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Reddito, occupazione, pensioni: l’oro che rilancerà l’Italia?

25 Giu

Il problema delle pensioni future non risiede nelle pensioni del passato, bensì nell’occupazione e negli ammortizzatori sociali mancati, tra cui le pensioni integrative, di cui a partire dal 1992 c’era evidente necessità. 

La generazione di chi ha oggi tra i 30 e i 45 anni – non avendo una storia lavorativa precoce / assidua / produttiva – non ha modo di lavorare almeno quei 35 anni a circa 25 ore di media alla settimana se non pensionandosi ben oltre i 65 anni d’età.

Viceversa sono le pensioni “correnti”, cioè i lavoratori over55 e con già 30 anni di lavoro, ad essere afflitte dalle enormi facilitazioni del passato, come lo sono gli invalidi e gli indigenti ai quali l’Inps sarebbe innanzitutto preposta, ma non ha le risorse.
Circa 200.000 pensioni oltre i 5.000 euro mensili netti sono davvero tante, specie se non contribuite e rivalutate con i parametri del 2002, mentre il PIL è regredito a quello del 1994.

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Pensioni al netto

 

Il problema delle pensioni future riguarda chi oggi versa i propri contributi, non confondiamoci, ed ha le sue radici nelle mancate riforme della Seconda Repubblica.

Tagliare le pensioni d’oro, quello oltre i 5mila euro netti, equivarrebbe a dire un alleggerimento dei conti Inps di 3-4 miliardi annui effettivi per i prossimi vent’anni e la possibilità di trovare le risorse per sbloccare il turn over (e l’innovazione) e per liberare da lavori usuranti i lavoratori anziani, cioè riavviando i percorsi tradizionali di occupazione stabile e non solo sussidiare un reddito con relativa produttività e sicura temporaneità. 

C’è da superare le mancate riforme della Seconda Repubblica, non intervenire con misure temporanee, e di concerto con il Mef e la Cdp: le economie non sono dell’Inps ma dello Stato e saranno diversi i miliardi risparmiati che non affluiranno alle Poste Italiane.

Non è regredito al 1994 solo il PIL.

Demata

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Approfondimento:

Partendo dalla durata di vita lavorativa media, scopriamo che in Europa è salita a 35,4 anni nel 2015, secondo Eurostat. In Germania, si lavora di media 38 anni (+2,4 anni sul 2005), che varia dai 40,1 anni tra gli uomini ai 35,8 anni tra le donne. Il “gender gap” tedesco è di 4,3 anni, meno della metà di quello italiano (9,7 anni), con le donne italiane che lavorano di media 25,7 anni.

Per i lavoratori italiani maschi, invece, si prevede che – di media – trascorreranno al lavoro appena 30,7 anni, ben cinque in meno rispetto alla media dei paesi UE.
In Italia la ‘carriera lavorativa attesa’ è salita di 1,1 anni nel corso dell’ultimo decennio, molto meno della media europea, e c’è chi lavora oltre 40 anni per pagare le pensioni di chi ha lavorato o lavorerà poco più di vent’anni.

La Francia e la Spagna non sono certamente “l’operosa Germania”, ma di media la carriera lavorativa è di 34,9 anni in ambedue le nazioni, e le francesi lavorano 30,6 anni mentre le spagnole 32,5 anni, cioè tanto quanto un maschio italiano se non di più.

Inoltre, secondo uno studio di Harvard e Dartmouth, se in Italia un adulto non disabile lavora 18,4 ore a settimana di media, c’è che in Francia le ore trascorse al lavoro sono 19,3 , Germania 20,2 , Spagna (21,2), Grecia 22,2 , Portogallo 22,7.
Vale a dire che, in Italia, chi lavora oltre 40 anni – per pagare le pensioni di chi ha lavorato o lavorerà poco più di vent’anni – è spesso anche quello che ‘compensa’ con le proprie 36 ore settimanali chi di ore ne fa molte di meno, disoccupato o privilegiato che sia.

Intanto, da almeno un decennio, in Italia si inizia a lavorare più tardi, spesso in settori ‘effimeri’ come produttività e si hanno carriere contributive più discontinue rispetto agli anni Sessanta e Settanta, quando il boom demografico e dei consumi garantiva ben altra crescita e richiesta occupazionale.
La generazione di chi ha oggi tra i 30 e i 45 anni – non avendo una storia lavorativa precoce / assidua / produttiva – non ha modo di lavorare almeno quei 35 anni a circa 25 ore di media alla settimana se non pensionandosi ben oltre i 65 anni d’età.

Dunque, il problema delle pensioni future non risiede nelle pensioni del passato, bensì nell’occupazione e negli ammortizzatori sociali mancati, tra cui le pensioni integrative, di cui a partire dal 1992 c’era evidente necessità.

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Quegli Anni ’90 durante i quali si creavano le premesse dell’attuale carenza occupazionale e produttiva, cioè fiscale, contributiva e previdenziale, con lo smantellamento dell’industria manifatturiera meridionale come la scarsa innovazione del settore agro-alimentare-turistico extra-sussidiato da Stato ed Europa, o la speculazione edilizia ‘da sempre’ che ha trasformato le maestranze in padroncini con partita Iva e l’altrettanta speculazione ‘new economy’ che ha fatto altrettanto degli impiegati italiani, oggi call center esteri.

Il problema delle pensioni future riguarda chi oggi versa i propri contributi, non confondiamoci, ed ha le sue radici nelle mancate riforme della Seconda Repubblica.

Viceversa sono le pensioni “correnti”, cioè i lavoratori over55 e con già 30 anni di lavoro, ad essere afflitte dalle enormi facilitazioni del passato, a partire dalle Pensioni d’Oro, come lo sono gli invalidi e gli indigenti ai quali l’Inps sarebbe innanzitutto preposta.

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Infatti, nel nostro paese tra 2009 e 2014, l’età effettiva di pensionamento è stata di 62,5 anni (la cifra indicata da Boeri nella sua audizione del 2015) contro una media OCSE di 64 anni: basta che riparta l’occupazione giovanile (o che tuteliamo un po’ meglio i lavoratori malati cronici) e ci siamo.

Il vero problema è che “fino agli anni Settanta, l’età media di pensionamento effettiva è stata intorno ai 65 anni. Soltanto negli anni successivi ha iniziato ad abbassarsi, fino al record del 1994, quando l’età media effettiva scese a 57 anni. In sostanza, le generazioni nate prima della Seconda guerra mondiale, sono andate in pensione molto tardi anche per i nostri standard. I “baby boomers”, cioè coloro che sono nati subito dopo la guerra, e quelli nati immediatamente prima, hanno invece goduto di regimi pensionistici tra i più generosi d’Europa, le cui conseguenze vediamo ancora oggi.” (Il Post)

Questo enorme buco radicatosi proprio mentre si legiferava per correggere un sistema anacronistico, ricade in primis sugli indigenti e sugli invalidi per i quali l’Inps e lo Stato non possono destinare sufficienti risorse.
A seguire, c’è tutta la generazione nata negli Anni ’50 e ’60 che ha già pagato e sta pagando un prezzo molto alto, solo per ricordare gli esodati o le pensioni pari al 40% dell’ultimo stipendio, che a loro volta causeranno per un ventennio una capacità di acquisto e di consumi di gran lunga inferiore rispetto a quella dei pensionati che hanno alimentato il PIL italiano in questo ventennio.

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Le pensioni “correnti” dei prossimi 10 anni sono quelle afflitte dalle enormi facilitazioni del passato, che risucchiano le risorse necessarie per un intervento perequativo statale e che hanno ritardato ad oggi l’avvento di strumenti integrativi e di adeguate norme assicurative per i lavoratori, invalidi e indigenti.

Il Ministro per il Lavoro ed il Welfare, Luigi Di Maio , afferma che “è una questione di giustizia sociale, dobbiamo ricominciare a mettere al centro alcuni segnali istituzionali, passeremo anche alle pensioni d’oro, che sopra i 5mila euro netti vanno tagliate se non hai versato i contributi”.

Tagliare le pensioni d’oro, quello oltre i 5.000 euro netti, equivarrebbe a dire un alleggerimento dei conti Inps di 3-4 miliardi annui effettivi per i prossimi vent’anni e la possibilità di trovare le risorse per sbloccare il turn over (e l’innovazione) e per liberare da lavori usuranti i lavoratori anziani, cioè riavviando i percorsi tradizionali di occupazione stabile e non solo sussidiare un reddito con relativa produttività e sicura temporaneità.
Un reddito di cittadinanza, che va accompagnato da adeguate misure per il turn over, l’innovazione e la salute sul lavoro, se non vogliamo ritrovarci – tra qualche anno come 20 anni fa – con la sorpresa  di lavori comunali ‘socialmente utili’ mal fatti, di un precariato ancor più diffuso e di mancata innovazione.

Demata