Alle elezioni per il rinnovo del Parlamento ha votato il 63,91% degli aventi diritto, cioè circa 30 milioni di elettori per la Camera e poco più di 27 per il Senato. Il 36% degli italiani (uno su tre) non si è riconosciuto nei partiti e nei candidati proposti. Congratulazioni a Giorgia Meloni, ma l’Italia ha innanzitutto scelto il dissenso (e starà a lei riconquistarla).
Rispetto alle elezioni del 2018, il dato grezzo mostra che la coalizione Dem / Verdi SI / +Europa è riuscita a mantenere il proprio elettorato (che ha risposto prontamente all’appello ‘antifascista’, as usual) o, comunque, a riassorbirne le perdite. Fatto sta che nel 2013 – con Bersani e Renzi, opponendosi ai Cinque Stelle e senza “allerta antifascista” – di voti il PD ne aveva presi quasi 3 milioni in più.
Andando ai risultati di coalizione, sorgono diversi quesiti:
il Campo Largo immaginato da Zingaretti e Conte avrebbe potuto superare il Centrodestra? Probabilmente no: Conte vince correndo da solo
preferire il centro di Azione IV (lasciando Verdi SI alla coalizione a Cinque Stelle) avrebbe aiutato il PD nell’attrarre il voto moderato e dell’Italia che produce? Certamente si: i risultati di oggi dimostrano che un’alleanza PD Azione IV raccoglie più voti
la responsabilità della debacle della Lega è tutta di Matteo Salvini? Probabilmente si: è lui che fece e lasciò il governo con l’allora sconosciuto (ed oggi potente) Giuseppe Conte ed è con lui che ha staccato la spina al governo Draghi
In altre parole:
all’appello manca un 10% di elettori rispetto alle medie storiche e certamente non sono quelli che da sempre votano ‘a destra’ o ‘a sinistra’; è venuto meno il centro moderato e produttivo
Giorgia Meloni ha conquistato il Parlamento, adesso deve conquistare gli italiani, specialmente quel 10% che si è astenuto, ma “conta” nelle imprese e negli uffici
il Centrosinistra ‘storico’ (PD e alleati) regge ma più di tanto non va con le sue priorità ‘sociali’ e ‘redistributive’, a meno di non cascare nel populismo come ai tempi del PCI
il dimezzamento dei voti per la Lega e per i Cinque Stelle dimostrano che un conto sono i Social, un altro i Media e un altro conto ancora sono le piazze quando poi si va alle urne
l’esito del voto capitolino (dove il Campo Largo ‘piace’) e quello (inverso e negativo) delle ‘province meridionali e insulari’ (con Napoli a capintesta) impone una seria riflessione politica nazionale ed internazionale
dulcis in fundo, a quel 10% ‘produttivo’ che si è astenuto il governo Draghi piaceva (magari non troppo, ma andava), come era stato per quelli tutt’altro che populisti di Monti, Renzi, Prodi e – prima ancora – Craxi e Spadolini; un’Italia rimasta senza un partito da oltre 20 anni?
Chiunque che sarà a capo della Res Publica italiana dovrà scegliere se correre dietro al Popolo ‘populista’ o lasciar lavorare i Liberti ‘professionali’ oppure lasciar arricchire i Senatori monopolisti e ‘sovranisti’. Come al solito a Roma dal 2.700 a.C.
La Liberazione è una guerra iniziata il 9 luglio 1943 e finita il 2 maggio 1945.
Il 25 aprile ne è la ricorrenza nazionale, perchè è la data in cui, con l’appello di Sandro Pertini, iniziò ad insorgere anche Milano, la città dove il Fascismo era nato.
Milano che fino a quel 25 aprile 1945 pensava all’economia e continuava a produrre per la Wehrmacht, nonostante Torino e Genova fossero in sciopero da una settimana.
Questa fu l’importanza di quella data, ma sono anche altre le date sono indispensabili per comprendere cosa accadde e chi fu determinante per la Liberazione: per conoscere la Storia nelle poche certezze che offre, cioè il fatto strettamente bellico.
9 luglio 1943 Pachino (Punta Castellazzo) è il luogo dello sbarco della 231ª brigata canadese che poche ore dopo arriva a Noto, la prima città d’Italia liberata dal nazifascismo
22 luglio 1943 Palermo venne liberata dalla 7ª Armata USA e il supporto della ‘quinta colonna’ di Lucky Luciano
14 agosto 1943 Roma viene dichiarata ‘città aperta’
27-30 settembre 1943Quattro Giornate di Napoli che ottiene il ritiro dalla Campania di circa 20.000 soldati che la Wehrmacht aveva attestato, costringendo gli Alleati ad avanzare, invece di attestarsi per svernare a Salerno.
Dopo quattro mesi, sfondamento alleato della Linea Gustav:
17 gennaio 1944 a Cassino inizia l’attraversamento del fiume Gari da parte degli Alleati e la battaglia che si concluderà il 18 maggio
22 gennaio 1944 Anzio/Nettuno sono occupate dallo sbarco alleato
4 giugno 1944 Roma viene liberata dalla 5ª Armata USA uscita vittoriosa dalla Battaglia di Cassino
15 luglio 1944 il Valdarno vessato dalle truppe naziste è progressivamente liberato dalla 5ª Armata USA e il 5 agosto le truppe naziste abbandonavano la riva sinistra dell’Arno dopo aver fatto saltare i ponti sul fiume
11 agosto 1944Firenze insorge e la battaglia poté dirsi conclusa il 1º settembre 1944, quando anche Fiesole fu liberata.
Otto mesi dopo, sfondamento alleato della Linea Gotica:
18 aprile 1945 Torino si ferma, bloccata dallo sciopero generale e poi dai combattimenti
25 aprile 1945 Milano insorge dopo l’appello del CLNAI per l’insurrezione armata
27 aprile1945Torino è sgomberata dalla Wermacht asserragliata da giorni sotto assedio dei torinesi, mentre Milano è occupata dalla 1st Armored Division USA,
28 aprile 1945 Milano è al sicuro, dopo che la Força Expedicionária Brasileira a Fornovo del Tavo in inferiorità numerica imbottiglia il 148º Grenadier tedesco e un’intera divisione di bersaglieri italiani, catturando un totale di 13.500 prigionieri
29 aprile 1945 Bassano sul Grappa ottiene la resa della Wehrmacht, dopo due giorni di combattimenti sul Brenta e 20 mesi di sanguinaria occupazione nazista
2 maggio 1945 Trieste si consegna alla 2ª New Zealand Division per evitare l’occupazione jugoslava.
Alcuni territori furono meramente sgomberati dai tedeschi (Calabria, Basilicata, Puglia, Molise, Roma), altri cacciarono i nazifascisti a furor di popolo (Napoli, Firenze, Genova, Torino, Trento), altri ancora furono liberati dagli Alleati.
Piuttosto, l’Italia sarebbe stata diversamente liberata senza le Quattro Giornate di Napoli, che costrinsero gli Alleati a risalire verso Roma e i tedeschi ad attestarsi inutilmente sulla Linea Gustav?
Benito Mussolini fu catturato il 27 aprile del 1945 a Dongo e poco dopo venne giustiziato sommariamente.
La Storia alla fine si è incentrata sul linciaggio del Dittatore e della sua amante, anche se dei documenti che portava in un apposito camion blindato non si seppe mai più nulla e se dell’oro dello Stato, anch’esso sparito, le diverse versioni sono tutte convergenti, ma nessuna indagine mai.
Un tesoro che secondo gli americani valeva 610 miliardi di lire e comprendeva, tra l’altro, 42 chili di lingotti, 66 chili di gioielli d’oro, duemila sterline d’oro, 21mila marenghi d’oro, 35 chili di argenteria, persino due damigiane colme di “fedi” d’ oro donate alla Patria.
Parliamo documenti e dei beni dello Stato italiano, che avevano con sé Benito Mussolini e i gerarchi fascisti in fuga verso la Svizzera, quando, il 27 aprile del 1945 a Dongo, furono catturati dai partigiani.
“Di certo si sa che Mussolini aveva il fondo riservato della Repubblica sociale italiana, affidato al prefetto Gatti, consistente in oltre un miliardo in banconote italiane ed estere e in una quantita’ imprecisata di lingotti e monete d’ oro.
C’ erano poi i valori personali dei componenti la colonna, quelli dei tedeschi di Fallmeyer, quelli di tali capitano Kummel e tenente Hess (trentadue milioni), quelli dei ministeri della Rsi, oltre a pacchi di documenti. Sul tavolo del municipio di Dongo si trovavano sicuramente 1.045.880.000 lire, 169mila franchi svizzeri, 2700 sterline di carta, 63mila dollari, 4.043 monete d’ oro, 102.880 chili d’ oro e poi argenteria, collane, braccialetti, pellicce. C’ era poi un camioncino a cui Mussolini teneva moltissimo. Trasportava il suo archivio personale e, presumibilmente, le sue personali sostanze (non aveva appena venduto il giorno innanzi la sede del “Popolo d’ Italia)”. (Silvio Bertoldi – Corsera – 1993)
“L’oro dei fascisti era stato portato quella stessa mattina del 27 aprile ’45 dentro l’acciaieria e fuso nel piccolo forno lontano da occhi indiscreti. Trasformato in migliaia di piccoli lingotti, facilmente occultabili e trasportabili, fu distribuito agli operai, agli abitanti affidabili e amici, ai partigiani anche a quelli venuti da Milano su ordine del Comitato nazionale di liberazione. Per questo il tesoro non fu mai trovato. Semplicemente, perchè in poche ore non esisteva più come tale.” (Alessandro Sallusti – Essere Liberi – 2004)
“In un rapporto segreto del questore di Como, Grassi, al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, e’ detto chiaramente che il grosso del tesoro di Dongo e dell’ oro dei gerarchi era finito al Partito comunista, ma che era pericoloso parlarne “… tanto piu’ col permanere nel governo, nei posti piu’ delicati, di esponenti di quel partito che, ove si facesse piena luce non soltanto sull’ oro del Duce, ma su tutta l’ attivita’ sotterranea a esso connessa, verrebbe irrimediabilmente colpito con conseguenti reazioni che oggi e’ assai difficile prevedere”. (Silvio Bertoldi – Corsera – 1993)
“Il 17 gennaio 1949, la rivista americana Life pubblica un’inchiesta del giornalista John Kobler dal titolo: «The great Dongo’s robbery».
Kobler è uno che di tesori e manipolazioni se ne intende: ha fatto parte infatti del’Oss, il servizio segreto statunitense durante la campagna d’Italia. La sua tesi è che il tesoro sia finito nelle casse del Pci e utilizzato per sostenere le due campagne elettorali del 1946 e del 1948, per acquistare il palazzo di via delle Botteghe Oscure e per finanziare le forze militari clandestine e l’apparato di sezioni e cellule in tutta Italia. Anni dopo Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, testimonierà che quei beni razziati sulla strada tra Musso e Dongo sono finiti nelle casse del Partito comunista.“ ( Renzo Martinelli – Il Giornale -2007)
E, tra le tante, c’è la testimonianza di Renato Morandi, classe 1923, all’epoca dei fatti comandante partigiano della Brigata Garibaldi nel comasco, che racconta come il Capitano Neri, capo di stato maggiore della 52^ brigata partigiana di Como, «il 4 maggio del 1945 va a trovare il segretario del partito comunista di Como, chiedendo ragione della fine dell’oro di Dongo. Dei valori sequestrati erano stati stilati da lui stesso tre elenchi, ma nulla di quell’enormità era finito all’erario, cioè allo Stato. Neri venne ucciso dopo quella visita». (Varese Oggi – 2003)
“In realtà, i comunisti hanno incamerato soltanto una piccola parte di quell’immenso forziere semovente bloccato dai partigiani lungo le sponde del Lario. Non perché si siano ritratti di fronte a quella che i giornali americani, al tempo, definirono come «the great Dongo’s robbery» , il grande furto.
Semplicemente, i comunisti, i quali controllavano le formazioni partigiane che arrestarono il Duce e i suoi fedelissimi, non fecero in tempo a impedire l’emorragia miliardaria che, in poche ore, aveva dissanguato l’intera colonna. Quando, ormai quindici anni fa, chiesi al professor Gianfranco Bianchi dove, a suo avviso, fosse finito l’oro di Dongo, il grande storico, che è stato anche mio maestro, replicò con la sua consueta vivacità: «Se lo sono preso gli abitanti del lago!».
Le cose stanno effettivamente così: la popolazione locale depredò letteralmente i fascisti e i tedeschi che, in cambio di protezione per sé o per i propri famigliari, non esitarono a regalare valigie piene di banconote.
Durante il fermo della colonna, molti gerarchi avevano anche provvisoriamente affidato carichi di preziosi alla gente del posto, depositandoli nelle loro abitazioni nella speranza di passare poi a ritirarli. Non immaginavano certo che sarebbero stati fucilati di lì a poco. Anche dal municipio di Dongo, dove poi si svolse la contabilizzazione del tesoro sequestrato, sparirono somme ingenti, sottratte da partigiani o da loro amici.” (L’oro di Dongo – La Grande Storia – Rai3)
Anche questa fu la Liberazione.
Anzi, ne fu l’evento culminante: dittatore morto, ma anche documenti spariti e oro spartito.
Domani in Italia si festeggia la Liberazione dal Nazifascismo. Fu scelta questa data, perché fu il 25 aprile 1945 che l’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, alle 8 del mattino via radio, proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti.
In realtà, gran parte dell’Italia era già ‘libera’: l’11 agosto 1943 la Sicilia era stata conquistata dagli Alleati con l’appoggio dei picciotti di Lucky Luciano, il 4 settembre 1943 a Napoli erano iniziate le rivolte culminate nelle Quattro Giornate del 27-30 settembre, mentre Calabria, Puglia e Basilicata furono sostanzialmente evacuate dai Nazisti prima dell’Armistizio e mentre buona parte delle Venezie finivano sotto il comando diretto della Wehrmacht.
Alla fine dell’ottobre 1943, i territori delle Due Sicilie erano liberi – spesso motu propriu – mentre Roma e i territori del preesistente Stato della Chiesa si apprestavano a divenire ‘zona di guerra’ (Linea Gotica) a protezione delle città di Bologna, Milano e Torino dove il Fascismo aveva visto le proprie origini e dove si continuava a produrre per la macchina bellica tedesca.
Non fu un caso che l’insurrezione generale non fu proclamata dal Comitato di Liberazione Nazionale neanche un anno dopo circa, quando tra il 4 e il 5 giugno 1944 gli Alleati conquistarono Roma, superando le ultime difese tedesche.
E neanche che l’ordine ad insorgere e la condanna a morte per i gerarchi dovettero attendere la presa di Bologna da parte del 2° Corpo Polacco dell’VIII Armata, al comando del generale Anders e della 91a e 34a divisione USA, avvenuta il 21 aprile, e della insurrezione spontanea di Genova del 23 e 24 aprile.
Si stima che solo dopo la liberazione di Roma, cioè nell’estate del 1944, si arrivò, nei movimenti di resistenza sulle montagne della Toscana e dell’Emilia-Romagna, a circa 70-.000 partigiani attivi mentre gli Alleati aggredivano la Linea Gotica.
Perchè l’ordine di insurrezione generale venne dato solo a ‘cose fatte’, solo quando Milano era ormai circondata da esorbitanti forze alleate?
Innanzitutto, perchè nelle regioni della ‘rivoluzione fascista’ (Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna) le formazioni partigiane ammontarono inizialmente ad un numero molto limitato di effettivi: Lombardia (9.000), Veneto (12.000), Emilia (12.000). Quale fosse il livello di adesione ed organizzazione del CLN è ben chiarito da Giorgio Bocca: alla metà di settembre 1943 in Italia settentrionale c’erano circa 1.000 uomini, di cui 500 in Piemonte, mentre nell’Italia centrale erano presenti circa 500 combattenti, raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo.
Molto attiva fu invece la Marina, con i reparti Mariassalto, effettuando varie azioni di sabotaggio dietro le linee. Da notare che il primo reparto ad entrare a Venezia, impedendo alcuni atti di sabotaggio tedesco, fu proprio un reparto di Nuotatori Paracadutisti di Mariassalto, mentre il gruppo di combattimento “Folgore” partecipò alle operazioni terrestri della campagna d’Italia nel corso del 1945.
Come è evidente che i partigiani non erano considerati affidabili dagli Alleati, quando il generale Alexander, comandante supremo dell’esercito alleato in Italia, il 13 novembre 1944 dall’emittente “Italia combatte”, ordinò ai ‘patrioti’ di “cessare la loro attività precedente e le operazioni organizzate su larga scala”.
In buona parte, parliamo dei circa 60.000 patrioti che si erano ‘distinti’ in soli tre mesi di operazioni, da giugno all’autunno, mentre gli Alleati – combattendo dure battaglie come ad Ancona e Casola Valsenio – sfondavano la Linea Gustav e poi Gotica.
La scarsa affidabilità di queste ‘milizie’ fu confermata dagli eccidi verificatisi ad Italia ormai liberata, ovvero nel 1945, anche tra i partigiani stessi, come a Porzus dove furono trucidati diciassette partigiani (tra cui una donna) della Brigata Osoppo da parte di un gruppo di partigiani comunisti. I ‘fascisti’ che morirono linciati o per esecuzioni sommarie furono migliaia e, anche se la verità storica fa fatica ad emergere, sono state accertate almeno le stragi di Torino, di Oleggio, di Mignagola, di Oderzo.
Il film-scandalo di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna, ha fornito una ricostruzione sceneggiata, ma abbastanza fedele, di come andarono tante e troppe cose.
E se questi erano i problemi dati da qualunque milizia di patrioti, ma anche di sbandati e di criminali comuni, vale la pena di ricordare la storia del così detto ‘oro di Dongo’, un tesoro che secondo gli americani valeva 610 miliardi di lire e comprendeva, tra l’altro, 42 chili di lingotti, 66 chili di gioielli d’oro, duemila sterline d’oro, 21mila marenghi d’oro, 35 chili di argenteria, persino due damigiane colme di “fedi” d’ oro donate alla Patria.
Parliamo documenti e dei beni, in gran parte di proprietà dello Stato italiano, che avevano con sé Benito Mussolini e i gerarchi fascisti in fuga verso la Svizzera, quando, il 27 aprile del 1945 a Dongo, furono catturati dai partigiani.
Dei documenti che Mussolini aveva raccolto in un apposito camion blindato – sui quali contava per difendersi un giorno, davanti al tribunale che lo avrebbe giudicato – non si seppe mai più nulla, ma sull’oro, anch’esso sparito, le diverse versioni sono tutte convergenti.
“L’oro dei fascisti era stato portato quella stessa mattina del 27 aprile ’45 dentro l’acciaieria e fuso nel piccolo forno lontano da occhi indiscreti. Trasformato in migliaia di piccoli lingotti, facilmente occultabili e trasportabili, fu distribuito agli operai, agli abitanti affidabili e amici, ai partigiani anche a quelli venuti da Milano su ordine del Comitato nazionale di liberazione. Per questo il tesoro non fu mai trovato. Semplicemente, perchè in poche ore non esisteva più come tale.” (Alessandro Sallusti – Essere Liberi – 2004)
“E’ facile immaginare, nella confusione di quei momenti e con tanti che entravano e uscivano e mettevano le mani per rendersi conto delle belle cose che portavano con se’ i gerarchi, quanto sia sparito. Di certo si sa che Mussolini aveva il fondo riservato della Repubblica sociale italiana, affidato al prefetto Gatti, consistente in oltre un miliardo in banconote italiane ed estere e in una quantita’ imprecisata di lingotti e monete d’ oro. C’ erano poi i valori personali dei componenti la colonna, quelli dei tedeschi di Fallmeyer, quelli di tali capitano Kummel e tenente Hess (trentadue milioni), quelli dei ministeri della Rsi, oltre a pacchi di documenti. Sul tavolo del municipio di Dongo si trovavano sicuramente 1.045.880.000 lire, 169mila franchi svizzeri, 2700 sterline di carta, 63mila dollari, 4.043 monete d’ oro, 102.880 chili d’ oro e poi argenteria, collane, braccialetti, pellicce e (dice l’ inventario) “due barche nuove”, quasi che i fuggiaschi avessero preventivato di potersene servire per scappare attraverso il lago. C’ era poi un camioncino a cui Mussolini teneva moltissimo. Trasportava il suo archivio personale e, presumibilmente, le sue personali sostanze (non aveva appena venduto il giorno innanzi la sede del “Popolo d’ Italia)”. “In un rapporto segreto del questore di Como, Grassi, al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, e’ detto chiaramente che il grosso del tesoro di Dongo e dell’ oro dei gerarchi era finito al Partito comunista, ma che era pericoloso parlarne “… tanto piu’ col permanere nel governo, nei posti piu’ delicati, di esponenti di quel partito che, ove si facesse piena luce non soltanto sull’ oro del Duce, ma su tutta l’ attivita’ sotterranea a esso connessa, verrebbe irrimediabilmente colpito con conseguenti reazioni che oggi e’ assai difficile prevedere”. (Silvio Bertoldi – Corsera – 1993)
Difficile anche capire come mai una colonna corazzata e munita persino di artiglieri antiarea si sia lasciata fermare senza opporre alcuna resistenza dal uno sparuto gruppo di partigiani male armati, con un tale carico di beni e a così poca distanza dal confine svizzero.
“Il 17 gennaio 1949, la rivista americana Life pubblica un’inchiesta del giornalista John Kobler dal titolo: «The great Dongo’s robbery». Kobler è uno che di tesori e manipolazioni se ne intende: ha fatto parte infatti del’Oss, il servizio segreto statunitense durante la campagna d’Italia. La sua tesi è che il tesoro sia finito nelle casse del Pci e utilizzato per sostenere le due campagne elettorali del 1946 e del 1948, per acquistare il palazzo di via delle Botteghe Oscure e per finanziare le forze militari clandestine e l’apparato di sezioni e cellule in tutta Italia. Anni dopo Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, testimonierà che quei beni razziati sulla strada tra Musso e Dongo sono finiti nelle casse del Partito comunista.“ ( Renzo Martinelli – Il Giornale -2007)
E, tra le tante, c’è la testimonianza di Renato Morandi, classe 1923, all’epoca dei fatti comandante partigiano della Brigata Garibaldi nel comasco, che racconta come il Capitano Neri, capo di stato maggiore della 52^ brigata partigiana di Como, che si occupò inizialmente di censire tutto l’oro di Dongo e che tentò di consegnarlo alle autorità, ritenendolo di proprietà dello stato italiano,«il 4 maggio del 1945 va a trovare il segretario del partito comunista di Como, chiedendo ragione della fine dell’oro di Dongo. Dei valori sequestrati erano stati stilati da lui stesso tre elenchi, ma nulla di quell’enormità era finito all’erario, cioè allo Stato. Neri venne ucciso dopo quella visita». (Varese Oggi – 2003)
“In realtà, i comunisti hanno incamerato soltanto una piccola parte di quell’immenso forziere semovente bloccato dai partigiani lungo le sponde del Lario. Non perché si siano ritratti di fronte a quella che i giornali americani, al tempo, definirono come «the great Dongo’s robbery» , il grande furto. Semplicemente, i comunisti, i quali controllavano le formazioni partigiane che arrestarono il Duce e i suoi fedelissimi, non fecero in tempo a impedire l’emorragia miliardaria che, in poche ore, aveva dissanguato l’intera colonna. Quando, ormai quindici anni fa, chiesi al professor Gianfranco Bianchi dove, a suo avviso, fosse finito l’oro di Dongo, il grande storico, che è stato anche mio maestro, replicò con la sua consueta vivacità: «Se lo sono preso gli abitanti del lago!». Le cose stanno effettivamente così: la popolazione locale depredò letteralmente i fascisti e i tedeschi che, in cambio di protezione per sé o per i propri famigliari, non esitarono a regalare valigie piene di banconote. Durante il fermo della colonna, molti gerarchi avevano anche provvisoriamente affidato carichi di preziosi alla gente del posto, depositandoli nelle loro abitazioni nella speranza di passare poi a ritirarli. Non immaginavano certo che sarebbero stati fucilati di lì a poco. Anche dal municipio di Dongo, dove poi si svolse la contabilizzazione del tesoro sequestrato, sparirono somme ingenti, sottratte da partigiani o da loro amici.” (L’oro di Dongo – La Grande Storia – Rai3)
Un documento agghiacciante, quello di Rai3.
E, mentre a Dongo e non solo era questa la fine che facevano le ricchezze d’Italia e degli italiani, “erano i giorni della «peste» di Napoli. … Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo”, racconta Curzio Malaparte in La Pelle.
Sarà per questo che l’insurrezione venne proclamata il 25 aprile ‘a cose fatte’ e che ancora oggi i nostri libri di scuola dimenticano che Roma, Bologna, Milano furono prese dagli Alleati, che Torino e Genova insorsero mentre i tedeschi già smobilitavano, che solo Napoli – tra le grandi città industriali – insorse spontaneamente, stremata da centinaia di bombardamenti alleati sulla popolazione civile?
Certamente è anche per questo che l’Italia festeggia la Liberazione … resta da chiedersi come sarebbe andata se a ‘liberarci’ invece degli Alleati, ci fossero stati i partigiani. Anzi … siamo sicuri che da Firenze a salire sarebbe accaduto quel che accadde, incluso l’orrido spettacolo del cadavere di Claretta Petacci appeso in piazza a Milano, senza gli Alleati che avanzavano, vittoriosi e vincenti, distribuendo cioccolato, sigarette e calze?
L’unico posto dove gli Italiani hanno cacciato via i Tedeschi, non i Nazisti, da soli, spontaneamente e senza aiuto, è stato a Napoli. Nella città ci sono lapidi per centinaia di morti, appiccicate alle mura di palazzi che danno sui luoghi degli scontri. E non sono pochi come dice la Storia, basterebbe andarli a contare. Una “insurrezione popolare” di cui a Napoli sono orgogliosi tutti, dato che è grande il vanto di aver battuto ‘l’esercito invincibile” armati di sassi ed poco più. Questo è il senso e l’orgoglio della Liberazione dall’occupazione straniera. Intanto, l’Italia dimentica gli scugnizzi morti e sovrappone un mito partigiano che, andando a fare i conti, grandi cose non fece.
La “Liberazione” non è solo la Festa della Resistenza Partigiana. Hanno i loro meriti anche i mafiosissimi “picciotti” di Lucky Luciano che facilitarono lo sbarco, i martiri baresi del bombardamento al porto e le centinaia di morti napoletani, insorti “per campare”. Ricordiamo anche quel centinaio di soldati fattisi inutilmente massacrare dai Tedeschi a Porta San Paolo di Roma, per difendere la Capitale, mentre chi li aveva comandati lì fuggiva.
La “Liberazione” non è solo la Festa della Resistenza Partigiana, è una Festa Italiana. Perchè, se non ci fosse stata, oggi avremmo una Sicilia che aggiunge una stella alla bandiera USA, Napoli porto franco e 6-7 macroregioni come capitato alla Germania.
E Liberazione è anche vergogna. Vergogna per il massacro di Torino, per le foibe, per le vendette emiliane, per il processo sommario a Mussolini, per l’esecuzione della Petacci, per “La Pelle” di Malaparte, per i soldati prigionieri, che ritornarono dall’Etiopia solo nel 1948 e dalla Russia mai.
Liberazione è anche la festa degli Italiani coraggiosi che non fuggirono in montagna e rimasero per manipolare silenziosamente liste, ritardare inavvertitamente o boicottare scientemente invii ed ordini, … darsi malati nel giorno cruciale. Italiani che “non fecero il proprio dovere, non obbedirono agli ordini”, come invece successivamente avrebbero dichiarato sotto processo i carnefici tedeschi ed i collaborazionisti francesi.
La lotta per la Liberazione italiana iniziò subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ad opera delle truppe italiane fedeli al Re con la battaglia di Cefalonia ed il massacro della Divisione Acqui, le battaglie di Rodi e Lero per iniziativa di ufficiali come Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, la Campagna di Liberazione della Corsica, la difesa di Porta San Paolo a Roma, il Fronte Militare Clandestino della Resistenza, FCMR, e la rete di informatori organizzata dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, poi catturato e ucciso.
Tutto questo il mito partigiano ha sempre omesso di precisarlo: i primi a resistere (ed a rimetterci le penne) furono i soldati italiani, le ultime furono le città del Settentrione.
Collateralmente all’iniziativa delle Forze Armate fedeli al Re, fin dalla sera dell’8 settembre, i socialisti Ivanoe Bonomi, Mauro Scoccimarro e Pietro Nenni con i liberali Alessandro Casati ed Ugo La Malfa (Partito d’Azione) ed il cattolico Alcide De Gasperi costituirono il primo “Comitato di Liberazione Nazionale” (CLN).
Mentre la nascente ‘classe politica italiana’ iniziava a muovere i primi passi con la lentezza e la frammentazione che diventeranno poi proverbiali, a Napoli, fin dal 4 settembre (addirittura quattro giorni prima dell’Armistizio) c’era una situazione insorgente, culminata con la rivolta civile e la liberazione della città. L’ira del popolo partenopeo contro le imposizioni naziste scatenò combattimenti ‘porta a porta’ talmente violenti che durarono solo tre giorni, con oltre 500 morti e migliaia di feriti tra la popolazione e con i Nazisti per la prima volta in fuga.
Si stima che in Italia nel periodo intercorso tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945 i Nazifascisti compirono più di 400 stragi (uccisioni con un minimo di 8 vittime), per un totale di circa 15.000 caduti. Va precisato che gran parte di queste stragi furono rappresaglie condotte nei termini del Codice Militare di Guerra e dei trattati internazionali, ma anche che alcuni tra gli autori non furono mai perseguiti per crimini di guerra perchè molti fascicoli d’accusa rimasero per decenni a marcire in alcuni armadi ‘riservati’, come scopertosi anni fa.
Nei cortei tutto questo non passa, morti e sentimenti dimenticati. Dov’è il ricordo del Comandante delle 4 Giornate di Napoli, un ufficiale che volle mantenere l’anomimato? Perchè Milano, Torino, Genova, Bologna, Roma non insorsero come accadde a Napoli?
Quale fosse il livello di adesione ed organizzazione del CLN è ben chiarito da Giorgio Bocca: alla metà di settembre in Italia settentrionale, circa 1.000 uomini, di cui 500 in Piemonte, mentre nell’Italia centrale erano presenti circa 500 combattenti, raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo. Solo il 20 settembre 1943 – a Milano, mentre Napoli si era liberata da due settimane – venne costituito il comitato militare del PCI che in ottobre si trasformò in comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi, sotto la direzione di Longo e Secchia.
Come anche, è documentato che, durante l’inverno del 1944, molte formazioni si sciolsero o di dispersero ed, in gruppi o individualmente, molti combattenti abbandonarono le armi o si consegnarono, riducendo il numero di quelli ancora in azione a soli 20-30.000 uomini (G. Bocca). Diversamente, la quasi totalità dei soldati italiani catturati dopo l’8 settembre, oltre 600.000, rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e furono internati e sottoposti ad un duro trattamento di privazioni e violenze.
Perchè non troviamo, tra le memorie dell’epoca, l’opera svolta da Lucky Luciano per lo sbarco in Sicilia – fatto ormai storicizzato in USA – che fu il primo passo di una convivenza tra establishment statunitense e la mafia italiana?
O la controversa ed emblematica vicenda della Marina Italiana, lasciata senza ordini, tutta sintetizzata nella storia della X MAS (e Mariassalto) e nel ruolo svolto nella RSI dal Principe vaticano Julio Valerio Borghese e dell’ammiraglio Aimone D’Aosta, cadetto sabaudo, mentre nasceva un così detto Regno del Sud, durato circa un anno, guidato da un altro Savoia, il re fuggiasco, e diretto da quel Maresciallo Badoglio, distintosi a Caporetto perchè i suoi messaggi in chiaro, trasmessi via radio, indicanti ai reparti le nuove posizioni del comando, venivano sistematicamente intercettati con conseguenti bombardamenti di precisione sulle nostre truppe?
Perchè gli operai del Settentrione continuarono a far funzionare le loro fabbriche ed a produrre materiale bellico per i nazifscisti? Quanti di quegli operai sfilarono per anni ed anni con delle bandiere rosse bene in vista, mentre anni prima si erano presentati al lavoro con tanto di tesserino ‘nero’ del partito? Perchè a Gorizia (11 e 26 settembre 1943), a battersi contro la Wehrmacht, c’erano solo 1500 uomini, in gran parte operai dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone ed un consistente gruppo di partigiani sloveni, già operativi da tempo?
Quanti sanno che il massacro delle Foibe iniziò subito dopo l’Armistizio e che solo nel primo mese vennero barbaramenente uccise almeno 400-600 persone? O dei sedicenti partigiani torinesi che aprirono il fuoco sulla colonna di militari della RSI che con le proprie famiglie lasciava la città con salvacondotto? O di alcune formazioni delle Brigate Garibaldi che si ‘distinsero’ per i rastrellamenti e le esecuzioni sommarie di fascisti in Romagna, con una lunga serie di accuse e processi controversi, che coinvolsero il senatore Arrigo Boldrini (PCI)?
E che dire della bruttissima storia dell’oro dello Stato Italiano, che Mussolini cercava di trasferire in Svizzera, intercettato dai partigiani a Dongo e su cui sono fiorite leggende ed indagini, tutte aleatorie dato che gli eventuali testimoni (i fascisti catturati tra cui Mussolini e Clara Petacci) furono sommariamente giustiziati?
Perchè il Vaticano, al quale i Concordati hanno sempre lasciato una propria giurisdizione territoriale su Roma, non intervenne quando 16 ottobre del 1943, alle 5.15 del mattino, le SS invasero le strade del Portico d’Ottavia e rastrellarono 1024 ebrei? E perchè non ricordare che tra i combattenti più attivi ci furono i 5.000 ebrei italiani, arruolatisi nell’esercito inglese e mandati in prima linea sul versante adriatico?
La “Liberazione” non è (solo) la Festa della Resistenza Partigiana, è una festa della libera memoria italiana.
La lotta per la Liberazione italiana iniziò subito dopo l’armistizio dell’8 settembre ad opera delle truppe italiane fedeli al Re con la battaglia di Cefalonia ed il massacro della Divisione Acqui, le battaglie di Rodi e Lero per iniziativa di ufficiali come Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, la Campagna di Liberazione della Corsica, la difesa di Porta San Paolo a Roma, il Fronte Militare Clandestino della Resistenza, FCMR, e la rete di informatori organizzata dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, poi catturato e ucciso.
Collateralmente all’iniziativa delle Forze Armate fedeli al Re, fin dalla sera dell’8 settembre, i socialisti Ivanoe Bonomi, Mauro Scoccimarro e Pietro Nenni con i liberali Alessandro Casati ed Ugo La Malfa (Partito d’Azione) ed il cattolico Alcide De Gasperi costituirono il primo “Comitato di Liberazione Nazionale” (CLN). e nel giro di una settimana una rete di “comitati” atava sorgendo nelle principali città italiane.
Intanto, a Napoli, fin dal 4 settembre (ovvero quattro giorni prima dell’Armistizio) c’era una situazione insorgente, culminata con la rivolta civile e la liberazione della città. I violenti combattimenti durarono solo tre giorni con oltre 500 morti e migliaia di feriti tra la popolazione.
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Quale fosse il livello di adesione ed organizzazione del CLN è ben chiarito da Giorgio Bocca: alla metà di settembre in Italia settentrionale, circa 1.000 uomini, di cui 500 in Piemonte, mentre nell’Italia centrale erano presenti circa 500 combattenti, raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo.
Tutto qui e solo il 20 settembre 1943, a Milano, venne costituito il comitato militare del PCI che in ottobre si trasformò in comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi, sotto la direzione di Longo e Secchia.
Come anche, è documentato che, durante l’inverno del 1944, molte formazioni si sciolsero o di dispersero ed, in gruppi o individualmente, molti combattenti abbandonarono le armi o si consegnarono, riducendo il numero di quelli ancora in azione a soli 20-30.000 uomini (G. Bocca).
Diversamente, la quasi totalità dei soldati italiani catturati dopo l’8 settembre, oltre 600.000, rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e furono internati e sottoposti ad un duro trattamento di privazioni e violenze.
Le formazioni partigiane, specialmente le Brigate Garibaldi, come racconta Giorgio Bocca, non furono mai impegnate (a differenza dei napoletani e dei soldati fedeli al Re) in battaglie di una certa entità, ad eccezione della difesa di Montefiorino, ed i combattenti furono circa 100.000, con le formazioni più numerose in Piemonte (30.000). Nelle regioni che avevano alimentato la “Rivoluzione Fascista”, le formazioni partigiane ammontarono ad un numero molto limitato di effettivi: Lombardia (9.000), Veneto (12.000), Emilia (12.000). Tra l’altro, gli scontri più impegnativi con i nazifascisti videro sempre la partecipazione di tanti ex-prigionieri sovietici o slavi (oltre 5.000), poi inquadrati nel “Battaglione Stalin”.
Non a caso, il numero di civili non combattenti uccisi dai nazifascisti (10.000) fu di numero comparabile a quello dei partigiani morti in combattimento o, soprattutto, fucilati dopo essersi arresi.
Così andando le cose, andò a finire che, mentre Napoli s’era liberata in 3 giorni, l’Italia centrosettentrionale dovette attendere un anno e mezzo per mettere in fuga l’invasore.
Si stima che in Italia nel periodo intercorso tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945 i Nazifascisti compirono più di 400 stragi (uccisioni con un minimo di 8 vittime), per un totale di circa 15.000 caduti. Va precisato che gran parte di queste stragi furono rappresaglie condotte nei termini del Codice Militare di Guerra e dei trattati internazionali ed, infatti, gli autori non furono mai perseguiti per crimini di guerra.
Sul fronte partigiano, le stragi, le razzie e le efferratezze non sono mai state del tutto quantificate ed acclarate. Sta di fatto che i “fascisti” morti per crimini di guerra commessi dai partigiani (specie in Emilia Romagna e Lombardia) furono migliaia. Basti ricordare le foibe, le stragi di Torino, di Oleggio, di Mignagola, di Oderzo oppure le tante “epurazioni” avvenute internamente alle Brigate Garibaldi e l’accanimento mostrato verso le donne dei fascisti presi.
Spike Lee, regista afroamericano, ha cercato di raccontare questa (brutta) “verità” nel film “Il miracolo di Sant’Anna”, ma la cosa sembra scivolare via sulla pelle degli italiani, nonostante che lo studio della storia sia nel nostro paese una “materia” importante a scuola.
E, così andando le cose, domani 25 aprile festeggeremo la Liberazione in nome della Resistenza partigiana, dimenticando “da che parte” accadde il maggior numero di crimini di guerra e che gli “insorti della prima ora” (ovvero gran parte di chi ci rimise la vita) lo fecero per il Re, per l’Italia, per odio contro i tedeschi, per fedeltà alla divisa e … per campare.
Con buona pace per la verità storica …
Durante i violenti combattimenti di Napoli, nessun crimine di guerra venne commesso dagli insorgenti e, caso unico nella Storia della II Guerra Mondiale, i tedeschi accettarono di ritirarsi con l’onore delle armi. Anche le Brigate “Giustizia e Libertà” comandate da Ferruccio Parri non sembra si siano macchiate di efferratezze.
I giornali di stamane esordiscono tutti (o quasi) annunciando che l’Unione Europea chiede “misure aggiuntive”, pubblicando sia la lettera del Commissario Olli Rehn (link) sia il questionario allegato (link).
A ben leggere, nella lettera troviamo una “richiesta di ulteriori chiarimenti”, in particolare riguardo “un piano di azione concreta”, fissando il termine della richiesta per il prossimo 11 novembre. Nulla di più.
Inoltre, il questionario allegato non chiede altro che indicare, per ciascun provvedimento “promesso” dall’Italia, se sia già stato varato e se ci sono stati progressi e/o quali saranno i tempi necessari, se è un nuovo provvedimento e quale sarà il piano d’azione concreto. A seguire, una lista delle tante riforme e dei molti interventi che sottintendono alle lettera d’intenti e che, comunque, sono stati ventilati dal Governo nel corso di questi ultimi tre mesi.
L’unico accenno a “nuove misure” è in relazione alla Legge di Stabilità ed agli emendamenti che il Parlamento italiano stesso introdurrà nel corso dell’approvazione.
Andando a leggere i quesiti, infine, si può notare come essi siano rivolti al governo italiano, certamente, ma le problematiche che chiedono di dettagliare sono dell’Italia e non solo questo governo o parlamento, ma anche altri a venire, dovranno porre rimedio ad un disastro accumulatosi nell’arco di questo ventennio.
Si va dalle aziende di Stato al sistema previdenziale, dal rilancio dell’istruzione alla semplificazione dei contratti di lavoro, dall’efficienza della Giustizia alla mobilità per il Pubblico Impiego, dalle politiche aereoportuali al pareggio di bilancio, dalla riduzione del numero dei membri del Parlamento al miglioramento dell’intero iter decisionale, dalle class action contro la PA alle misure concrete per promuovere l’occupazione dei giovani e l’occupazione femminile.
Non sono misure aggiuntive: sono le riforme che ci avevano promesso nel 1996, quando nacque la Seconda Repubblica, e che sono ancora da farsi. Riforme che non si risolvono con “più innovazione tecnologica” o “più equità sociale”, ma che richiedono grandi cambiamenti, tagli incisivi, premialità assicurate, snellimento generalizzato, rilancio ed investimenti. E la “sfida”, ricordiamolo ancora, non è per questo governo, ma per quello che verrà.
Di cosa parlino gli “esperti” nei talk show è davvero tutto da capire …
Piove, anzi diluvia, e la colpa è, come dovuto, del “governo ladro”. Su questo non c’è dubbio alcuno, anche se, come ci hanno dimostrato gli ultimi eventi, l’opposizione di centrosinistra ha le sue non infime responsabilità.
Quello che, però, non è chiaro, mentre Bossi si aggrappa all’attuale maggioranza “nel nome di Angelino Alfano”, è se le responsabilità di questo disastro siano da ascrivere al PdL od alla Lega od a tutti e due.
Certamente va attribuito a Berlusconi ed ai Berluscones, tra cui Alfano, il tempo sprecato per approvare leggi ad personam, non di rado incostituzionali, ma, per la restante parte del disastro, gli attori “protagonisti” sono Tremonti, Bossi e Calderoli.
Il primo, il ministro dell’economie e delle finanze, ha tartassato il paese di tasse, imponendo tagli lineari ai servizi pubblici e bloccando i fondi degli Enti Locali: economie troppe, finanza zero, potere assoluto.
Nessuna progettualità “in avanti” da parte di Giulio Tremonti, ma non solo per colpe sue: la “propositività”, in materia di finanza e riforme, doveva consistere nel mirabolante “federalismo fiscale” di Umberto Bossi e del fido Calderoli, floppato come ben sappiamo per l’inattendibilità di conti e scenari, oltre che potenzialmente dannoso al paese ed agli italiani.
Dunque, se non è proponibile un governo di unità nazionale guidato da Berlusconi (od Alfano), non può esserlo neanche uno con la Lega: sarebbe un ribaltone.
Ecco perchè Umberto Bossi, dopo aver tuonato, per mesi ed anni, sulla “amicizia con Silvio” e la “imprescinbilità dalla Lega”, si ritrova oggi a tentare il salvataggio in extremis di un governo che non c’è, piuttosto che annunciare il sostegno esterno al governo di unità nazionale.
Perchè Bossi imbocca questa strada senza uscite?
Perchè non ha alternative, ma soprattutto perchè la Lega non può altro che puntare sulle elezioni anticipate, nella speranza di avvantaggiarsi nei consensi puntando sul malcontento e sull’instabilità.
Elezioni anticipate e, forse inutili o perniciose, visto che, con questa legge elettorale, potrebbero finire con una maggioranza senza programma, mentre i mercati ed il mondo ci chiedono stabilità.
Un partito responsabile e, soprattutto, “italiano” farebbe altrimenti.
Non è solo Berlusconi che deve farsi da parte, ma anche chi, come Bossi (o Tremonti, Brunetta, Gelmini, ecc.) ha messo il proprio sugello su queste brutte ed indimenticabili pagine di Storia italiana.
Un conto alla rovescia spasmodico, quello che sta travagliando l’Italia, questa la principale causa delle speculazioni e delle turbolenze che stanno colpendo le Borse.
Un conto che si è protratto e si protrae a causa del fatto che non c’è una maggioranza alternativa al PdL, visto che Partito Democratico e Italia dei Valori non intendevano (e forse non intendono) allearsi con Fini e Casini.
Un countdown, iniziato quasi 20 anni fa, che avrebbe dovuto fermarsi da un anno almeno, quando Fini e FLi uscirono dalla maggioranza, proprio a causa dell’assenza di misure coerenti ed efficaci contro la Crisi da parte di Tremonti, Berlusconi e Bossi.
Un rovescio, come fosse una disfatta, che continuerà anche oltre la caduta di Berlusconi, se il Partito Democratico non abbandonerà i “compagni di lotta” e non cercherà “i colleghi di governo”, con l’intenzione, per l’appunto, di governare.
Infatti, non sembra che la Sinistra (italiana ed europea) abbia capito quali siano le cause dell’instabilità dell’Euro e dell’inaffidabilità italiana.
L’Euro non può più continuare ad esistere come mera “valuta di mercato”, deve necessariamente iniziare ad avere una propria “riserva” (lingotti o fondi fa lo stesso), che lo tenga al riparo da speculazioni e che permetta di avere maggior forza e peso nelle dinamiche tra yuan e dollaro. Tra i motivi che intervengono a determinare questa contingenza, c’è il rapporto tra debito, PIL e deficit dei singoli stati, che per l’Italia è strabordante rispetto a 10 anni fa e che è cosa molto diversa dall’indebitamento delle famiglie o dell’intero paese, visto che parliamo di valuta.
Venendo all’Italia, ricordiamo tutti che è tra i paesi che maggiormente hanno superato il “livello di guardia” e, soprattutto, è quello che da anni presenta conti e scenari diversi che puntualmente non vengono confermati nei rendiconti e nelle previsioni dell’anno successivo.
Dunque, se c’è sfiducia, le responsabilità non sono del solo Silvio Berlusconi, anche se enormi, ma di un intero apparato pubblico di monitoraggio e governance di cui il MEF è il terminale.
I motivi per cui si sia andati “oltre il limite” sono anch’essi evidenti, almeno agli occhi degli stranieri:
l’incapacità di valorizzare l’agricoltura, rendendola competitiva e produttiva, mentre oggi, tra un sussidio ed uno sgravio, rappresenta meno del 4% del PIL italiano e non riusciamo nè a consolidare i marchi esistenti nè a lanciarne di nuovi;
una frammentazione ed una cristallizzazione delle imprese, spesos cooperative od a conduzione familiare, che ostacola l’abbattimento dei costi al consumo e la crescita dei marchi;
l’assenza di strumenti contrattuali atti a ridurre la rigidità del mercato del lavoro, specie in termini di occupazione, visto che dopo 30 anni siamo ancora come negli Anni ’70, con gli “occupati”, i “cassaintegrati”, i “disoccupati”, i “giovani in cerca di primo lavoro”, le “donne”;
l’inadeguatezza del “sistema giustizia”, che, grazie alla propria lentezza, è riuscito a mandare in prescrizione le colpe di quasi due generazioni politiche italiane;
la corruzione (intesa come degrado) delle norme diffusa e generalizzata – e come mai potrebbe non essere se abbiamo quasi 50.000 leggi – mentre la comunicazione pubblica è semplificata a par conditio, talk show e “30 secondi per”;
un sistema previdenziale che avvantaggia, disastrosamente e smaccatamente, le generazioni nate prima degli Anni ’50 e che non consente alcuna flessibilità
la superfetazione di enti pubblici, spesso consistenti in un ben foraggiato CdA, qualche ufficio di lusso in affitto e pochi soldi “veri” da spendere;
l’onnipresenza nelle imprese del MEF, come proprietario, come gestore, come azionista, come controllore, come esattore, eccetera.
Questi sono i nodi da sciogliere, noi italiani abbiamo più di un problema da risolvere al di là della caduta di Silvio Berlusconi e non è dai banchi del PdL che dovranno arrivare i voti necessari a fermare il countdown italiano.
Le prospettive? Difficile a dirsi.
E’ possibile che il Partito Democratico si ritrovi a non voler scegliere se essere leale verso “i compagni di lotta” o verso “i colleghi di governo” , pur di salvaguardare il proprio patrimonio immobiliare, l’appoggio della CGIL, la propria presenza nei CdA ed il consenso di tanti pensionati.
E’ altrettanto probabile, però, che il PD, in queste condizioni, non potrà altro che danneggiare se stesso e l’Italia, specialmente se tenterà, come sembra, di giocare la carta delle elezioni anticipate, magari vincendole senza un programma di riforme e sotto ricatto degli alleati.
L’unica cosa certa è che un altro anno di countdown non possiamo permettercelo e che sono ormai superati i tempi del governo tecnico e del “voto subito”.
C’era una certa attesa per la manifestazione del PD a Roma, tenutasi ieri. L’attesa era dovuta al fatto che, seppur convocata tempo addietro, la convention va a cadere proprio nel fine settimana in cui poteri forti e meno forti stanno verificando quali margini di “ragionevolezza” ci siano tra noi italiani.
Sicuramente, è rimasto deluso chi si aspettava che Bersani portasse delle proposte, non dico un programma, per attuare gli interventi che l’Europa ha recepito nella “lettera d’intenti”.
Troppe frasi di giornata. Dal “situazione drammatica, Berlusconi deve andare a casa” al “riportare l’Italia alla sua dignità, al suo buon nome”: un po’ come dire che “dopo l’autunno c’è l’inverno e dopo l’inverno c’è la primavera e che dovrà ritornare l’estate”.
Un palco che Bersani condivide con le “grandi forze del progressismo europeo” (i socialisti francesi e tedeschi, ad oggi fortemente calanti), per “rilanciare il sogno di un’Europa sovrana”, non affrancandosi dalla Cina Popolare o dalla Russia postcomunista, per non parlare degli Stati Uniti d’America, bensì radicalizzando un conflitto interno, perchè “la malattia è l’Europa delle Destre, l’Europa della Merkel e Sarkozy” e “se ognuno si occupa solo di casa sua vincono le destre”.
Peccato che il problema corrente consista nel fatto che, grazie alla corruzione dilagante, non in tutti gli stati accada che “ognuno si occupi almeno di casa sua”, come Italia e Grecia dimostrano.
La ricetta di Bersani? “Un solo modo per evitare le Crisi: crescere un po’ tutti”. Bella idea, infatti, visto come sono andate per 60 anni le cose da noi, adesso vogliono crescere … gli altri.
Se il discorso di Bersani è stato deludente, visto che era quello il momento in cui un’Opposizione forte e consapevole va a sottoporre al Paese ed al Mondo una visione diversa ma concreta di come uscire dall’empasse, è andata peggio con gli altri leader italiani presenti.
Franceschini: “La spallata la stanno dando gli italiani”, mica le opposizioni.
Camusso: “La Cgil è da tre anni in piazza per un’altra politica perciò guarda con attenzione a chi propone un’altra politica”, che sappiamo tutti consistere in più tasse, più aumenti salariali, più cassa integrazione.
Di Pietro: “Dare una risposta per la quadratura dei bilanci, ma non ad intervenire sui punti che ci chiedono le banche europee, a cominciare dalla BCE, ma intervenendo su quel 10% che pur possedendo il 60% della ricchezza italiana finora non hanno pagato il dovuto”, come se bastasse una patrimoniale per evitare le riforme del lavoro e della sistema pubblico (aziende, sindacati e partiti inclusi), che attendono ormai dagli Anni ’70, se non, addirittura, dalla fine del Fascismo.
Eppure, Bersani ci dice che sono “pronti a fare la propria parte”, “pronti a governare”.
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