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La BBC diffonde prove false contro Assad

7 Set

“La propaganda anti-Assad si serve di grandi nomi, tv potenti, accreditate e giornalisti di lustro. E quando i giornali accreditati sono molto seguiti non occorre nemmeno il sensazionalismo tanto demonizzato dai lettori e se una notizia di propaganda è nutrita di sensazionalismo, non importa. L’uomo medio la filtra e la riconosce come “notizia certa.

E’ quello che è accaduto alla BBC, tv inglese seguita in tutto il mondo.” (fonte Coscienzeinrete)

Infatti, la BBC, trasformatasi da mesi in una sorta di strumento di propaganda anti-Assad, ha diffuso un’immagine ‘shock’, affermando che è stata scattata nella città siriana di Hula ed inviata da alcuni attivisti in Siria, a testimonianza dei massacri attuati dalle forze di Assad avrebbe attuato nel suo stesso popolo per sedare le rivolte affamate di “democrazia”.

In realtà, è un falso, come ha denunciato su Facebook da oltre un anno dall’autore, un fotografo free lance.
“E’ un Italiano e si chiama Marco Di Lauro. Quando ha scattato la foto era il 27 marzo 2003 a Al Musayyib, una città iraqena a 40 km a sud di Baghdad.” (fonte Ecplanet)

massacro siria irak di mauro fotografo falso BBC

Qualcuno sta usando illegalmente una delle mie immagini per la propaganda anti-siriana in prima pagina del sito web della BBC“, questo il post del 27 maggio 2012 (link) dove è precisato anche che il reportage di Marco Di Lauro era ‘by Getty Images’, ovvero nel catalogo di una delle maggiori agenzie fotografiche del mondo.

Come sia riuscita la BBC ad affondare nel fango della propaganda bellica è davvero un mistero.

E’ viceversa tutto da chiarire come sia riuscito Gianni Letta ad associarsi allo sparuto gruppo degli stati che accusano Assad senza averne (ancora) le prove.
Specialmente se il nostro Ministero degli Esteri, nella persona di Emma Bonino, e la Santa Sede sembrano avere informazioni diverse e molto più accurate di quante finora sbandierate dall’asse Stati Uniti – Gran Bretagna – Arabia Saudita …

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Obama e la Siria: ultima corvée per i Democratici?

2 Set

Obama dovrà attendere il voto parlamentare per attaccare la Siria, dopo aver baldanzosamente annunciato: «ho deciso che gli Stati Uniti conducano un’azione militare contro il regime siriano», «ho il potere di ordinare l’attacco senza il via libera di Camera e Senato»

Una catastrofica figuraccia, perchè l’iter si concluderà intorno alla metà di settembre e, in caso di rinuncia all’attacco, con grande spreco di carburante che si è reso necessario per trasferire un’intera flotta di fornite le coste libanesi a carico dei contribuenti statunintensi.

La defaillance presidenziale era stata ampiamente annunciata da questo blog, in due post: Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca, dove si riportava la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gove Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente, e Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere, dove si raccontava del’interferenza saudita, della sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e dell’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Così, infatti, sono andate a finire le cose, con la Gran Bretagna che ha congelato le velleità belliche di Cameron e con la Francia di Hollande unica e sola nell’appoggiare Mr. President.

Le ricadute globali di questo disastro politico obamiano sono e saranno pesantissime, forse epocali, anche se dovesse riuscire a lanciare i suoi ‘attacchi mirati’ senza subire ripercussioni dalla reazione siriana, senza i ‘danni collaterali’ causati in Iraq, Libia e Afganistan e senza scatenare l’Armageddon in Medio Oriente.

Infatti, quello che viene drammaticamente a cadere è tutto il modello politico democratico e progressista di cui Obama (e Hollande) erano gli ultimi alfieri.

Un approccio internazionale ‘orientato al confronto’ che non ha saputo risolvere la questione Guantanamo, nè quella afgana o quella israelo-palestinese. Che ha visto esplodere drammatiche rivoluzioni nordafricane e mediorientali contro dittatori appoggiati dai poteri mondiali, a tutt’oggi non stabilizzate. Che non ha avviato una politica ‘atlantica’ di superamento della crisi mondiale, con tutte le conseguenze date da una Germania egemone e prepotente. Che ha permesso una notevole crescita dell’instabilità nell’Oceano Indiano e nell’America Meridionale.

Cartoon da Cagle.com

Cartoon da Cagle.com

Una esibizione di muscoli – in Libia come in Siria – decisamente pletorica e controproducente. Questo è uno dei verdetti relativi al presidente Barack Obama, ma non è tutta colpa sua.

Infatti, quale futuro può esserci per l’ideale ‘democratico’ (o meglio progressista), se il mito del Progresso è stato infranto già dalla fine degli Anni ’70? O, peggio, se gli stessi Progressisti hanno provveduto – venti e passa anni fa – a sdoganare la Cina Popolare, la Russia di Eltsin e Putin, il Venezuela di Chavez, la strana federazione indiana della famiglia Gandhi, un tot di regimi islamici e qualche residuale dittatura fascista o socialista?

Che farne del costo del lavoro e dei salari minimi, della sanità pubblica, delle pensioni, del welfare, se il sistema globale necessita, per alimentarsi e fluidificarsi, di ignorare l’elemento fondante una società organizzata, ovvero la solidarietà umana?

Come offrire ‘progresso’ in cambio di ‘tradizione’ e ‘pace’ in vece di ‘cambiamento’, se l’effetto conseguente è ‘meno solidarietà’, ‘meno uguaglianza’?

E come esprimere qualcosa di ‘progressivo’, in una società dove non è il lavoro l’elemento alienante delle nostre esistenze, bensì lo sono i consumi e l’iperconnessione?

Dopo un quinquennio di pessime mosse in politica estera e di tagli continui al Welfare, la figuraccia di Obama – nel suo quasi solitario tentativo di inaugurare una nuova guerra mondiale, sulla base dei soliti e sacrosanti doveri morali – è la ciliegina sulla torta per chi cercasse una riprova che o si ritorna ad uno stato etico e liberale oppure progresso, democrazia e welfare diventeranno sempre più una chimera.

Una questione che coinvolgerà tutti i partiti progressisti nel mondo, già vessati da oscene storie di corruttela o di sliding doors in cui tanti dei suoi leader sono stati coinvolti. Ed, infatti, Hollande si è ben guardato da intaccare l’autorevolezza delle istituzioni francesi e l’accessibilità dei servizi ai cittadini, mentre i ceti popolari metropolitani slittano sempre più a destra in Francia, dopo che alcuni leader socialisti sono transitati con non chalance dall epoltrone di partito a quelle degli organi di garanzia per pervenire, sistemate le cose a modo loro, ai vertici di alcune maggiori holding francesi.

Andando all’italia, dove la sola e solitaria Emma Bonino ha avuto il coraggio di ricordare il ‘rischio di una guerra mondiale’, ci troviamo con l’Obama di casa nostra, Matteo Renzi che si propone insistentemente per la guida del Partito Democratico.

Non è che storicamente il Partito avesse brillato per la presenza di leader nati e cresciuti in una qualche metropoli, ma c’è davvero da chiedersi cosa mai potrà permettergli di chiamarsi ‘progressisti’, se il leader è un uomo, che arriva ‘fresco fresco’ da una piccola città di provincia in un mondo miliardario e globale, che deve la sua sopravvivenza alle vestigia – mai rinverdite o rinnovate – del suo lontano Rinascimento e delle speculazioni finanziarie dei loro antenati?

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Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca?

14 Ago

Dieci giorni fa, il Washington Post ha raccolto una rara e stringata intervista concessa dal Generale Abdel Fatah al-Sissi, uomo forte dell’Egitto ed esponente di punta di una leadership militare, ma laica.
Un’intervista che arrivava nello stesso giorno in cui il Segretario di Stato John F. Kerry aveva espresso frasi di sostegno, affermando che l’esercito egiziano è intervenuto per “ripristinare la democrazia.”

Non a caso Al-Sissi accusa l’amministrazione Obama, nel tentativo di restare neutrale, di aver alienato entrambe le parti in un Egitto profondamente polarizzato e instabile, che tenta di diventare una democrazia moderna.
Anche i sostenitori di Morsi, i Fratelli Musulmani, accusano regolarmente gli Stati Uniti di acconsentire ad un colpo di stato militare, ma sembra che si sia dimenticato che “l’esercito è stato chiesto di intervenire da milioni e milioni di persone”. E, come ha dicharava Kerry durante una visita in Pakistan, giorni fa, “i militari non sono subentrati nel potere, non ancora, almeno secondo il nostro giudizio”.

Una delle questioni che anima la querelle tra gli Stati Uniti e l’Egitto è l’obbligo federale di sospendere l’assistenza non umanitaria quando un governo democraticamente eletto viene rimosso dal suo incarico da un colpo di stato militare. Una misura che l’amministrazione Obama sembra voler evitare con un taglio di 1,3 miliardi di dollari degli ‘aiuti’ che dagli Stati Uniti arrivano in Egitto ogni anno. Ancheil rinvio della consegna di quattro caccia F-16 sarebbe, secondo il Washington Post, un dettaglio “puramente simbolico”.

La questione che, a monte, mette in fibrillazione il politically correct che impera nella White House di Barack Obama, è che dal 3 luglio, dalla cacciata di Morsi, è che la situazione dell’ordine pubblico egiziano potesse involversi in un bagno di sangue come accaduto oggi, che favorirebbe solo gli integralisti e i terroristi. Un timore condiviso dal fisico el Baradei, importante figura dell’opposizione laica ed ex-capo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (Aiea), dimessosi oggi dall’incarico di vice-presidente delle relazioni internazionali della giunta provvisoria egiziana.

Una scarsa capacità politica internazionale della Casa Bianca, come accusano i Repubblicani statunitensi, se al-Sissi va dichiarare che il segretario alla Difesa Chuck Hagel “quasi ogni giorno” lo consulta, ma che il presidente Obama non lo mai ha chiamato dopo cacciata di Morsi.
Non a caso i legami tra Cairo e Washington rimangono, ma da tempo è cresciuto il peso dei poteri regionali, come l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti.

Al-Sissi, nell’intervista concessa al Washington Post, si è detto irritato perchè gli Stati Uniti non appoggiano in pieno “un popolo libero che si ribella contro un potere politico ingiusto.”
“Il Comandante generale dell’Egitto ha ipotizzato che se gli Stati Uniti vogliono evitare ulteriori spargimenti di sangue in Egitto, dovrebbero convincere i Fratelli Musulmani a fare marcia indietro dal Cairo sit-in che ha mantenuto dal 3 luglio.”
“L’amministrazione degli Stati Uniti ha molta influenza e un largo margine di azione con i Fratelli Musulmani e l’amministrazione statunitense potrebbe utilizzare sul serio questa leva verso di loro per risolvere il conflitto”.

Così non è stato.

Intanto è di questi giorni la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gore Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente.

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Emergenza Egitto: civili armati e chiese bruciate

14 Ago

Muḥammad Morsī è nato il 20 agosto 1951, è un ingegnere chimico con una laurea all’Università del Cairo (1975) che ha lavorato per la California State University, Northridge dal 1982 al 1985, per poi tornare in Egitto. Nel 2012 è divenuto il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto, nelle fila del Partito Libertà e Giustizia (il partito dei Fratelli Musulmani).

I Fratelli Musulmani sono una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali con un approccio prettamente politico all’Islam. Furono fondati nel 1928 da al-Ḥasan al-Bannāʾproprio in Egitto, poco più d’un decennio dopo il collasso dell’Impero Ottomano.

Morsī è stato membro del Parlamento egiziano dal 2000 al 2005 e la sua attività di maggiore rilievo fu la ‘lotta alla pornografia’, denunciando persino il governo per aver permesso la circolazione di riviste con copertine di nudi e la trasmissione in televisione di scene che considerava “immorali”, come anche si levò contro i concorsi di bellezza (ad esempio Miss Egitto), perchè contrari alle “norme sociali, alla Shari’a e alla Costituzione”.

Sei mesi dopo l’elezione, nella seconda metà di novembre 2012, Muḥammad Morsi attuava un vero e proprio ‘golpe bianco’, attribuendosi per decreto amplissimi poteri anche nel campo del potere giudiziario, per evitare che i suoi decreti presidenziali potessero essere annullati dall’Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. Ovviamente, il decreto prevedeva che il presidente Morsi possa “prendere tutte le misure necessarie per proteggere la rivoluzione”. Un film già visto … che, sembrerebbe, non aveva neanche tutto il gradimento degli stessi sostenitori di Morsi, i Fratelli Mussulmani.
Ad immediata conseguenza di questo atto autoritario la magistratura egiziana proclamava uno sciopero di protesta contro quello che definiva “un golpe bianco” del presidente della repubblica, mentre iniziavano le proteste di piazza contro la politica di islamizzazione dello Stato operata da Morsi, nel tentativo di instaurare una dittatura islamica e nel paese venivano incendiate anche alcune sedi dei Fratelli Musulmani.

Poco più di un mese fa, il movimento di protesta nei suoi confronti, noto come Tamarod, ha ottenuto la destituzione di Muḥammad Morsī e la sua collocazione agli arresti domiciliari.

Dunque, a scanso equivoci, l’occupazione delle città con i così detti ‘campi pro-Morsi è stata una sorta di ‘marcia su Roma’.

Assembramenti pacifici, si è detto. Entro i quali sono avvenuti almeno un centinaio di stupri particolarmente violenti e non si sa quant’altro ancora, pur di estromettere le donne dalla vita politica. Accampamenti innocui, sembrava, ma la mappa pubblicata da al Jazeera è eloquente, con blocchi stradali e persino il Cairo and Nasr City Traffic Departement (nella ‘zona rossa’) è quasi irraggiungibile in automobile.

Nasr City Clashes Map by Al Jazeera

Nasr City Clashes Map by Al Jazeera

Lo sgombero brutale degli accampamenti pro-Morsi arriva ad oltre un mese di questa situazione ed i tentennamenti occidentali, oscillanti tra il sostegno ai militari che avevano destituito un golpista integralista e la tutela delle regole democratiche, che vedono un presidente regolarmente eletto ed una maggioranza parlamentare.

Uno sgombero che non sembra aver visto una partecipazione attiva dei militari – secondo le fonti ufficiali – ma che di sicuro vedeva un certo numero di civili ‘affiancare le forze di polizia’, come abbiamo visto tutti in mondovisione.

Nasr City - Civili armati

Nasr City – Civili armati

D’altra parte, non è che i manifestanti fossero così pacifici e ‘collaborativi’, come dimostrano le immagini eloquenti che stanno facendo il giro del mondo in queste ore.

Foto da La Repubblica

Intanto, si parla di centinaia se non migliaia di morti, un enorme numero di feriti, forse oltre diecimila, due cronisti morti, la reporter ventiseiennne del UAE weekly tabloid Xpress, Habiba Ahmed Abd Elaziz, e  il cameraman di Sky News, Mick Deane, ambedue uccisi da colpi di arma da fuoco. Almeno sei morti tra le forze di sicurezza (polizia) egiziane.

Arrivano anche notizie (con video e foto eloquenti) della rabbia integralista che si è sollevata nel paese e di chiese cristiane incendiate dai sostenitori di Muḥammad Morsī  in varie località del paese, a Fayoum, Susa, Menya e Dilg, e, addirittura, la cattedrale di San Giorgio a Sohag (video).

The Good Shepherd Church, Suze – fonte theorthodoxchurch.info

Sohag St. George Church – fonte theorthodoxchurch.info

St. Tadros church in Minia – fonte theorthodoxchurch.info

The Holy Bible Friends Society, Fayoum – fonte theorthodoxchurch.info

St. George Church, Sohag – fonte theorthodoxchurch.info

L’esercito egiziano ha annunciato il coprifuoco che entrerà dalle 18 di oggi e durerà fino alle 6 del mattino, in tutti i governatorati egiziani, compreso Il Cairo, Giza e Alessandria. E’ stato anche proclamato lo stato d’emergenza per un mese.

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Apple, ma quanto ci costa?

11 Dic

Mentre la Francia e l’Italia si affannano nel tentativo di imporre tasse e tributi a Google e Amazon, dagli USA arriva uno studio di Reuters che punta l’indice verso la Apple, produttrice dei costosissimi Ipod e Ipad.

Infatti, sono molti anni che il reddito degli americani ( edegli europei) è risucchiato da spese spesso poco sostenibili e non particolarmente necessarie per computer, tablet e telefonini. Una spesa che incide notevolmente sulla disponibilità di reddito per altre esigenze o consumi.

Secondo Reuters, la spesa media della famiglia statunitense per prodotti Apple nel 2011 è stata di 444 dollari e prevede che, se Apple introdurrà la nuova HDTV,  entro il 2015, la spesa familiare che finisce nelle casse dell’azienda di Cupertino potrebbe superare gli 850 dollari all’anno.
Una sorta di rata fissa, se consideriamo che, la vita media di questi apparecchi è di 3-4 anni, che il ricambio avviene ogni circa due, che con l’iPad e l’iPhone si scaricano brani musicali a pagamento da iTunes.

Secondo un sondaggio dell’italiano Ipsos un quarto degli intervistati è pronto a tagliare altre spese pur di potersi permettere un Ipad.

La problematica si aggrava se consideriamo che Apple si contende il mercato globale di smartphone, tablet e pc con la Samsung, che la supera nelle vendite (66,1 milioni di “smart device” venduti nel terzo trimestre del 2012 contro ‘soli’ 45,8 milioni di apparecchi venduti da Apple). Infatti, il prezzo medio di vendita di Apple per i suoi prodotti è di 310 dollari superiore a quello di Samsung.

Cosa offra Apple più di Samsung, Nokia e altri non è chiaro, dato che l’appeal dell’Ipod ed Ipad è dato da categorie merceologiche piuttosto effimere come ‘creativo’ o ‘nuovo’. Inoltre, nella sostanza, la marcia in più dei due device è la quantità di software messo a disposizione, che spesso trova equivalenti nei sistemi Android e Windows utilizzati dai concorrenti, con la sola differenza che vanno cercati on line e scaricati. Anche nella durevolezza, gli apparecchi della casa di Cupertino non si dimostrano particolarmente più longevi di quelli Samsung.

Ma c’è dell’altro.

Il 24 gennaio scorso Apple ha annunciato 13 miliardi di dollari di profitt nel trimestre ottobre-dicembre 2011, praticamente il PIL di un piccolo stato europeo, con ricavi annuali superiori ai  46 miliardi di dollari di ricavi.

Più o meno contemporaneamente, Charles Duhigg e David Barboza per il l New York Times  raccontano le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi che producono hardware per Apple, tra cui il caso dei numerosi suicidi alla Foxconn, una delle principali ditte fornitrici, all’inizio del 2010. Numerosi suicidi (decine, centinaia?) che fanno notizia in una una delle più grandi aziende di tutta la Cina, con circa 1,2 milioni di dipendenti e fabbriche in tutto il paese, che produce o assembla circa il 40 per cento di tutta l’elettronica di consumo del mondo.

 All’inizio del 2010, almeno 137 operai di una fabbrica di proprietà della Wintek (ancora oggi tra le maggiori fornitrici di Apple) rimasero intossicati dal n-esano, che causa danni al sistema nervoso, e che gli veniva fatto usare per pulire gli schermi degli iPhone in costruzione perché evaporava tre volte più velocemente dell’alcool.

Nel 2011, a Chengdu e a Shanghai, si sono verificate esplosioni in due fabbriche che producono gli iPad con 4 morti e 77 feriti, la causa fu l’alta concentrazione nell’aria di polvere di alluminio, un problema facilmente risolvibile con un adeguato impianto di ventilazione. Un gruppo di difesa dei diritti dei lavoratori aveva avvertito Apple dei pericoli all’interno della fabbrica, senza ricevere risposta.

Nella fabbrica di Chengdu sono impiegate circa 120.000 persone, con turni che coprono tutte le 24 ore del giorno. Il New York Times racconta anche che a Chengdu – dove bastava un impianto di areazione per evitare il disastro – alle pareti si leggono scritte come “Lavora duro al tuo impiego oggi oppure lavora duro per trovartene un altro domani”. La Foxconn, a Chengdu, fornisce anche appartamenti in condizioni di serio sovraffollamento a circa 70.000 dipendenti.

Nell’articolo del New York Times si racconta che negli stabilimenti cinesi, che forniscono Aplle e non solo, i turni di lavoro sono molto gravosi, le pressioni che vengono fatte sugli operai sono eccessive, le loro condizioni di vita e di sicurezza molto carenti.

Apple si giustifica affermando che ha un codice di condotta sottoscritto dai suoi fornitori, che fissa il tetto dell’orario settimanale degli operai a 60 ore.  Peccato che il NYT racconti che un operaio qualificato guadagna circa 8-90 dollari al mese, mentre l’Istituto Nazionale Cinese di Statistica pubblica che il reddito medio di un abitante cinese delle aree urbane è di circa 316 dollari al mese.

Ad ogni modo, la casa di Cupertino ha imposto la restituzione di diversi milioni di dollari alle ditte che, addirittura, avevano chiesto agli operai come “contributo di assunzione” per ottenere il lavoro. Purtroppo, non ha ritenuto di approfondire maggiormente cosa potesse esserci dietro la richiesta di un oneroso balzello ai disoccupati da assumere. Caporalato? Ellis Island?

Apple ed i suoi beni voluttuari sono davvero un costo che l’Umanità può permettersi?

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ILVA Taranto: l’Italia che proprio non vogliamo

29 Nov

Nella vicenda ILVA di Taranto c’è il condensato dell’Italia che non vogliamo, che non volevamo e che non vorremmo.

Una fabbrica nata male sulle (non dalle) spoglie della gloriosa Italsider di Bagnoli (NA) e dopo aver sprecato miliardi per un polo siderurgico a Gioia Tauro, dove sappiamo com’è andata a finire.

Una fabbrica che era inquinante a Napoli e non si sa perchè non avrebbe dovuto esserlo a Taranto, creata con denaro pubblico (tanto), mai effettivamente produttiva (la colpa fu data alle Tigri Asiatiche) e comprata (non si sa perchè) dalla famiglia Riva, quella dei motoscafi e dello scandalo di Beirut.

Un sito industriale devastante per la salute dei tarantini, come ha dimostrato il magistrato di turno, e fonte di clientele ed oscure convergenze, tra cui la manipolazione delle perizie e dei dati sanitari.

Una fabbrica tecnicamente ‘chiusa’ che continua ad esistere per volontà di Roma, dove, però, l’inquinamento da metalli pesanti non arriva. Una fabbrica che il sindacato difende in nome del salario degli operai, ma non della loro salute.
Un impianto dove, ieri, non doveva esserci nessuno, che invece era occupato dai lavoratori, in barba alle ordinanze, mentre nessun ambientalista protestava nè intervenivano le forze dell’ordine per lo sgombero.

Così accade che – in un complesso industriale privo di un datore di lavoro che attui ed imponga la sicurezza sul lavoro – arrivi una tromba d’aria, vada giù una ciminiera ed una gru, scoppi un incendio con fiamme alte decine di metri, ci siano morti e dispersi tra gli occupanti.

Dunque, visto come è andata per la Thyssen a Torino, ci aspettiamo lo stesso peso e la stessa misura: chi ha organizzato l’occupazione deve andare alla sbarra ed essere severamente processato; i morti sono morti.

Come anche dovremmo aspettarci che si sigilli l’ILVA e la si smantelli. Dovremmo …
Infatti, non il ministro delle Infrastrutture, ma quello dell’Ambiente, Corrado Clini, annuncia incredibilmente: «Chiudere Ilva è favorire i concorrenti», l’Ilva  «prosegua l’attività per 2 anni», «non si può distinguere l’ambiente dalla crescita sostenibile quindi dall’economia».

That’s Italy.

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Strage di Karlsruhe: una storia non raccontata

5 Lug

A Karlsruhe,  è accaduto che un uomo  di 54 anni e la sua compagna, ex proprietaria dell’appartamento, hanno resistito allo sfratto, asserragliandosi in casa, dopo aver preso in ostaggio l’ufficiale giudiziario e due suoi accompagnatori, un mediatore sociale del comune ed un fabbro, cui si è aggiunto un manager della società che ha acquistato l’appartamento, sopraggiunto poco dopo.

Dopo pochi minuti, quando il sequestratore si è reso conto che l’ufficiale giudiziario non intendeva sospendere l’esecuzione dello sfratto, la situazione è precipitata nel panico totale. L’ufficiale giudiziario ha tentato la fuga ed è stato colpito due volte alle gambe. Intanto, i vicini di casa allertavano la polizia e il fabbro ha dovuto legare gli altri due ostaggi con delle fascette e metterli a sedere sul divano.

Proprio in quel mentre, il giovane fabbro avrebbe tentato di strappare l’arma al sequestratore senza successo, restando gravemente ferito da quattro o cinque colpi alla testa ed al torace, dove è stato lasciato morire.

Circa 40 minuti più tardi, l’assistente sociale poteva lasciare l’appartamento e, nell’allontanarsi, sentiva esplodere 4-5 colpi di arma da fuoco. Prima di eseguire il massacro e suicidarsi, il sequestratore ha dato fuoco ad un tappeto, provocando l’incendio dell’appartamento.

Dopo tre ore, le forze speciali tedesche ( SEC ), che avevano circondato l’edificio, hanno fatto irruzione e li hanno trovati tutti morti. “Quando le forze dell’ordine sono entrate nell’appartamento, tutte e cinque le vittime erano già morte. Non c’è stato uso delle armi da parte  della polizia,” ha precisato il procuratore aggiunto Spitz.

L’abitazione, di tre stanze, era stata pignorata a causa del ritardato pagamento di alcune rate del mutuo. Inoltre, come riporta il Taz.de Tageszeitung, ambedue erano disoccupati ed a causa dello sfratto si sarebbero dovuti separare: lui in Alsazia dove aveva il domicilio, lei in una stanza e poco più in un edificio pubblico di Kalsruhe destinato alle emergenze abitative.

Una tragedia ampiamente evitabile, secondo buon senso, ma non secondo il ministro socialdemoratico della Giustizia del Baden-Württemberg, Rainer Stickelberger, che ha definito la tragedia un “unbegreiflichen Tat” (atto incomprensibile), come riporta il Der Spiegel.

Peccato che tutto questo non sarebbe accaduto in un paese europeo diverso dala Germania, dove ingiunzioni, pignoramenti e sfratti sono una procedura che viene messa in atto dagli interessati tramite un pubblico ufficiale con una ben specifica parcella. Contese private …

E, sempre puntando i riflettori sulla Germania di Angela Merkel e della Socialdemocrazia renana, dobbiamo accorgersi che, ad ore ed ore dai fatti, non si conoscono nè i nomi nè le ‘storie’ del sequestratore e delle altre vittime. E, senza ‘storie’, niente ‘perchè’ a cui rispondere.

Una inaudita violazione del diritto di cronaca che si protrae, mentre i quotidiani iniziano a mettere in luce le contraddizioni che emergono dalle prime dichiarazioni delle forze di polizia tedesche.

Secondo il procuratore, le vittime sono state ‘letteralmente giustiziate’ dal sequestratore, ma l’ufficiale giudiziario è stato prima ferito ad una gamba, probabilmente perchè aveva tentato la fuga.  Oppure che l’autore del sequestro non avesse precedenti per reati violenti, ma era stato descritto come ben armato e con una certa dimestichezza con le armi. (Faz.net) In realtà, come riporta Die Zeit, aveva un fucile da caccia, due pistole ed una bomba artigianale.

‘Ci sono indicazioni dell’utilizzo di circa  200 agenti di polizia, tra cui molte forze per operazioni speciali. “Molte cose sono ancora oscure”, ha detto il portavoce della polizia’.  (Der Spiegel) Infatti, ‘diversi isolati sono stati evacuati nella zona nord della città. Per motivi di sicurezza i residenti non hanno potuto rientrare nelle loro case’ e gli studenti due istituti ed i bambini di una scuola d’infazia sono stati bloccati nelle scuole.  (Taz.de) Un numero di agenti e di ‘terrore’ generalizzato spropositati, che hanno mandato in tilt i quartiere settentrionali di Karlsruhe, mentre nell’appartamento erano già tutti morti e divampava, all’insaputa di tutti, un incendio.

Così andando le cose, non ci resta che prender atto – dopo la Norvegia di Anders Brevik – che anche in Germania ci son cose che vanno bene ed altre che meriterebbero, viceversa, maggiori approfondimenti.  Come il diritto di cronaca, che va a farsi benedire, se le news di stasera ed i tabloid fi domani continueranno a raccontare una storia senza volti e senza perchè.

Preso atto che nella socialdemocratica ‘valle dell’Eden’ germanica si spara e si muore per un mutuo, ritorniamo alla realtà, quella che per il ministro socialdemoratico della Giustizia del Baden-Württemberg, Rainer Stickelberger, è “unbegreiflich” (incomprensibile), cerchiamo di spiegare alla buona come si sia arrivati all’eccidio.

Immaginiamo una coppia di cinquantenni che (soprav)vivono arrangiandosi e che perdono l’unico bene – l’unica ancora di salvezza, la casa – per dei pagamenti ritardati  e che, a causa dello sfratto e  dato che lui è domiciliato in un altro Lander e non ha diritto ai servizi sociali del Baden Wuttemberg – debbano separarsi  per affrontare una misera vita ‘da vecchi’ in una blockhaus per poveri.

Considerata l’età anagrafica del sequestratore non è difficile pensare che, essendosi accorto di non essere nella ‘valle dell’Eden’, si sia reso anche conto di esser figlio di una ‘gioventù bruciata’, come quella che, 35 anni fa, ascoltava un motivetto dei The Clash” – l’unico scritto e cantato da Joe Salomon – che diceva: “When they kick out your front door, how you gonna come? With your hands on your head or on the trigger of your gun?  When the law break in, how you gonna go? Shot down on the pavement or waiting in death row”?

Una canzone molto nota anche dalle parti di Karlsruhe, visto che la band dei Toten Hosen ebbe la sua  prima notorietà proprio con una cover semi-acustica delle ‘pistole di Brixton’. Una ballad che racconta molto bene cosa sia accaduto a Karlsruhe, ieri, nella mente di due persone che si son viste cancellare – per dei banali pagamenti – la storia intera di una già modesta vita e quelle briciole di futuro, alle quali anche loro avrebbero avuto diritto.

La gente non va portata alla disperazione. Altrimenti, ci scappa il morto ed, a volte, non sono solo suicidi.

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Strage ad Oakland. Il movente? Rivalsa …

3 Apr

Sette morti, tre feriti gravi: ecco l’ennesima strage, questa volta all’interno di una università statunitense, la Oikos University, una piccola università  d’ispirazione cristiana  ad Oakland, in California.

Come al solito, nelle cronache, troviamo la definizione di “folle”, come in altri casi abbiamo letto le parole “islamico” o “anarchico”. E come al solito, accade che nessuno si interroghi – analisti, politici, militari e giornalisti – sul nuovo corso del terrorismo, iniziatosi nel 1995 con il massacro di Oklahoma City in cui venne demolito, con un “camion bomba”, l’edificio federale Alfred P. Murrah, sede dell’FBI, in cui morirono 168 persone e se ne ferirono oltre 800.

Un attentato avvenuto  sei anni prima dell’abbattimento delle Torri Gemelle, che ha visto l’uso di tattiche ed “armi” non convenzionali, che era mirato non alla semlice strage, ma alla disarticolazione di una leadership (FBI), che venne eseguito da due sole persone (Timothy McVeigh e Terry Nichols), politicizzate ma prive di contatti o collegamenti, che aveva come movente la “rivalsa” (in ingl: revenge) e non un mondo migliore.

Un attentato cui fece seguito quello delle Twin Towers, attuato da una cellula jihadista, collegata al network Al Qaeda di cui l’emiro Osama Bin Laden era uno dei fondatori. Anche in questo caso parliamo di tattiche ed “armi” non convenzionali, non di una semlice strage, ma della disarticolazione di una leadership (Wall Street), un attacco eseguito da poche persone, politicizzate ma prive di contatti o collegamenti sul posto, che aveva come movente la “rivalsa” e non un mondo migliore.

Nella confusione e nello shock collettivo seguito all’11 settembre, George Walker Bush ed i suoi consiglieri trovarono utile affermare qualche mezza verità ed un paio di grosse bugie pur di nascondere una realtà ben più complessa, ma anche relativamente semplice.

Nacque il teorema della “guerra asimmetrica” e dei “combattenti non belligeranti”, in cui degli “stati canaglia” finanziavano delle “cellule terroristiche”, motivate da una fede corrotta o da fame di denaro. In realtà, gli “stati canaglia” non c’erano (salvo forse l’Afganistan del Mullah Omar), la “guerra asimmetrica” non esisteva, se non nella quantità di missili e bombardieri in dotazione alla USAF, i “combattenti non belligeranti” erano spesso degli “insorgenti”, le “cellule terroristiche” erano motivate dalla “revenge” e non solo e semplicemente dalla “fede corrotta”.

Così andando le cose, specialmente per colpa di un sistema mediatico che raramente riesce a contraddirre, con propri studi, le informazioni “official”, accadde che iniziasse la “War on Terror” che ancora oggi coinvolge le forze armate di mezzo mondo contro un nemico invisibile e largamente inesistente, come comprovano le statistiche decennali relative a complotti ed attentati attuati o sventati che vedono all’opera singoli o pochi individui, solitamente “pazzi”.

Non a caso le misure “antiterrorismo”, messe finora in atto, poco hanno a che vedere con l’attentato del kamikaze isolato ed a nulla servono se ad agire è un network (islamico o narcomafioso che sia), ma che tanto servono a prevenire il terrorismo interno, quello spontaneo, quello dei cittadini che “impazziscono”.

Ed, infatti, nonostante si sia ingigantito il controllo sulle armi, sui prodotti chimici di base, sulle transazioni di denaro, su determinati ambienti e persone, solo in Europa ci ritroviamo, nel giro di un anno o poco meno, con i roghi di Atene e le persone bruciate vive dai Black Blocks, il massacro di Utoya attuato da Brevik, la mattanza di Tolosa, attuata da Mohammed Merah, la ripresa del terrorismo “endemico” in Italia, tra pacchi bomba, sabotaggi e pistolettate, l’eccidio (ormai trimestrale o quasi) in un campus universitario.

Tutti attentati condotti con tattiche ed “armi” modeste o non convenzionali, finalizzati alla disarticolazione di una leadership o di un gruppo preciso, eseguiti da singoli individui, politicizzati ma aventi come movente la “rivalsa”.

Dunque, si sbaglia chiunque pensi che la fine delle ideologie coincida con una periodo di “pace” sociale, come si sbaglia chi pensa che per far risorgere il terrorismo serva una “organizzazione”.

Analizzando i tanti atti di “terrore” avvenuti nella Storia, raramente ci troviamo dinanzi ad individui ben collegati o parte di una organizzazione, un aspetto che prende forma solo nel Novecento con le organizzazioni paramilitari marxiste-leniniste o con i movimenti nazionalistici come l’IRA irlandese, l’ETA basca, la Banda Stern israeliana, Al Hamas palestinese.

Gli atti terroristici sono azioni condotte da pochi, se non singoli, individui o da organizzazioni o network con forti connotazioni settarie, un po’ come la Congrega degli Hashassin di un migliaio di anni fa, ai quali vanno ad aggiungersi gli attentati condotti da o per conto di uno dei tanti cartelli narcomafiosi operanti nel mondo.

D’altra parte cosa aspettarsi dal Liberismo, se, finite le ideologie e trasformati i partiti in grosse ammucchiate, non resta solo l’antipolitica, così “utile” per chi, come i poteri finanziari, necessita del “divide et impera” per condurre i propri giochi.

Riemerge con imperio il “prepolitico”, come i Communards antropofagi del 1848 parigino, le bande armate come quella di Bonnot o di Pancho Villa, gli atti isolati come quello di Apple ad Odessa, i regicidi come quello di Umberto I di Savoia ucciso dal meridionale Gaetano Bresci, quarante anni dopo l’annessione delle Due Sicilie.

La sete di “rivalsa”, figlia dell’esasperazione e nipote dell’esclusione, è la “dea” che guida la mano di un attentatore, non le “ideologie”, come tanti, molto speranzosamente, vorrebbero credere.

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Siria, stop alla violenza

19 Dic

Il vice ministro siriano degli Esteri, Faisal Mekdadha, ha firmato oggi un protocollo con la Lega Araba, al Cairo in Egitto, accettando l’invio di osservatori internazionali.
La “tregua”, almeno questo si auspica, arriva dopo nove mesi di brutale repressione delle proteste popolari contro il presidente Bashar al-Assad.

La Siria era stata sospesa, due settimane fa, dalla Lega Araba a causa del suo rifiuto ad avviare una transizione democratica.
La firma arriva a due giorni, inoltre, da quando la Russia, patron storico della Siria, aveva per la prima volta condannato le violenze in corso da mesi nel paese.

Le violenze attuate da militari e civili schierati con il regime baathista, instaurato dal padre dell’attuale presidente, hanno causato almeno 5.000 morti tra i civili in pochi mesi.

Moltissimi gli arresti e le violenze tra gli intellettuali e la società civile, di cui i media internazionali chiedono notizie e rilascio, tra cui quello di Razan Ghazzawi, un avvocato dei diritti civili e blogger internazionale, arrestata 20 giorni fa ed ancora detenuta nelle prigioni di Damasco.

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Razan Ghazzawi, una blogger arrestata in Siria

4 Dic

Le autorità siriane hanno arrestato Razan Ghazzawi, blogger del network Global Voices, al confine siro-giordano, mentre stava andando ad Amman, in Giordania, per partecipare ad un workshop sulla libertà di stampa nel mondo arabo.

Il suo arresto ha attirato le critiche e l’indignazione dei blogger e degli attivisti di tutto il mondo, che chiedono il suo rilascio immediato.

Razan Ghazzawi  è una dei pochi blogger attivi in Siria, che scrive sotto il suo vero nome, sostenendo i diritti delle persone arrestate dal regime siriano, così come i diritti dei gay e delle minoranze.

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