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Parlamentari: troppe indennità e rimborsi. Mario Monti incluso.

20 Nov

I gruppi parlamentari hanno l’esigenza di essere supportati da una struttura amministrativa e tecnica, onde permettere ai propri parlamentari di assolvere alle funzioni cui sono chiamati. Andiamo dalle segreterie ai portaborse ed ai consulenti tecnici, che ci costano ben 75 milioni annui, praticamente 75.000 euro a parlamentare.

Dunque, giusto per dare una misura ad ogni eletto, oltre al vitalizio eccetera, l’Italia ritiene che sia giusto concedere l’equivalente di due impiegati, oltre ai 300 milioni che già ordinariamente vanno via sotto forma di rimborsi elettorali.

Dei soldi che l’Italia non dovrebbe spendere, in toto o in parte, per dei ben precisi motivi.

Infatti, i fondi che i singoli gruppi ricevono servono, secondo loro, a far funzionare un sistema complesso, che in realtà è, soprattutto, opaco, visto che il personale che grava sul bilancio del gruppo percepisce un rimborso, e non un compenso, mentre  l’indennità dei capigruppo, che non viene resa pubblica,  è  discrezionale.

Ma anche perchè, se il personale o le spese servono, come sembra, per mantenere il contatto con gli elettori, è evidente che questi sono costi di partito, che vanno coperti  con i soldi, non  pochi, che versiamo ai partiti, mentre i lavoratori vanno regolarmente contrattualizzati ed assicurati.

E, soprattutto, perchè, ci sono gruppi con tanti parlamentari e gruppi con pochi, fatto che implica, come conseguenza, che i piccoli gruppi ed il gruppo misto si ritrovino con ingenti somme a gestire qualcosa che somiglia più ad una segreteria personale di uno o poco più di un eletto, che ad un organismo che serva a consentire la piena partecipazione dei parlamentari alla ‘vita d’aula’.

Attualmente sono 56 alla Camera e al Senato i parlamentari che, eletti in una colazione od un partito, se ne sono dissociati e fanno oggi parte del cosiddetto Gruppo misto.

Alla Camera stiamo parlando di un sesto dell’emiciclo, ben 56 deputati: Fabbri Luigi, Mosella Donato, Pisicchio Pino, Tabacci Bruno (Alleanza per l’Italia), Buonfiglio Antonio, Ronchi Andrea, Scalia Giuseppe, Urso Adolfo (Fare Italia), Gaglione Antonio, Grassano Maurizio, Guzzanti Paolo (Iniziativa Liberale), La Malfa Giorgio, Melchiorre Daniela, Tanoni Italo (Liberal Democratici MAIE), Antonione Roberto, Gava Fabio, Mistrello Destro Giustina Santori Angelo, Sardelli Luciano Mario (Liberali per l’Italia – PLI),  Brugger Siegfried, Nicco Roberto, Zeller Karl (Minoranze Linguistiche), Belcastro Elio, Iannaccone Arturo, Porfidia Americo (Autonomia – Lega Sud),  Fallica Giuseppe, Grimaldi Ugo, Iapicca Maurizio, Miccichè GIanfranco, Misiti Aurelio, Pittelli Giancarlo, Pugliese Marco, Soglia Gerardo, Stagno D’alcontres Francesco (Grande Sud – PPA), Commercio Roberto, Lombardo Angelo, Oliveri Sandro, MPA – Alleati per il Sud), Mannino Calogero, Nucara Francesco, Ossorio Giuseppe, Pepe Mario (Repubblicani Azionisti) e, non iscritti ad alcuna componente, Alessandri Angelo, Barbareschi Luca, Cambursano Renato, Craxi Stefania, Donadi Massimo, Formisano Aniello,  Giulietti Giuseppe, Laganà Fortugno Maria Grazia, Lanzillotta Linda, Lo Monte Carmelo, Ria Lorenzo, Straquadanio Giorgio, Vernetti Gianni, Versace Santo.

Prendiamo atto che i parlamentari meridionalisti sono 16, praticamente un partito, e che non da meno sono i liberali, almeno 11 ma ben oltre i venti totali, a sentire dichiarazioni e programmi.
Sarà un caso che Report ci spiega come esista anche la “zona grigia” dei gruppi misti, ai cui membri si continua a garantire un’indennità tra i 75mila e i 150mila euro annui ciascuno?

Passando al Senato, il fenomeno è certamente minore, visto che del Gruppo misto fanno parte Pistorio Giovanni ed Oliva Vincenzo (MPA), Astore Giuseppe (Partecipazione Democratica),  Bodega Lorenzo e Mauro Rosy  (SGC), Del Pennino Antonio (PRI), Tedesco Alberto (MSA), Ciampi Carlo Azeglio, Levi-Montalcini Rita, Lusi Luigi,   Rossi Nicola,   Stiffoni Piergiorgio, Monti Mario.

Mario Monti, che esibisce al mondo la propria sobrietà, ma che pochi giorni prima aveva ottenuto la carica ed vitalizio (in pratica di questo si tratta essendo finchè morte non soprravvenga) di senatore a vita, oltre, secondo quanto spiegato da Report, a fruire dei rimborsi come appartenente al Gruppo misto.

Circa un anno fa, Il Giornale esponeva nel dettaglio questi costi, dati dall’entrata in politica di Mario Monti, che “aggiunge 12.005,95 euro lordi di indennità, più 12.680 euro netti di rimborsi, al costo mensile dei senatori italiani. In un anno (12 mensilità) fanno 144mila euro lordi di stipendio, e 152mila di rimborsi: circa 300mila euro l’anno di costo per Monti senatore a vita. Lo stipendio è il 70% di quello di un magistrato con funzione di presidente di sezione della Cassazione.”

Focalizzato che un Presidente di Cassazione guadagna oltre 200.000 euro annui, mentre un senatore ‘solo’ 144.000, prendiamo atto che Il Giornale parla di indennità e rimborsi – per Mario Monti – nell’ordine di circa 25.000 euro al mese, che si ‘aggiunge’. A cosa?

Ad esempio, ai 35.000 euro circa di pensione, che sembra percepisca, come riportano diversi siti.

Ma anche, non dimentichiamo che «i senatori usufruiscono di tessere strettamente personali per i trasferimenti sul territorio nazionale, mediante viaggi aerei, ferroviari e marittimi e la circolazione sulla rete autostradale»: non pagano aerei, treni, traghetti e caselli autostradali.

Qualche malizioso potrebbe dubitare che la scarsa incisività di Mario Monti sui costi della politica possa avere come elemento significativo la sua appartenenza alla Casta, avvenuta con la sua nomina a senatore a vita. Una ‘significanza’ che chiarirebbe anche come e perchè da un anno arrivano solo norme che toccano i meno abbienti e le imprese medio-piccole e piccolissime.

Un’ipotesi possibile che resta un’ipotesi.

Non come i fatti, che vedono il sobrio Mario Monti quasi raddoppiare il proprio reddito, le somme a sua disposizione ed i suoi privilegi, mentre fustiga sprechi e restringe diritti.

Le propietà immobiliari dei partiti? Leggi anche L’italia ingiusta

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Ritornare a Sanremo

15 Feb

Lo scorso anno, l’audience massima del Festival della Canzone Italiana di Sanremo si  era registrata durante la serata finale,  alle ore 22:13, mentre una Lorella Cuccarini “desnuda” attraeva ben 15.195.000 telespettatori, secondo Auditel. Mediamente, la serata si era mantenuta su un tetto di 14 milioni di telespettatori.

Un anno fortunato per Sanremo, il 2010, che aveva conquistato uno share elevato, ovvero vicino o superiore al 50% dei telespettatori nei momenti di punta, relegando le altre reti a quote infime, fatta eccezione per qualche singolo programma come Santoro od il Milan in Champions oppure il Kubrick di “Eyes wide shout” o, ancora, la prima visione Premium Crime.

Auditel, però, non ci dice che età abbiano e dove vivano i telespettatori di Sanremo.

Un dato di cui Auditel è in possesso certamente e che andrebbe reso pubblico, come andrebbe reso pubblico il bilancio finanziario, a consuntivo, del Festival di Sanremo e che invece viene fagocitato nel rendiconto generale della RAI.

Tre o quattro informazioni, da cui farci un’idea di possa essere “il popolo di Sanremo”, però, le abbiamo ed arrivano proprio da Auditel per Sanremo 2010.

  • Prima serata: la partita del Milan in Champions tiene un 15% dello share, Canale5 va sotto il 10% con Notting Hill, Ballarò mantiene comunque un modesto share
  • Terza serata: RaiDue con Michele Santoro si avvicina al 20% di share, mentre il Festival raggiunge una punta di 28 milioni di contatti durante la serata “revival” dedicata ai festeggiamenti della 60° edizione.
  • Quarta serata: Premium “Crime” si attesta tra i 2 ed i 4 milioni di telespettatori.
  • Finale: RaiUno si attesta sui 3 milioni con il Kubrick di “Eyes wide shout”

L’impressione che si riceve da questo questo quadro è che questi telespettatori – che evitano il festival – siano relativamente giovani, preferibilmente maschi, probabilmente acculturati, “più europei e meno italiani”. Altra impressione è quella di ritrovarsi dinanzi ad una sorta di rito da teledipendenza che si perpetua di generazione in generazione.

Tenuto conto che sul palco ci sono Morandi (1944) e Celentano (1938) e che sempre e solo di “canzone melodica” parliamo, il “quadro d’insieme” coincide con i pochi dati di confronto.

Potremmo, addirittura, approssimare l’ipotesi – viste le percentuali “bulgare” di share pro Sanremo – che una buona parte dei telespettatori del Festival siano coloro che comunque vedono la televisione in quella fascia serale, ovvero che la costosa iniziativa della RAI non comporta un incremento “importante” del pubblico televisivo, bensì sottrae semplicemente attenzione a quant’altro accade in televisione in quei giorni.

In termini di “democrazia” non è una gran bella notizia, quella di sapere che c’è una settimana in cui gli italiani vedranno “solo” Sanremo e TG RAI, ma non è questo il problema, anche se dovremmo sempre ricordare che la televisione pubblica dipende direttamente dal governo e non dal parlamento, tramite un consiglio d’amministrazione ed un ministero affidatario.

Il problema è che il Festival di Sanremo si è già ampiamanete dimostrato un costoso carrozzone, afflito da scandali ed indagini, che non ripaga l’investimento fatto – a carico delle tasse degli italiani e delle aziende che sponsorizzano – nè in termini di notorietà della musica italiana all’estero, nè in termini di maggiore opportunità di intrattenimento, nè, visto a cosa assistiamo, di qualità – minima e dovuta – di un servizio pubblico e di una televisione di Stato.

Infatti, il solo cachet per “una serata con” Adriano Celentano è costato alla Rai quello che costano “le sedi giornalistiche Rai nel Sud del mondo (in Africa, in Asia, in Sud America) e farle funzionare per un anno intero”.

In un’Italia che si dibatte tra la neve e gli arrangiatevi, mentre l’Euro affanna, con Monti ed i partiti che perdono consenso interno, non resta che chiederci quanti telespettatori seguirebbero il Festival di Sanremo – per cosa è diventato – se non spendessimo i soldi dei contribuenti per ospiti e star “fine a se stessi”.

L’epoca dei festival si conclude nel lontano 1976, quando venne abbandonata la sede del Casinò di Sanremo, che originariamente – e più propriamente – gestiva l’evento, per trasferire il tutto presso il Teatro Ariston di Sanremo. Uno “snaturamento” che segnò il passaggio dalla manifestazione canora al format televisivo, per un’iniziativa che, originariamente, nasceva dall’esigenza, in febbraio, di offrire un evento di rilievo – tra Natale e Pasqua – per i VIP che americani ed europei che venivano a “svernare” sulle rive del Tirreno.

Riportiamo il Festival agli splendori di una manifestazione canora italiana: neanche uno share del 50% in 4 giorni può giustificare un evento televisivo, sprecone e fine a se stesso, visto che i cachet più alti vanno agli ospiti e che le vendite discografiche raramente, ngli ultimi decenni senremesi, riflettono l’andamento effettivo di royalties e vendite nel corso dell’anno, nè abbiamo visto proseguire nella carriere molti, probabilmente troppi, dei tantissimi partecipanti a Sanremo.

Chiudiamo con “questa” “Sanremo – RAI” e ritorniamo al  Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

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