).

I ‘numeri’  collocano il Gruppo Parlamentare del PD in testa (407) seguito dal Centrodestra (234), M5S (143), Autonomie (51), Lega (35), Scelta Civica (34) e SEL (33), in fine il Gruppo Misto (23).
In poche parole, il PD ha da scegliere se trovare un’accordo interno per un nome ricevibile dal Centrodestra ed eleggere il presidente a grandissima maggioranza oppure se correr dietro alle ‘sirene greche’, affrontare l’incubo dello scisma e, soprattutto, votare lo stesso quel candidato, ma in condizioni paritetiche con gli alleati …

Ed i fronti interni non sono quelli che  leggiamo sui giornali, la questione non è se essere più o meno veterocomunisti democratici o più modernamente cattopostcomunisti, nè si tratta di pendere per le Coop (travolte dalle collusioni mafiose in troppe città) o per la ‘base operaia’, che ormai segue Landini e Marchionne.

Il primo fronte è quello ‘interno, nazionale’ dei ‘baby boomers’ – i nati tra il 1948 ed il 1955 – che gli italiani chiamano ‘ex sessantottini’ e che da una ventina d’anni fanno il bello e il cattivo tempo a nostre spese. Convinti di essere portatrice di in un futuro migliore e intendono somministracene ulteriori dosi, proponendosi a 70 anni come vestali del nostro futuro.
L’altro è quello ‘internazionale’ che ha già iniziato da tempo ad affidare il futuro ai cinquantenni di oggi, vedasi Merkel, Obama o John Ellis Bush, Valls, Cameron.  Una posizione che – destra o sinistra che sia – trova forte radicamento a livello popolare e tra i comparti tecnico-esecutivi, ma non offre figure gradite all’oligarchia cattocomunista italiota. E’ una compagine che ‘parla un’altra lingua’, figlia della genetica, dell’archeologia, della storia, dell’organizzazione umana riscritte negli Anni 80-90′, dopo i pregiudizi ed i luoghi comuni diffusi dalla kultura Anni ’60-70′.

In pratica, l’Italia deve affrontare lo stesso bivio dinanzi al quale si trovò la CEI quando si trattò di eleggere Karol Woytila al papato, facendo un passo indietro rispetto alle secolari logiche romanocentriche, e dinanzi al quale si è trovato il Vaticano intero nello scegliere un gesuita cosmopolita come moralizzatore di Roma.

Lo ‘stato delle cose’ lascia pochi nomi alla ribalta, a meno che il PD scelga una via disastrosa, cedendo a chi vorrebbe uno dei ‘soliti noti’ a presiedere il Quirinale, magari sbarrando la strada ad innovazione, semplificazione ed equità generazionale per altri sette anni.

L’estremo tentativo di un mondo che si regge solo su proroghe dell’età pensionabile e mandati elettivi già esauriti, come sul consenso di alcune zone dello Stivale,  beneficiate dall’Unificazione italiana, è Sergio Chiamparino (Moncalieri, 1948), ex alpino, presidente della Regione Piemonte dal 9 giugno 2014, esperto di  ristrutturazioni industrial fin dal 1975 e responsabile del Dipartimento Economico del PCI di Torino dal 1982.
Contro di lui, per non chiariti motivi, la sinistra PD di cui Stefano Fassina ricorda che “il nuovo Presidente dovrebbe garantire autonomia, esperienza, conoscenza delle dinamiche parlamentari e autorevolezza”, ovvero non il ‘compagno’ Chiamparino che non è mai stato parlamentare. Idem Raffaele Fitto, di Forza Italia: “Puntiamo ad un capo dello Stato autonomo, autorevole, e che non sia necessariamente espressione della sinistra”.

L’uomo che meglio raccoglie ‘il nuovo che non avanza, ma doveva esser già qui’ è Paolo Gentiloni, ex editore di ‘Nuova Ecologia’ e per anni parlamentare europeo e compnente delle Commissioni Ambiente ed Esteri dell’Unione Europea. Poco conosciuto in Italia, fuori dalla sua città natale, Roma, è stato l’uomo che forse più di tutti ha tutelato gli interessi energetici dell’Italia ed il suo upgrade tecnologico.
Ed, infatti, Gianni Cuperlo, parlamentare ed ex presidente del Pd, ha dichiarato “mi auguro che ci sia una proposta unitaria, seria, autonoma” da parte del suo partito e Gentiloni è un liberale di nobile famiglia, esponente del ‘mondo laico’ a partire da Bonino e Rutelli.

Tra i due fronti va a comporsi il tezo nome: Dario Franceschini, cinquantenne, proveniente dall’esperienza giovanile dei Cristiani per il Socialismo e delle Acli, sempre ‘apart’ rispetto all’oligarchia sindacal-cooperativa e spesso dimenticato dalla stampa ‘amica’. Ottimo mediatore e persona di cultura, cattolico populista e non operaista, può essere il punto di incontro raggiungibile o … già raggiunto, visto che è l’unico che rientra nei ‘parametri di veto’ delle due componenti ‘old school’ del PD, salvo che non tirino fuori dal cappello al cilindro un settantenne as usual … o, perchè no, Walter Veltroni, l’ex sindaco di tutti … non sgradito a Berlusconi.

Aggiunto che Mario Draghi ha annunciato i ‘Bot europei’ prima e non dopo le elezioni greche ed italiane, potrebbe addirittura accadere qualcosa di sensato nel Paese degli Acchiappacitrulli, ovvero che PD (407) più Centrodestra (234), con Autonomie e Scelta Civica (85) riescano a convergere ed eleggere il Presidente entro le prime tre sedute.

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Chi sarà il Presidente secondo i numeri e … buon senso

25 Gen

L’elezione del Capo dello Stato richiede, dalla terza seduta in poi, 505 dei 1009 voti espressi da 630 deputati, 320 senatori (315 eletti, 5 a vita) e 58 delegati delle Regioni (art. 83 Costituzione).

I ‘numeri’  collocano il Gruppo Parlamentare del PD in testa (407) seguito dal Centrodestra (234), M5S (143), Autonomie (51), Lega (35), Scelta Civica (34) e SEL (33), in fine il Gruppo Misto (23).
In realtà, a causa della gravissima situazione interna e delle pressioni della CGIL, è difficile che il PD possa garantire molto più di 300 voti, in un senso o nell’altro, e senza i ‘numeri’ del secondo aggregato parlamentare, il Centro Destra ancora dominato da Berlusconi, diventerebbe possibile qualsiasi colpo di mano.

Se i ‘numeri’ sono la conditio sine qua non per qualsiasi elezione e determinano dei ‘eprcorsi obbligati’, i  fronti possono essere più variegati.
Il primo fronte è quello ‘nazionale’ dei ‘baby boomers’ – i nati tra il 1948 ed il 1955 – che gli italiani chiamano ‘ex sessantottini’ e che da una ventina d’anni fanno il bello e il cattivo tempo a nostre spese. Gente che era convinta di essere portatrice di in un futuro migliore e intende somministracene ulteriori dosi.
L’altro è quello ‘internazionale’ che ha già iniziato da tempo ad affidare il futuro ai cinquantenni di oggi, vedasi Merkel, Obama o John Ellis Bush, Valls, Cameron.  Una posizione che – destra o sinistra che sia – trova forte radicamento a livello popolare e tra i comparti tecnico-esecutivi, ma non offre figure gradite all’oligarchia cattocomunista italiota.

In pratica, l’Italia deve affrontare lo stesso bivio dinanzi al quale si trovò la CEI quando si trattò di eleggere Karol Woytila al papato, facendo un passo indietro rispetto alle secolari logiche romanocentriche, e dinanzi al quale si è trovato il Vaticano intero nello scegliere un gesuita cosmopolita come moralizzatore di Roma.

Lo ‘stato delle cose’ lascia pochi nomi alla ribalta, a meno che il PD scelga una via disastrosa, cedendo a chi vorrebbe uno dei ‘soliti noti’ a presiedere il Quirinale, magari sbarrando la strada ad innovazione, semplificazione ed equità generazionale per altri sette anni.

L’estremo tentativo di un mondo che si regge solo su proroghe dell’età pensionabile e mandati elettivi già esauriti, come sul consenso di alcune zone dello Stivale,  beneficiate dall’Unificazione italiana, è Sergio Chiamparino (Moncalieri, 1948), ex alpino, presidente della Regione Piemonte dal 9 giugno 2014, esperto di  ristrutturazioni industrial fin dal 1975 e responsabile del Dipartimento Economico del PCI di Torino dal 1982.
Contro di lui, per non chiariti motivi, la sinistra PD di cui Stefano Fassina ricorda che “il nuovo Presidente dovrebbe garantire autonomia, esperienza, conoscenza delle dinamiche parlamentari e autorevolezza”, ovvero non il ‘compagno’ Chiamparino che non è mai stato parlamentare. Idem Raffaele Fitto, di Forza Italia: “Puntiamo ad un capo dello Stato autonomo, autorevole, e che non sia necessariamente espressione della sinistra”.

L’uomo che meglio raccoglie ‘il nuovo che non avanza, ma doveva esser già qui’ è Paolo Gentiloni, ex editore di ‘Nuova Ecologia’ e per anni parlamentare europeo e compnente delle Commissioni Ambiente ed Esteri dell’Unione Europea. Poco conosciuto in Italia, fuori dalla sua città natale, Roma, è stato l’uomo che forse più di tutti ha tutelato gli interessi energetici dell’Italia ed il suo upgrade tecnologico.
Ed, infatti, Gianni Cuperlo, parlamentare ed ex presidente del Pd, ha dichiarato “mi auguro che ci sia una proposta unitaria, seria, autonoma” da parte del suo partito e Gentiloni è un liberale di nobile famiglia, esponente del ‘mondo laico’ a partire da Bonino e Rutelli.

Tra i due fronti va a comporsi il tezo nome: Dario Franceschini, cinquantenne, proveniente dall’esperienza giovanile dei Cristiani per il Socialismo e delle Acli, sempre ‘apart’ rispetto all’oligarchia sindacal-cooperativa e spesso dimenticato dalla stampa ‘amica’. Ottimo mediatore e persona di cultura, cattolico populista e non operaista, può essere il punto di incontro raggiungibile o … già raggiunto, visto che è l’unico che rientra nei ‘parametri di veto’ delle due componenti ‘old school’ del PD e del Centrodestra, salvo che non tirino fuori dal cappello al cilindro un settantenne as usual.

Aggiunto che Mario Draghi ha annunciato i ‘Bot europei’ prima e non dopo le elezioni greche ed italiane, potrebbe addirittura accadere qualcosa di sensato nel Paese degli Acchiappacitrulli, ovvero che PD (407) più Centrodestra (234), con Autonomie e Scelta Civica (85) riescano a convergere ed eleggere il Presidente entro le prime tre sedute.

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Napolitano lascia: i nomi dei papabili

1 Gen

Giorgio Napolitano lascia e le Camere riunite – le stesse che fallarono nel gennaio 2013 – dovranno eleggere un nuovo Presidente per l’Italia.

Per ccapire come andranno le cose e non farsi attrarre da ipotesi desuete, va innanzitutto precisato che, allo stato attuale, i Gruppi Parlamentari sono così divisi:

Alleanze voto presidenziale 1

Dunque, se l’obiettivo è superare la soglia dei 504 voti, le alleanze che potranno credibilmente sostenere un candidato sono le seguenti, con i colori dal rosso al verde che evidenziano quali candidature potrebbero essere indebolite da più o meno rilevanti fazioni, resistenze e defezioni interne dei partiti, in particolare nel PD.

Alleanze voto presidenziale a1

In parole povere, se il candidato stesse bene ad Alfano & co. ci sarebbero buone possibilità di essere eletto, mentre, se il Centro Destra fosse fuori dai giochi, PD e alleati dovrebbero essere assolutamente compatti, anzichè -come da tradizione – dibattersi tra mille anime e una dozzina di nomi per convergere su quello solitamente più sgradito alla restante parte degli italiani.

Detto questo, ci sono i nomi dei potenziali candidati, a seconda che del buon senso o dello spirito di fazione che ispirano chi li propone.
Alcuni sarebbero ‘impossibili’ in un paese normale per limiti di età o per conflitti di interessi – se non scandali in famiglia – come anche l’aver mai commesso gravi errori politici o emanato norme inique. Altri, invece, potrebbero avere le carte in regola e vedremo quali.

I FEDELI ALLA LINEA

Walter Veltroni, il sindaco che lasciò Roma con miliardi di debiti, migliaia di interventi manutentivi inevasi come di operatori dei servizi esternalizzati poi rimasti disoccupati, milioni di multe poi demandate ad Equitalia, decine e decine di norme o regolamenti nazionali ed europei inevasi … più qualche cooperativa e qualche okkupazione di troppo.

Romano Prodi, lo smantellatore dell’industria manifatturiera (IRI) che oggi rimpiangiamo e l’inventore della Cassa integrazione (Maserati) che oggi malediciamo, l’economista che  – tra il 2007 e il 2008 quando era al governo – incrementò ulteriormente la spesa pubblica narrando di un ‘tesoretto’ che ‘deficit’ era, il politico del ‘si può fare’, dell’Eurozona delle banche e della Costituzione europea che nessuno ha adottato, il premier che pretese la spedizione militare italiana in Libano

Giuliano Amato, ex  sottosegretario alla Presidenza del consiglio nei due governi Craxi I e Craxi II, ex presidente del Consiglio, che approvò, l’11 luglio 1992, un decreto legge da 30.000 miliardi di lire (retroattivo al 9 luglio) per il prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti bancari degli italiani, ex  ministro dell’Interno ha impartì per primo a tutti i prefetti e sindaci italiani la disposizione di non trascrivere i matrimoni gay celebrati all’estero, perché considerati contrari all’ordine pubblico, autore della riforma delle pensioni del 1992 che salvaguardò le pensioni d’oro, escluse i nati prima del 1950 dall’introduzione del regime contributivo, dimenticò milioni di invalidi

Piero Fassino, nipote di uno dei fondatori del Partito Socialista Italiano, figlio del comandante della 41ª brigata partigiana Garibaldi, laureatosi a 49 anni in Scienze Politiche, del quale il 31 dicembre 2005 il Giornale pubblicava stralci di un’intercettazione telefonica – illegittima perchè coperta da segreto – in cui Fassino chiedeva a Giovanni Consorte, manager della Unipol e all’epoca coinvolto nello scandalo di Bancopoli: «E allora siamo padroni di una banca?»

Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte ed una vita nel PCI, stop. In un Partito Democratico che vola basso, la pertinacia è la prima dote necessaria a Torino, ma a Roma … non basta..

Graziano Del Rio, medico endocrinologo, cattolico praticante, nove figli, dal 2013 ai vertici dei governi Letta e Renzi, ex  consigliere regionale dell’Emilia-Romagna ed ex sindaco di Reggio Emilia (la patria della famiglia Prodi) eletto al primo turno con il 63,2% dei voti, ex presidente dell’Associazione dei Comuni. Potrebbe risultare l’esponente giusto per la ‘provincia profonda’ italiana largamente rappresentata in Parlamento.

GLI IMPROBABILI

Pier Carlo Padoan, ex direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale, ex vice segretario generale ed ex capo economista dell’OCSE, poco carismatico Ministro dell’Economia e delle Finanze del Governo Renzi. Rappresenterebbe una regressione del Paese all’esperienza della Presidenza Ciampi

Piero Grasso, presidente del Senato, ex magistrato, noto anche per le sue controverse frasi verso i magistrati antimafia Caselli, Falcone e Borsellino e Anna Finocchiaro, anche lei magistrato, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, il cui marito, Melchiorre Fidelbo, è stato rinviato a giudizio nel processo per l’affidamento senza gara dell’appalto per l’informatizzazione del Presidio territoriale di assistenza (Pta) di Giarre. Nel processo è stato coinvolto anche il  senatore PD Antonio Scavone, nominato – mesi fa – dal presidente del Senato Pietro Grasso come componente della commissione di vigilanza Rai, azienda partecipata dallo Stato, pur essendo rinviato a giudizio con l’accusa di truffa aggravata ai danni dello Stato e abuso d’ufficio. Difficile che uno dei due pervenga ad una carica che gli faccia anche presiedere il CSM.

Pierferdinando Casini, ex presidente della Camera e attuale presidente della Commissione esteri del Senato, marito della ricchissima Azzurra Caltagirone, ex strenuo sostenitore di Mario Monti ed Elsa Fornero. Eterno ‘piano B’ del Centrismo italiano.

Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, ex governatore di Banca d’Italia, ex consulente di Goldman Sachs. L’unico che in questi ultimi dieci anni ha dimostrato di amare l’Italia e saper tenere la barra al centro, pecccato sia altrove impegnato.

I PAPABILI

Luigi Zanda, ex Margherita, capogruppo del Pd a Palazzo Madama, ex consigliere di amministrazione del gruppo editoriale L’Espresso con Eugenio Scalfari, ex segretario-portavoce di Francesco Cossiga al Ministero dell’Interno (1976-1978), ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, concessionario dello Stato per gli interventi di riequilibrio ambientale e di difesa di Venezia e della sua laguna, ex presidente di Lottomatica, ex presidente ed amministratore delegato dell’Agenzia romana per la preparazione del Giubileo del 2000, ex Consigliere di amministrazione della RAI. Mai coivolto in scandali

Marta Cartabia (14 maggio 1963), autorevole docente e costituzionalista italiana, giudice costituzionale dal 2011. Esperta di diritto europeo, forse l’unica che potrebbe portare l’Italia alle riforme dell’infrastruttura normativa e della giustizia evitando lacci e lacciuoli

Dario Franceschini, ex Margherita, Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, figlio di un partigiano cattolico poi deputato per la Democrazia Cristiana , è in politica dall’età di 16 anni. Una faccia pulita che potrebbe risultare gradita a gran parte dei partiti

Paolo Gentiloni, neoministro degli Affari Esteri, discendente della famiglia dei conti Gentiloni Silverj, ex direttore del mensile “La Nuova ecologia”, ex portavoce del sindaco di Roma Francesco Rutelli ed antagonista di Ignazio Marino alle scorse Primarie romane. Il volto dell’Italia che attende di cambiare da venti anni e passa

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Tagli alla Rai, Grillo contro Renzi. Ma c’è qualcosa da sapere

19 Mag

Consultando la Guida Rai scopriamo che ha 15 canali televisivi in chiaro e sei radiofonici.
Sono Rai1, Rai2, Rai3, Rai4, Rai5, RaiMovie, RaiPremium, RaiGulp, RaiYoYo, RaiStoria, RaiScuola, RaiNews24, RaiSport1, RaiSport2, Rairadio1, Rairadio2, Rairadio3, Rai Isoradio, Rai GR Parlamento, Raiweradio6, Raiwebradio7, Raiwebradio8.

Ma quella che tutti credono essere la televisione commerciale di Stato italiana è una società per azioni, concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo in Italia, i cui rapporti sono regolati da una convenzione triennale che scadrà il 6 maggio 2016. È una delle più grandi aziende di comunicazione d’Europa, il quinto gruppo televisivo del continente a corrispettivo di ampia fascia  della popolazione italiana che vede quasi solo Rai e non ha mai navigato su internet.

Sulla piattaforma digitale terrestre in chiaro, i canali del gruppo Rai ottengono il 6,78% di share, mentre i canali del gruppo Mediaset il 6,51%; nella piattaforma satellitare, invece, Rai quasi ‘scompare’ e i gruppi preferiti sono Discovery (5,43% nelle 24 ore), Sky (4,99%), Fox (1,64%).
Semimonopolista a casa propria, un nano in termini internazionali.

Lo sperato accesso al ‘mondo’ tramite l’upgrade satellitare è venuto meno, in questi vent’anni, per la carenza di una produzione autonoma di cartoon, di documentari, di serie televisive avvincenti, di un reale supporto alla musica italiana, che anche su Youtube ha una presenza ‘povera’.

Radio Televisione Italiana Spa è un’azienda prettamente romana, con sedi in ogni capoluogo di regione e provincia autonoma e un vasto numero di sedi di corrispondenza dall’estero dove lavorano stabilmente diversi giornalisti , ma gran parte dei Centri di produzione televisiva sono nella capitale italiana con le sedi di via Teulada (8 studi) e Saxa Rubra  (14 studi), più i sei Studi Dear, il Teatro delle Vittorie, l’Auditorium del Foro Italico. Società controllate sono Rai Pubblicità, RaiNet, Rai Way, Rai World, Rai Cinema, 01 Distribution; società collegate risultano San Marino RTV, Tivù, Auditel, Euronews.

La corresponsione di una quota del canone televisivo (imposta)  alla Rai Spa da parte del governo in carica dovrebbe essere determinato dal rispetto del Contratto di servizio, che prevede:

  • Articolo 2.3 “La concessionaria è tenuta a realizzare un’offerta complessiva di qualità, rispettosa dell’identità, dei valori e degli ideali diffusi nel Paese, della sensibilità dei telespettatori e della tutela dei minori, rispettosa della figura femminile e della dignità umana, culturale e professionale della donna, caratterizzata da una ampia gamma di contenuti e da una efficienza produttiva”
  • Articolo 3.1 La Rai riconosce come fine strategico e tratto distintivo della missione del servizio pubblico la qualità dell’offerta ed é tenuta a … improntare, nel rispetto della dignità della persona, i contenuti della propria programmazione a criteri di decoro, buon gusto, assenza di volgarità, anche di natura espressiva”
  • Articolo 12.4 “La Rai si impegna affinché la programmazione dedicata ai minori … proponga valori positivi umani e civili, ed assicuri il rispetto della dignità della persona e promuova modelli di riferimento, femminili e maschili, egualitari e non stereotipati”
  • Articolo 13.6 La Rai si impegna a collaborare, con le istituzioni preposte, alla ideazione, realizzazione e diffusione di programmi specifici diretti al contrasto e alla prevenzione della pedofilia, della violenza sui minori e alla  prevenzione delle tossicodipendenze”

Da quello che vediamo da anni in televisione, parlare di pieno rispetto del contratto da parte di Rai spa è davvero difficile.

Ovvio che vada a finire che il bilancio di Radio Televisione Italiana  è una frana, tra inandempienze al contratto e cittadini che si rifiutano dal pagare il canone e tra le folli spese (senza dimenticare lo strabordante organico ed i super-compensi) di quella che è una televisione commerciale con vip, star e tanti lustrini.
Il dato per il 2014 è di 350 milioni di debiti che saranno ripianati con le tasse degli italiani, onde  – soprattutto – evitare all’elefantico apparato radiotelevisivo romano di subire tagli occupazionali e qualche dismissione.

E’ evidente che chiunque voglia un’Italia diversa dall’attuale, voglia anche una televisione pubblica con meno sprechi e meno pubblicità, con programmi adatti ai bambini e a chi voglia apprendere od informarsi, che non trasformi le donne in soubrette sboccate e gli uomini in machos tracotanti, che è non ‘talmente pubblica’ da dover usare troupe esterne persino per le partite di calcio che si giocano a Roma.

Detto questo, sarebbe da capire perchè, se il governo vuol mettere mano a questa annosa e vergognosa questione, arriva Beppe Grillo e ci annuncia che “continua il saccheggio di un bene comune e adesso tocca alle infrastrutture della tv pubblica. … Tutti restano sul vago…”cominceremo solo col vendere un 40% di quote di Raiway…” e poi “faremo un nuovo piano industriale…” e ancora: “anche negli altri paesi si privatizza”, con l’immancabile citazione finale della BBC.”

Bene comune?
Ma se lo stesso Grillo, due mesi fa, strillava all’Ariston di Sanremo che «la Rai è la responsabile del disastro di questo Paese», «La Rai è un servizio pubblico? Vi sembra un servizio pubblico un’azienda che perde 7,8 milioni nel 2010, 7,5 nel 2011 e quasi 5 milioni nel 2012. Adesso la Corte dei Conti ha detto state spendendo troppo, dovete abbassare i costi».

E, poi, sul proprio portale, sotto il titolo #BeppeaSanremo2014, precisava: «Il bilancio della RAI al 31 dicembre 2012 si è chiuso con una perdita di 250 milioni di euro. Il bilancio del 2013 dovrebbe chiudersi con una perdita che sfiora i 400 milioni di euro». «Per il festival di Sanremo in tre edizioni (2010/2011/2012) la Rai ha perso circa 20 milioni di euro».  «In sintesi l’andamento dei costi, risulta ancora nettamente superiore ai ricavi pubblicitari con negativi riflessi sul Mol (margine operativo lordo) aziendale; è necessario pertanto che vengano adottate adeguate iniziative volte a conseguire una più significativa razionalizzazione dei costi».

E quali iniziative se non l’afflusso di nuovi capitali, privatizzando una quota di minoranza di Raiway, e un piano industriale che concentri risorse e potenzialità?

Intanto, prendiamo atto che Beppe Grillo in meno di tre mesi è passato dal considerare la Rai ‘responsabile del disastro di questo paese’ a ‘bene comune’ e … che – anche per quest’anno – la cara tivù ‘italiana’ ci costerà qualche soldo in più del dovuto.

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Fuori dall’Europa, c’è solo l’Italia del declino

19 Mag

L’Italia, nel 2010, era calata all’8° posto per import-export nel mondo, con una quota del 3% a livello globale.
Una potenza mondiale, dirà qualcuno, che ha un peso commerciale tale da potersi permettere una valuta autonoma, una moneta nazionale.

Il punto è che dalla Germania importiamo quasi il 16%, ma esportiamo solo il nostro 11% (pari ad un mero 5,5% se visto come import tedesco), a beneficio delle regioni del Norditalia, ovvero il 13,1% dell’export veneto, il 23,6% dell’export del Piemonte, e il 14% di quello lombardo.
Un export tedesco che è passato, dal 2000 al 2011, dal 33,4 al 50,1% del Pil, grazie alla crescita dell’export verso la Cina Popolare dall’1 a oltre il 6% tra 2000 e 2011, specialmente a discapito dell’Italia.

Aggiungiamo che l’Italia esporta l’11% verso la Francia da cui importa l’8% dei prodotti, cioè è il secondo fornitore commerciale dei francesi, mentre risulta quarto come cliente.
I flussi verso/da gli altri paesi europei dell’Eurozona sono poco rilevanti (entro il 3% del prodotto movimentato dall’Italia, salvo la Spagna al 5-6% di import-export), più interessanti i flussi mercantili verso Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti, ma messi insieme non vanno oltre il 20% del totale del nostro import-export.

In parole povere, per la Germania siamo commercialmente ininfluenti, ma i loro mercati sono determinanti per il Norditalia, mentre la Francia tutto può permettersi fuorchè un’Italia che vada ad incrementare l’inflazione o la disoccupazione dei francesi.
Per Gran Bretagna e Svizzera, viceversa, un’Italia fuori dall’Eurozona potrebbe non dispiacere affatto, visto che parliamo ancora del secondo paese manifatturiero d’Europa, ma, se Piazza Affari è ormai almeno al 36% di fondi stranieri, c’è davvero da andare cauti.

E’ evidente che uscendo dall’Euro le ripercussioni da parte di Francia e Germania sarebbero significative, come lo sarebbe la fuga dai nostri bond che esploderebbero negli interessi provocando il crollo del nostro debito, mentre sarebbe davvero da capire quanto la Gran Bretagna e altri cointeressati ci attendano a braccia aperte.

La causa dei nostri mali?
Innanzitutto, il rapporto lira-euro che si è rivelato troppo favorevole, cioè ottimo all’inizio e pessimo dopo. Un errore di valutazione di Romano Prodi che ci è costato molto caro.

Poi, c’è il federalismo mai attuato a livello di fiscalità e di servizi, come anche la ristrutturazione del ‘capitalismo di Stato’ (a partire dall’Inps e da Cassa Depositi e Prestiti) e l’innovazione e semplificazione dell’apparato pubblico.  E qui, se la sinistra ha delle resposabilità gravissime, è anche vero che Berlusconi non ha affatto tentatodi fare le riforme che aveva promesso.

Infine, l’insano impulso alla decrescita, al downgrade, che gli italiani dimostrano ogni qual volta ci sia da crescere, da far vanto della propria nazione, di mettersi in gioco con gli altri paesi.
Ad esempio, voler uscire dall’Europa proprio mentre arrivano le ‘moral suasions’ che potrebbero aiutare gli italiani onesti a riportare l’Italia sul binario del futuro.

Pareggiare un bilancio, pagare le pensioni quando promesso, tenere le tasse al minimo possibile, permettere alle comunità locali di organizzare scuola e sanità entro parametri nazionali/europei, avere dei servizi che sostengano e non intralcino le aziende sane, treni e bus puntuali, strade sicure … l’Europa è questo.
Fuori dall’Europa, c’è solo l’Italia che già conosciamo.

Meglio un uovo oggi che una gallina domani? E dopodomani chi farà l’uovo?

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Stalin, Hitler, #vinciamonoi: ecco Grillo e le sue 5S. Appello al voto

18 Mag

Non voto spesso e ritengo che ogni sistema diverso dall’uninominale secco sia deformante e cooptante: a mio modesto avviso, ogni altro sistema elettorale somiglia troppo ad una struttura multilevel alla quale  – festosamente o furiosamente – aderisce chi considera la politica per le ‘parole’ e non per i ‘numeri’, con il presupposto che le parole possano dimostrarsi chiacchiere e fantasie, mentre i numeri corrispondano, viceversa, a fatti e guai reali.

In realtà, siamo convogliati in un sistema ultrasemplificato di bipolarismo, affinchè la maggioranza non sia eterna (vedi Democrazia Cristiana in Italia) ed affinchè l’opposizione sia abbastanza folta e compatta da condizionare il governo ed avvicendarlo.

In parole povere, in condizioni normali ed in qualuque nazione, i veri elettori non sono quel 30% dei votanti ‘fedele alla linea’ – questi determinano SOLO le gerarchie interne dei big di partito – non almeno quanto quel 10% che di volta in volta ‘si sposta’ e quell’altro 20% che mediamente non vota, ma talvolta lo fa. Un altro 10% circa è costituito da astensionisti duri e puri.

In tempi di crisi – è importante saperlo – vanno a cambiare due parametri: una parte degli elettori ‘fedeli alla linea’ si astiene e in minor numero migra verso un altra coalizione od un movimento di protesta, mentre il fronte dell’astensione si incrementa a dismisura.
Il risultato che ne viene dalle urne è paradossale: da un lato le coalizioni dei partiti ‘storici’ subiscono una flessione naturale proporzionale al numero dei ‘fedeli alla linea’ astenuti, dall’altro lato emerge un movimento politico di protesta che – apparentemente – ha la forza per ribaltare il tavolo, ma – in realtà – corrisponde a meno di un sesto dell’elettorato, ovvero  è fortemente minoritario.

E’ un fenomeno che noi italiani dovremmo conoscere bene, vista la nostra storia parlamentare che ha sempre accolto una tale percentuale, tra formazioni estreme di destra e sinistra, Lega e Italia dei Valori, fino alle 5S di oggi.

Piuttosto, sempre la ‘politica dei numeri e dei fatti’ ci racconta che perchè avvenga un effettivo cambiamento deve emergere un movimento politico che attragga tecnici, quadri, bassa dirigenza, media imprenditoria, professionisti, ovvero chi già si occupa di far funzionare le cose, è in grado di valutare cause ed effetti, può articolare proposte con senso ed esperienza.

Dicevo del voto, di quanto sia prezioso e di come possa essere sprecato, perchè stamattina mi son svegliato e … ho trovato l’invasor.

ehila beppe

“Bisogna ringraziarlo Stalin. La guerra contro i nazisti l’ha vinta lui.  Schulz (ndr. il candidato premier socialdemocratico per l’Europa), vedi di andare affanculo…”. “Dicono che io sono Hitler. Ma io non sono Hitler…sono oltre Hitler!” “Se non ci fosse il M5s adesso ci sarebbero i nazisti. Il nostro populismo è la più alta espressione della politica” “La Digos è tutta con noi, la Dia è tutta con noi, i carabinieri pure.”  “Siamo scesi in piazza per vincere e vinceremo queste europee con il 100 per cento”.

Riepilogando, secondo lo stesso comico genovese:

  1. Josip Stalin fu un benerito della Storia,
  2. Beppe Grillo è un ultra-Hitler,
  3. le persone che aderiscono alle 5S sarebbero divenute naziste senza il movimento da lui fondato,
  4. la polizia politica e l’antimafia più i carabinieri sono fidelizzati da un movimento politico.

Stamattina mi son svegliato e (bella Ciao) … ho trovato l’invasor, cos’altro dire?
Poi, però, mi sono ricordato dell’ultima frase di Beppe, un grande comico davvero: “Vinceremo queste europee con il 100 per cento” …

Le 5S non sono in coalizione con altri partiti europei e, grazie a questo, otterranno un minore numero di eletti, in proporzione, rispetto ai partiti che si sono coordinati …
Se c’era un sistema per NON vincere è proprio questo.

E dai media arrivano conferme che fosse uno scherzo anche l’adesione alle 5S delle forze dell’ordine, perchè “le forze dell’ordine non stanno dalla parte di nessun partito o movimento, ma dalla parte delle Istituzioni e della legalità” (Coisp) e perchè “le forze dell’ordine difendono tutti i cittadini a prescindere dal loro orientamento politico e sono il baluardo su cui si fonda la sicurezza della nostra Nazione” (Copasir).

Un gran burlone, quel diavolo di Beppe, che non di rado eccede.
Peccato che – finito lo show – ci sia chi lo prenda per serio anche quando scherza.

 

P.S. Dimenticavo … se c’è chi rievoca Stalin e le SS … ANDATE A VOTARE !!!

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Renzi e le riforme che farà

14 Feb

I dati delle elezioni del 1992 furono l’ultimo atto della Prima Repubblica ed in essi è sugellato alla Storia il quadro – ferale ma bellamente ignorato – di una egemonia di consensi tanto ‘riformista’ quanto poco  ‘di apparato’, visto che i consensi ‘a sinistra’ videro, alla Camera, Occhetto (PDS) fermo a 6,3 milioni di voti, il PSI di Craxi a 5,3 e il PRC a 2,2 milioni, i Verdi poco oltre il milione.

Da lì prese avvio la Seconda Repubblica, erano almeno 14 milioni di voti, dopo 20 anni – nel 2013 – erano poco più di 10 milioni …

L’odierna Sinistra Ecologia e Libertà è riuscita a dilapidare un patrimonio di oltre 3 milioni di voti (PRC + Verdi nel 1992), divenuti meno di un milione nel 2013, mentre alle ultime elezioni tedesche Linke e Grunen – nonostante la batosta – hanno assommato comunque il 20% delle preferenze. Praticamente quanto oggi raccolto dal Movimento Cinque Stelle …

Quanto al Partito Democratico, oggi raggiunge circa 10 milioni di preferenze, più dei sei del 1992, ma molto meno di quanto raccogliessero PDS e PSI. In Italia, come in Germania per l’odierna SPD, quella che risulta determinante è l’incapacità di attrarre il voto moderato e di formulare strategie di politica economica.

Jean Ziegler – allorchè cadde il Muro di Berlino ed ebbe inizio la Globalizzazione – preannunciò questa crisi della ‘sinistra’, sia in ragione dell’ampio spread di diritti, tutele e benefit di cui godono i lavoratori europei (ma non nel resto del mondo) sia perchè la fine dei ‘blocchi ideologici’ avrebbe affievolito il ‘legante’ che finora aveva accomunato ceti medi e ‘dananti della terra’.

Enrico Letta poteva essere il protagonista di questo cambiamento, traghettando le istituzioni (e la Sinistra che ne ha fortemente condizionato l’attuale status) verso un sistema di governance che permetta la cosiddetta ‘alternanza’ senza escludere le minoranze di una certa entità e verso un  Progetto Italia che non pensi solo a consolidare il denaro ma anche e soprattutto a farlo circolare.

C’era da far la voce grossa in Europa – con ottimi alleati in Gran Bretagna, Francia e Strasbourg – e c’era da por mano alla ridondante questione romana (INPS, Alitalia, debiti comunali, legge sui rifiuti, Bankitalia, vendite e concessioni demaniali, eccetera), c’era da dar respiro ad un’Italia che produce e arranca, senza che vi sia almeno un termine prefissato per misure (ndr. quelle di Monti e Fornero) che non possono essere ragionevolmente durevoli, e c’era da dar speranza a quanti – troppi – non hanno il lavoro, la cura o la pensione che gli spetterebbe con le tasse che ci fanno pagare.

Enrico Letta non l’ha fatto e, in mancanza di altri parlamentari proponibili, arriva Matteo Renzi.

Per fare cosa?
L’agenda è già scritta dagli errori e dalle esitazioni di chi l’ha preceduto, ovvero dall’urgenza:

  1. risolvere il brutto pasticcio delle pensioni e del conseguente blocco del turn over e dell’innovazione
  2. alleggerire l’impianto dei contratti nazionali e della filiera negoziale, per facilitare gli sgravi fiscali, il sistema di premialità, gli accordi locali, la flessibilità sull’export
  3. riformare la legge elettorale in modo che sia garantita l’alternanza, ma anche la democraticità, ovvero le minoranze politiche di rilievo ed il federalismo
  4. riformare -per riequilibrarlo con il nuovo parlamento – il livello apicale della governance (sindacati, CSM, INPS, Bankitalia, Regioni, Provincie e Comuni)

Il passaggio politico più difficile non è il primo – come qualcuno cerca ancora di convincerci – ma l’ultimo, visto che cambiare sistema elettorale per davvero e pervenire ad un parlamento diverso per accesso e poteri significa dover mutare tutto quello che a Roma è immutabile da un secolo e passa: la Pubblica Amministrazione.

Non sarà difficile sbloccare previdenza, lavoro e investimenti, incassando consensi prima e dopo le elezioni europee. E non dovrebbe essere difficilissimo concertare una legge elettorale.

Vedermo, però, se Matteo Renzi riuscirà a riportare nei limiti sostenibili quell’antico Male che si impossessò di Roma nell’arco di soli 10-15, già negli anni di poco precedenti la Breccia di Porta Pia … ma potrebbe farcela.

Serviranno l’azzeramento delle prebende, gli scivoli pensionistici, l’innovazione tecnologica, la meritocrazia e il controllo di gestione: tutte cose che i Sindacati confederali italiani avversano come fosse il fumo negli occhi …

Dunque, a prescindere da Renzi, riuscirà l’Italia a dotarsi di un partito riformista?

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La fine del governo Letta (pre)annunciata dai media

13 Feb

Lucia Annunziata, dall’Huffington Post, scrive di ‘crisi drammatica, gestione ridicola’.

Come non darle torto, dinanzi ad un Partito Democratico che si presenta alle elezioni con SEL e candidando Pierluigi Bersani, per poi governare con Enrico Letta e il Nuovo Centrodestra – un partito che ancora non c’è – e adesso, in soli 12 mesi, proponendo l’avvicendamento con Matteo Renzi – che non è un parlamentare – e con una porta aperta al Movimento Cinque Stelle ed un’altra per Forza Italia.

Come non darle ragione, se l’immobilismo di Enrico Letta – rispetto al tracciato montiano e cencelliano che ha adottato – non lascia altre alternative all’Italia che Matteo Renzi e le sue promesse di attivismo riformatore, visto che proprio le opposizioni (Berlusconi, Salvini, Casaleggio) non disdegnerebbero la soluzione.

Sarà per questo che  “il Presidente Napolitano da parte sua aggiunge a questo percorso, insieme privatistico e confuso, il paletto di un nonchalant “parlare di elezioni è una sciocchezza“, se come sembra esistono le premesse per una legislatura riformatrice.

Per Matteo Renzi, come fu per Mario Monti, esiste il problema del “distacco totale da qualunque mandato elettorale” ed, infatti, Lucia Annunziata ha gioco facile per ricordare a tutti che “non c’è bisogno di essere costituzionalisti per dire che è arrivato il momento di dichiarare che siamo di fronte a una crisi del governo, che c’è un presidente del consiglio sfiduciato sia pur non in aula ma via media e streaming del suo partito ed altri, e che è in corso una sorta di auto-mandato esplorativo.”

Ben memori di come avvenne il subentro di Mario Monti, “è necessario, obbligatorio direi, dunque che questa successione torni nell’unico luogo autorizzato a gestirla: il Parlamento. Che la crisi venga ufficializzata e affrontata con mozioni, discussione pubblica, e voto. Ritornando poi sul tavolo di Napolitano per consultazioni ufficiali ed eventuale nuovo incarico.”

Ma per Enrico Letta andare in Parlamento ed ufficializzare una crisi di governo – ovvero seguire l’invito di Lucia Annunziata – già sarebbe uno smacco e l’anticamera delle dimissioni …

Intanto, in questi minuti, il Corriere della Sera titola “Governo, l’ultima mediazione del Pd , la La Repubblica “Delegazione dem offre a Letta l’Economia” , La Stampa “Renzi tenta un’ultima mediazione” , Sole24Ore “Da Letta buona analisi ma non le risposte attese“.

Proprio oggi, Toni Servillo, alla Scuola Normale di Pisa, ha dichiarato: «A me sembra che siamo vittime di un secondo dopoguerra morale: credo che il problema del Paese sia sostanzialmente morale. Nonostante Tangentopoli, le stragi di mafia, vere e proprie tragedie nazionali, la questione morale continua a essere una questione irrilevante».

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L’immobilismo di Letta e la forza di Matteo Renzi

12 Feb

Erano mesi che ad Enrico Letta si chiedeva una ‘svolta. Forse dal primo giorno  di governo, certamente da quest’estate, quando s’era capito che la maggioranza ‘teneva’ nonostante le vicende giudiziarie di Berlusconi e che il Movimento Cinque Stelle non era in grado di promuovere e, soprattutto, concertare con gli altri partiti le riforme che chiede.

Ma Letta non l’ha fatto.
Si è affidato alle ‘direttive montiane’ (ndr. il sacro tabù europeo conclamatosi nel Fiscal Compact) in attesa di ‘sistemare’ Bankitalia, Finmeccanica, Alitalia, Cassa Depositi e Prestiti, INPS e poco più, (e)seguendo il tracciato cencelliano indicato dalla ‘old school’ del Partito Socialista (ndr. i vari Giuliano Amato, Bassanini e Cicchitto).

E così è accaduto che Letta proseguisse sulla via recessiva tracciata da Mario Monti, con una Camera in cui praticamente tutti i deputati eccetto quelli di Scelta Civica hanno fatto campagna elettorale, promettendo la riduzione della pressione fiscale e gli interventi per l’occupazione e il welfare.
Così accentuando ed attirando i fulmini su un sostanzialmente incolpevole Presidente Napolitano – ma forse intempestivo  – per la caduta del governo Berlusconi (ndr. secondo la Corte dei Conti anche a causa di azioni speculative internazionali) e la nomina di Mario Monti, legato a Goldmann Sachs e Bilderberg, prima a senatore a vita e poi a capo del governo.
Altrove si sarebbe parlato di Caudillo …

Ed è accaduto che la spesa pubblica continuasse a crescere, mentre la ripresa industriale stenta anche nel raccogliere le briciole della (ri)crescita altrui e mentre scopriamo che gli esodati sono almeno il doppio (ndr. come previsto dalla CGIA allorché Elsa Fornero estrasse l’asso di picche sulle pensioni) e che già da quest’anno le pensioni sono andate del tutto in stallo in un Paese dove circa la metà dei lavoratori pubblici ha più di 50 anni (dati ARAN 2009) e dove la disoccupazione e il precariato degli under40 è da record.

Dunque, a seguir le prediche dei ‘padri fondatori dell’Europa’ – alcune giuste, altre datate, altre ancora dimostratesi errate – il buon Enrico si è ritrovato al capolinea.
Anche perchè – in meno di 12 mesi di governo – si è ritrovato con troppi i ministri per i quali si sono richieste le dimissioni (Idem, Alfano, Cancellieri, Carrozza), mentre i Presidenti di Camera e Senato entravano più volte – per inesperienza dei lavori parlamentari probabilmente – suu questioni prettamente ‘politiche’.

Di qui l’esigenza di una leadership di governo ‘forte’, che esprima una ‘politica del fare’, che si serva di quei tecnici che l’Italia ha ancora, a volte isolati nella ‘notorietà’ di una vita blindata (ndr. vedi il caso Ichino), a volte ai margini di un sistema di carriere clientelari fondate sul mantenimento dello status quo.

Matteo Renzi ha queste caratteristiche ed ha la capacità di dialogare con Forza Italia, che – a prescindere dalle vicende giudiziare di alcuni leader – è comunque la maggiore aggregazione di elettori di Centrodestra, sia in Italia sia per quanto riguarda gli italiani in UE.

E, se avrà la premiership, Renzi dovrà dimostrare subito la sua forza, perchè in estate ci sarà da varare una manovra finanziaria diversa da quelle degli ultimi due anni e da subentrare nella presidenza UE.
C’è da fare una legge elettorale, ma non basta, se poi regolamenti e prebende restano intatti …

… se la macchina ‘pubblica’ impiega anni per attuare banali norme di spesa e intervento (ndr. nell’attuale un finanziamento impiega di media oltre cinque anni da quando viene legiferato in Parlamento a quando viene messo a consuntivo dall’amministrazione erogante), se i processi restano interminabili ed aleatori, se le scuole e le università non iniziano a formare gli italiani con lo scopo di primeggiare, se continuiamo a voltarci dall’altra parte dinanzi ai malati e agli invalidi, pur sapendo di che malasanità e di quale welfare parliamo, se le Authority non hanno poteri e gli ispettori che sopralluogano scarseggiano, se si denuncia un buco di 31 miliardi nell’ex-Inpdap (ndr. i soldi dei lavoratori) senza dire che è stato creato dal MEF (ndr. lo Stato) sotto forma di anticipazioni, se tra finanziamenti  pubblici, reti pubbliche e sistema di raccolta pubblicitaria abbiamo una pessima informazione, se non viene risolta la sabauda questione delle concessioni demaniali e degli affitti pubblici, per non parlare della dispersione sull territorio delle sedi direzionali, se ci ostiniamo a costruire costosi bombardieri che (per ora) mal funzionano mentre scuole, strade, ferrovie e reti profonde cadono a pezzi, se i sindacati continueranno a far proteste senza portare proposte, se non si interviene sulla malasanità con i dati allarmanti che arrivano da anni e decenni, eccetera eccetera …

Tutte cose per le quali ci sarà da spendere (1-200 miliardi nel biennio?), se si vuole raccogliere occupazione giovanile, innovazione e spinta alla crescita. E ci sarà da farsi qualche ‘nemico’ se si vuole tagliare in prospettiva (3-400 miliardi nel quadriennio?) per ottenere trasparenza, efficienza, equità, gestione responsabile.
Magari, assumendo un ruolo da protagonisti nella politica europea, dove da tempo la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi sollecitano una posizione italiana meno filogermanica e più attenta – a ben vedere – agli interessi nazionali e mediterranei.

Matteo Renzi è riuscito a rottamare il vecchio PCI e l’anziana DC in casa propria, mentre dialoga con Forza Italia e non dispiace ad una parte dei M5S, avanzando tra l’altro proposte di buon senso di riforma su questioni cruciali.
La forza c’è, ‘si può fare’. Bisognerà vedere se basterà e, soprattutto, se sarà accompagnata dalla solidità delle soluzioni.

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Napolitano, l’ultimatum che non c’è

17 Dic

Un uomo si giudica dal carattere, dalle capacità e dalla fortuna delle sue scelte.
Del nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sarà la Storia a raccontarne le doti, ma sul ‘buon esito’ delle sue scelte è già possibile qualche valutazione, a quasi 100 anni dalla sua nascita.

Lasciamo perdere quanto accaduto a Giolitti e Craxi come persone, basta prendere atto che i due interventi ‘storici’ di Re Giorgio furono in ambedue i casi il crocevia che bloccò sul nascere una maggioranza riformista a sinistra.
Scelte malaugurate e catastrofiche, se l’attuale Partito Democratico arranca ancora intorno al 25% dei consensi effettivi, sotto scacco dell’estrema sinistra e dei cattolici, incapace com’è di scegliere la ‘socialdemocrazia’.

Ricordiamo, per i risultati infausti per l’Italia e gli italiani, soltanto i fatti salienti di quest’ultimo triennio:

2010 – mentre Gianfranco Fini sfiducia Silvio Berlusconi, a causa della Crisi incombente e delle disastrose politiche tremontiane, Napolitano lascia trascorrere ben tre mesi per il rinnovo della fiducia, permettendo de facto l’aggancio dei vari Scilipoti. Risultato? Un altro anno di finanza (pubblica e privata) ‘spandi e spendi’.

2011 – mentre lo Spread devasta i titoli di Stato italiani, Re Giorgio nomina Mario Monti a capo di un governo “tecnico ma di programma”. Esito? Salvate le banche, aumentate le tasse, deregolato il Welfare, ma arrivano recessione e stagnazione.

2012 – in estate, quando il crash del Sistema Italia è ormai certificato, il nostro Presidentenon interviene per un governo tecnico per la legge elettorale nè per delle elezioni anticipate. Conseguenza? Il rifiuto della politica aumenta esponenzialmente: il 38% degli italiani non vota, il 22% sceglie Beppe Grillo.

2013 – con un sostanziale ‘pareggio a tre’ decretato dalle urne, il Quirinale concede una prima investitura ad Pierluigi Bersani – la cui maggioranza alla Camera si realizza sulla base di una norma risultata, poi, incostituzionale – mentre c’era da appellarsi alla ‘solidarietà nazionale’ e, con un po’ di buon senso generale, ad un governo tecnico per la legge elettorale. Risultato? Il Governo Letta – Alfano, in questo scorcio d’anno, registra un generale peggioramento dei parametri di finanza pubblica.

Capacità negoziali tante, bona fidae fuori discussione, fortuna poca.

Oggi, ad anticipazione dell’anno che verrà, da Giorgio Napolitano arriva un messaggio tutto da interpretarsi.

  1. L’aspettativa di nuove elezioni anticipate è dall’esito più che dubbio. E’ importante  che l’Italia continui a essere governata nel 2014.
  2. Far ripartire dalla Camera un più risoluto e spedito esame delle diverse opzioni possibili per dare al Paese una legge che, insieme alle riforme costituzionali, soddisfi, con corretti meccanismi maggioritari, esigenze di governabilità proprie di una democrazia governante, di una democrazia dell’alternanza.

In poche parole, niente elezioni anticipate per il 2014 con l’obiettivo di svolgerle nel 2015, se il Parlamento voterà le necessarie riforme elettorali e costituzionali.

  1. Le sorti del governo poggiano soltanto sulle sue forze, sono legate soltanto al rapporto di fiducia con la sua maggioranza.
  2. Oggi vorrei rivolgere uno schietto appello al partito che il 2 ottobre scorso si è distaccato dalla maggioranza originaria guidata da Letta, perché quella rottura non comporti l’abbandono del disegno di riforme costituzionali.

La stabilità del governo, dopo l’ascesa di Matteo Renzi a segretario del PD, è legata tutta al sostegno del centrodestra alle riforme, vista la maggioranza ‘bulgara’ – e largamente renziana – dei Democratici alla Camera.

  1. La massima attenzione va data a quanti non sono raggiunti da risposte al loro disagio: categorie, gruppi, persone, che possono farsi coinvolgere in proteste indiscriminate e finanche violente, in un estremo e sterile moto di contrapposizione totale alla politica e alle istituzioni.
  2. Non mancherò di rendere nota ogni mia ulteriore valutazione della sostenibilità, in termini istituzionali e personali, dell’alto e gravoso incarico affidatomi.

Questa però non la capiamo.
Caro Presidente, intende davvero dimettersi – lasciando l’Italia con un Capo dello Stato e delle Forze Armate dimissionario – se i nostri politici dovessero floppare as usual nel rifomare le istituzioni e mentre la piazza dovesse diventare rovente?

Questa non è da lei, signor Presidente. Noi italiani non ci crediamo e … non ci crederanno neanche quei volponi dei nostri politici.

Niente ultimatum: solo un  altolà a Renzi, un appello a Berlusconi e l’indicazione a Letta e Boldrini di ‘fare presto’!

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