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L’Italia (in)giusta, che Grillo non vuole

5 Mar

L’Italia di oggi, come quella della Prima Repubblica, è piena di uomini e donne, che ancora ricoprono posti di lavoro o cariche pubblici e che, grazie al nostro sistema di giustizia, possono vantarsi di ‘non aver sfasciato il Paese’ e, soprattutto, di ‘aver creduto di essere nel giusto’.

Impossibile redigere una classifica, vuoi per l’efferratezza delle furbate abissali, che solo oggi media e giustizia scoprono, vuoi per il numero enorme dei ‘furbi’, che, puntualmente, cadono dalle nuvole, come se non avessero mai trascorso due giorni in un posto di lavoro normale con delle regole normali.

Qualche caso ‘eccellente’, però, possiamo facilmente individuarlo.

Infatti, un winner c’è e si chiama Consiglio regionale del Lazio, con Governatore Renata Polverini e, soprattutto, come presidente Mario Abbruzzese, un amministratore pubblico che ha speso 18.660 euro per acquistare 67 penne Montblanc da 278 euro ciascuna,  21.408 euro per cento cesti natalizi costati, 76.791 euro spesi in «agende da tavolo», 10.560 euro in biglietti di auguri, per un totale di spese di rappresentanza per ben 1.987.092 euro.

Inutile aggiungere che Mario Abbruzzese è stato rieletto, sempre nelle liste del PdL nel territorio di Cassino, che si trova a metà strada tra Fondi e Isernia e dove sono stati sequestrati beni per numerosi milioni di euro ai Casalesi, i quali avevano implementato nel Lazio Sud le prime teste di ponte già 30 anni fa or sono.

Come c’è la sentenza d’arresto per Nicola Cosentino, accusato per concorso esterno in associazione mafiosa per presunti rapporti con il clan dei Casalesi.
Un uomo del PdL voluto da Silvio Berlusconi nel suo governo come sottosegretario alle finanze e, più o meno contemporaneamente, ritenuto dalla Direzione Distrettuale Antimafia un “politico in grado di favorire i clan nella gestione di affari in Campania, in particolare la vicenda rifiuti nel periodo dell’emergenza”.

Fatti gravissimi, quelli del PdL, che trovano ampi corrispettivi se si considera che anche il Partito Democratico razzola male, a leggere dei tanti scandali e processi che convolgono suoi amministratori, e, soprattutto, è il principale artefice delle varie leggi che hanno dato il via al saccheggio delle finanze italiane da parte dei partiti, come erano suoi i voti che hanno permesso a governo Berlusconi di ‘affondare il colpo’ nell’ultimo decennio:

  1. 1993 – 1.600 lire per italiano, compresi quelli privi di diritto al voto (governo Amato)
  2. 1997 – 4 per mille a favore dei partiti (governo Prodi)
  3. 1999 – aumento  a 4.000 lire per iscritto alle liste elettorali della Camera (governo D’Alema)

Una breccia, quella dei ‘rimborsi’ per spese elettorali (per altro spesso non effettuate), che viene introdotta, ricordiamolo, dopo che gli italiani avevano votato un referendum che negava il finaziamento pubblico ai partiti.

A seguire, arriverà poi, nel 2002 l’aumento ‘fisiologico’ a 5 euro da parte del governo Berlusconi, che, nel 2006, estenderà al quinquennio i rimborsi elettorali, prescindendo dalla durata della legislatura. Una norma fatta apposta, ad averci una sfera di cristallo, per l’UDEUR e l’PRC che dal 2008 al 2013, caduto il Governo Prodi, continuarono a percepire denaro pubblico, come anche la Margherita, poi disciolta e, sostanzialmente, confluita nel PD.

Non è un caso che Cesare Salvi e Massimo Villone, autori de «Il costo della democrazia» dove denunciavano lo scandalo, non facciano più parte del Partito Democratico. Non lo è neanche il fatto che, pur fuori dal Parlamento, abbiamo potuto creare la Federazione della Sinistra nella quale sono andati a confluire i rimborsi di Rifondazione Comunista, un partito semi-estinto dal pensionamento di Bertinotti.

Un Partito Democratico al quale uno studio di Libero,  su dati Camere di commercio – Agenzia del Territorio, attribuisce un patrimonio immobiliare del valore di circa 1,2 miliardi di euro, di cui “l’80% circa riguarda proprietà immobiliari che risultano ancora in capo alle forze politiche in cui pianta le sue radici il Pd”.
Praticamente più di 3.000 fabbricati e più di 500 appezzamenti, con rendite catastali, agrarie e dominicali per circa 2,8 milioni di euro, con un valore fiscale IMU di circa 500 milioni di euro.

“Gran parte è intestato ancora al Partito democratico della sinistra e alle sue strutture territoriali (unità di base, federazioni regionali, comunali e territoriali di varia natura), nonché alle immobiliari che risultano ancora di sua proprietà. Solo nell’area Pci-Pds-Ds-Margherita-Ppi-Pd sono 831 i diversi codici fiscali che risultano intestatari di fabbricati.
Fra questi ci sono sicuramente le sezioni del vecchio PCI, che risulta ancora intestatario al catasto di ben 178 fabbricati e 15 terreni. Ma vedendo numeri di vani e caratteristiche di ciascun immobile, è difficile che proprietà accatastate come abitazioni di 12 o 14 vani o uffici di metrature ancora più ampie possano corrispondere al classico identikit delle vecchie sezioni territoriali.
I democratici di sinistra controllano gran parte del patrimonio immobiliare attraverso le nuove fondazioni che ha costituito con pazienza il tesoriere Ugo Sposetti. Particolarmente ricche quelle umbre e quella di Livorno.”

Quali possano essere i costi manutentivi e di funzionamento di questo enorme patrimonio è difficile quantificarlo – probabilmente centinaia di milioni di Euro – come anche è molto difficile immaginare i costi degli apparati che li usano.
Ancora più difficile capire come sia stato possibile per un partito accumulare un tale enorme patrimonio e come possa mai gestirlo non cadendo in frodi di qualche genere o, peggio, in qualche conflitto di interessi.

In due parole, davvero non si comprende se ci si trovi dinanzi ad una azienda o ad un partito.
Sarà un caso che il Movimento Cinque Stelle abbia chiesto a Bersani una legge sul finanziamento dei partiti ‘subito’ e dal fronte montiano sia già arrivata la richiesta per una legge sulle rappresentanze sindacali.

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DDL diffamazione: si ricomincia da capo?

7 Nov

Silvia Della Monica, relatrice al Senato del disegno di decreto relativo alla diffamazione a mezzo stampa e con strumenti telematici, ha dato le dimissioni perchè “anche se il voto sarà segreto io voterò contro l’articolo 1” e per questo “non posso continuare a svolgere il ruolo di relatrice”.
Il disegno della cosiddetta ‘legge bavaglio’ torna dunque in Commissione con l’obiettivo di trovare “un testo assai più snello e condiviso”, come spera la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro.

Cosa era successo all’articolo 1 del DDL Diffamazione al punto da convincere la senatrice del Partito Democratico a dichiarare anticipatamente il suo voto e lasciare i lavori?

All’inizio, quando presentarono il disegno normativo, il testo del’articolo 1 determinava che “alla legge 8 febbraio 1948, n.47, sono apportate le seguenti modificazioni:

  • a) l’articolo 12 è sostituito dal seguente «Art. 12. (Riparazione pecuniaria). — 1. Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 185 del codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato e non può essere inferiore a 30.000 euro.»;
  • b) l’articolo 13 sostituito dal seguente «Art. 13. — (Pene per la diffamazione). — 1. Nel caso di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della multa non inferiore a 5.000 euro».

Un paio di ‘aggiornamenti’ alla norma del 1948, in modo da escludere il carcere per un reato d’opinione commesso a mezzo ‘stampa’, ovvero non includendo necessariamente tutto quanto viene scritto nei social netowrk o dai blog, sottoposti alle ordinarie norme del codice penale.

Aggiornamenti pesantucci, se consideriamo che ‘non inferiore a 30.000 euro’ suona come un’ingiunzione fallimentare per qualunque piccola testata.
Aggiornamenti peggiorativi, se parlassimo  dell’articolo 2, dove si continua a fare riferimento a concetti come ‘decoro’, ‘onore’, ‘reputazione’, anzichè  alla semplice ed oggettiva nozione di veridicità.

Preso atto che alla relatrice PD Silvia Della Monica, inspiegabilmente, crea problemi l’articolo 1 e non l’articolo 2, mentre alla Commissione sembra che piacciano tutti e due, torniamo a capire cosa è accaduto di così grave all’articolo uno.

Tutto e nulla, nel senso che non è dato saperlo se non prendendo atto che gli emendamenti tra Commissione ed Assemblea sono stati più di 300, mentre il testo presentato era di 120 parole, congiunzioni incluse.

E’ evidente che la Commissione non riesce a superare l’en passe.

Da un lato, la condanna di Sallusti non può divenire un altro caso Kydonis vs. Grecia, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Grecia, obbligandola al risarcimento dei danni materiali e morali al giornalista ritenuto colpevole di diffamazione ed incercerato.
D’altra parte, la necessità d’intervento sul Codice Penale, che prevede la detenzione, rende opportuno aggiornarlo in funzione delle nuove tecnologie telematiche e qui si complicano le cose.
Nel contempo, come lasciar cadere un’occasione così prelibata e succulenta per bloccare la massiva mole di post, disegni e commenti a ruota libera che tappezzano, oramai, ogni angolo di internet?

Così è accaduto che il Senato, si spera inconsapevolmente, non riesca a rendersi conto che ledere l’onore, la reputazione o il decoro sono concetti particolarmente sdruccioli se navighiamo in rete, non solo in Italia quanto nei paesi più avanzati del nostro, dove porsi domande e borbottare al pub sono diritti ancestrali.
E non si riesce a far prendere atto ai nostri eletti che è ancora più deformante imporre l’obbligo di rettifica ad un mondo – quello telematico – che si fonda sul diritto di replica (lasciare un commento). Un diritto/dovere che è previsto anche dal codice francese, seppur molto attento all’onore ed alla reputazione come il nostro.

Ritornando ai 300 circa emendamenti per sole 120 parole ed alla straordinaria capacità dei nostri eletti di scatenare una burrasca anche in un bicchier d’acqua, c’è solo da aggiungere che ‘saggiamente’ è stato rispedito l’intero testo – e non solo l’articolo 1 – in Commissione nell’auspicio che torni indietro ‘assai più snello’.

Segno che la politica nostrana si sia resa conto che con una tale norma (l’articolo due non il primo) metteremmo in crisi l’intero sistema dell’informazione on line, con al primo posto le enciclopedie pubbliche (ndr. Wikipedia è molto allarmata) e, subito a seguire, tutto il resto dell’informazione, inclusa quella pubblicata in altri paesi ma leggibile, ‘diffusa’, anche in Italia?

Taglieremo l’accesso dei lettori al Financial Times o del Daily Mail perchè pubblicano articoli che, seppur scrivendo cose vere, ‘ledono’ l’onore, il decoro, la reputazione di qualche nostro presidente del Consiglio – come di un ministro degli esteri o del Tesoro – e si ostinano a farlo senza neanche rettificare?

Forse.

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Sallusti – Farina: tra libertà di stampa ed intralcio alla giustizia?

27 Set

Il caso Sallusti è piuttosto semplice da ricostruire, almeno negli aspetti salienti.

Nel 2007, un importante quotidiano riporta un fatto di cronaca riguardante una ragazza tredicenne ‘costretta’ dal magistrato ad abortire. La notizia risulta quasi subito non veritiera ed il noto quotidiano smentisce prontamente.

All’indomani, questa notizia viene pubblicata da Sallusti come direttore di Libero in un articolo firmato da un certo Dreyfus (uno pseudonimo),  «Se ci fosse la pena di morte, se mai fosse applicabile, questo sarebbe il caso. Al padre, alla madre, al dottore e al giudice»., «il magistrato ha ordinato un aborto coattivo», «estirpato il figlio e l’ha buttato via».

Incredibilmente, nonostante il rischio di una denuncia per diffamazione, Libero non rettifica la notizia e non lo ha fatto fino ad oggi, a quanto si legge.

La cosa arriva in tribunale, dove Sallusti non rivela il nome di Dreyfus , dunque, si fa volontariamente carico sia delle affermazioni diffamatorie sia della non identificazione del colpevole ‘primario’.

Come prevedibile, Sallusti viene duramente condannato al carcere per circa due anni.

Una storia che ha poco a che vedere con la libertà di opinione e che, invece, è ben esemplare i cosa sia la diffamazione a mezzo stampa e l’intralcio alla giustizia.

Intralcio alla giustizia?

Forse, anzi probabilmente, visto che solo a sentenza conclusa ed ormai ‘al sicuro’, il parlamentare Renato Farina ammette di essere lui Dreyfus.

Un Renato Farina, che, all’epoca dei fatti, non era protetto dall’immunità parlamentare, era stato appena condannato per favoreggiamento (condanna a sei mesi con patteggiamento) e radiato dall’Ordine dei Giornalisti.
Lo stesso che, poi, verrà condannato, nel 2012, in rito abbreviato a 2 anni e 8 mesi di reclusione per il reato di falso in atto pubblico.

Quello coinvolto nell’inchiesta sul rapimento dell’ex imam di Milano, Abu Omar. Il parlamentare che ha fatto visita in carcere a Lele Mora, detenuto per bancarotta fraudolenta, insieme ad un’altra persona che non era autorizzata ad accedere al penitenziario.

Un Renato Farina che, senza l’ostinato silenzio di Sallusti, molto probabilmente oggi non sarebbe un parlamentare, visto che la vicenda avvenne ben prima delle Elezioni Politiche del 2008.

Sallusti non andrà in carcere a causa di quanto si scrive sul suo quotidiano, ma dovrà farlo, si sperà, per aver pubblicato una notizia di cui erano già acclarate la falsità e le potenzialità diffamatorie. Forse, anche per essersi rifiutato di fornire il nome dell’autore, che scopriamo essere non un giornalista, ma un pregiudicato.

Quanto alla libertà d’opinione, un conto è esprimere quanto si pensa o di cosa si dubita, un altro è pubblicare – diffamando familiari e magistrato e senza voler smentire – una ricostruzione sostanzialmente falsa di un triste evento che coinvolge una minorenne.

Già, una minorenne … che aveva diritto a tutta la riservatezza e la privacy possibile, ma non l’ha avuta.
Chissà cosa pensa ‘Valentina’ (nome posticcio agli atti del processo) di tutto quello che è accaduto e di coloro che hanno ‘giocato’ con la sua personale storia e con i sentimenti dei suoi genitori.

Qualcosa di orribile di cui, già da tempo, l’Ordine dei Giornalisti avrebbe dovuto farsi carico.

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Ritornare a Sanremo

15 Feb

Lo scorso anno, l’audience massima del Festival della Canzone Italiana di Sanremo si  era registrata durante la serata finale,  alle ore 22:13, mentre una Lorella Cuccarini “desnuda” attraeva ben 15.195.000 telespettatori, secondo Auditel. Mediamente, la serata si era mantenuta su un tetto di 14 milioni di telespettatori.

Un anno fortunato per Sanremo, il 2010, che aveva conquistato uno share elevato, ovvero vicino o superiore al 50% dei telespettatori nei momenti di punta, relegando le altre reti a quote infime, fatta eccezione per qualche singolo programma come Santoro od il Milan in Champions oppure il Kubrick di “Eyes wide shout” o, ancora, la prima visione Premium Crime.

Auditel, però, non ci dice che età abbiano e dove vivano i telespettatori di Sanremo.

Un dato di cui Auditel è in possesso certamente e che andrebbe reso pubblico, come andrebbe reso pubblico il bilancio finanziario, a consuntivo, del Festival di Sanremo e che invece viene fagocitato nel rendiconto generale della RAI.

Tre o quattro informazioni, da cui farci un’idea di possa essere “il popolo di Sanremo”, però, le abbiamo ed arrivano proprio da Auditel per Sanremo 2010.

  • Prima serata: la partita del Milan in Champions tiene un 15% dello share, Canale5 va sotto il 10% con Notting Hill, Ballarò mantiene comunque un modesto share
  • Terza serata: RaiDue con Michele Santoro si avvicina al 20% di share, mentre il Festival raggiunge una punta di 28 milioni di contatti durante la serata “revival” dedicata ai festeggiamenti della 60° edizione.
  • Quarta serata: Premium “Crime” si attesta tra i 2 ed i 4 milioni di telespettatori.
  • Finale: RaiUno si attesta sui 3 milioni con il Kubrick di “Eyes wide shout”

L’impressione che si riceve da questo questo quadro è che questi telespettatori – che evitano il festival – siano relativamente giovani, preferibilmente maschi, probabilmente acculturati, “più europei e meno italiani”. Altra impressione è quella di ritrovarsi dinanzi ad una sorta di rito da teledipendenza che si perpetua di generazione in generazione.

Tenuto conto che sul palco ci sono Morandi (1944) e Celentano (1938) e che sempre e solo di “canzone melodica” parliamo, il “quadro d’insieme” coincide con i pochi dati di confronto.

Potremmo, addirittura, approssimare l’ipotesi – viste le percentuali “bulgare” di share pro Sanremo – che una buona parte dei telespettatori del Festival siano coloro che comunque vedono la televisione in quella fascia serale, ovvero che la costosa iniziativa della RAI non comporta un incremento “importante” del pubblico televisivo, bensì sottrae semplicemente attenzione a quant’altro accade in televisione in quei giorni.

In termini di “democrazia” non è una gran bella notizia, quella di sapere che c’è una settimana in cui gli italiani vedranno “solo” Sanremo e TG RAI, ma non è questo il problema, anche se dovremmo sempre ricordare che la televisione pubblica dipende direttamente dal governo e non dal parlamento, tramite un consiglio d’amministrazione ed un ministero affidatario.

Il problema è che il Festival di Sanremo si è già ampiamanete dimostrato un costoso carrozzone, afflito da scandali ed indagini, che non ripaga l’investimento fatto – a carico delle tasse degli italiani e delle aziende che sponsorizzano – nè in termini di notorietà della musica italiana all’estero, nè in termini di maggiore opportunità di intrattenimento, nè, visto a cosa assistiamo, di qualità – minima e dovuta – di un servizio pubblico e di una televisione di Stato.

Infatti, il solo cachet per “una serata con” Adriano Celentano è costato alla Rai quello che costano “le sedi giornalistiche Rai nel Sud del mondo (in Africa, in Asia, in Sud America) e farle funzionare per un anno intero”.

In un’Italia che si dibatte tra la neve e gli arrangiatevi, mentre l’Euro affanna, con Monti ed i partiti che perdono consenso interno, non resta che chiederci quanti telespettatori seguirebbero il Festival di Sanremo – per cosa è diventato – se non spendessimo i soldi dei contribuenti per ospiti e star “fine a se stessi”.

L’epoca dei festival si conclude nel lontano 1976, quando venne abbandonata la sede del Casinò di Sanremo, che originariamente – e più propriamente – gestiva l’evento, per trasferire il tutto presso il Teatro Ariston di Sanremo. Uno “snaturamento” che segnò il passaggio dalla manifestazione canora al format televisivo, per un’iniziativa che, originariamente, nasceva dall’esigenza, in febbraio, di offrire un evento di rilievo – tra Natale e Pasqua – per i VIP che americani ed europei che venivano a “svernare” sulle rive del Tirreno.

Riportiamo il Festival agli splendori di una manifestazione canora italiana: neanche uno share del 50% in 4 giorni può giustificare un evento televisivo, sprecone e fine a se stesso, visto che i cachet più alti vanno agli ospiti e che le vendite discografiche raramente, ngli ultimi decenni senremesi, riflettono l’andamento effettivo di royalties e vendite nel corso dell’anno, nè abbiamo visto proseguire nella carriere molti, probabilmente troppi, dei tantissimi partecipanti a Sanremo.

Chiudiamo con “questa” “Sanremo – RAI” e ritorniamo al  Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

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