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Lamberto Sposini: fu colpa della Rai o della Regione Lazio?

8 Set

Era il 29 aprile del 2011 quando Lamberto Sposini venne colpito da una emorragia cerebrale poco prima dell’inizio della trasmissione “La Vita in diretta”.

Erano le 14,10 e “secondo alcune testimonianze i soccorsi sarebbero arrivati 40 minuti dopo” e la Regione Lazio confermava  che l’ambulanza arrivava “in 19 minuti” dalla chiamata, per trasportarlo all’ospedale Santo Spirito “non era attrezzato per quel tipo di intervento” e solo dopo al Policlinico Gemelli, che “poteva fornirgli tutte le cure necessarie solo dopo due ore dall’ictus”. (fonte Il Secolo XIX e Televisionando).

“Un primo medico sarebbe arrivato in pochi minuti, mentre un secondo (l’odontoiatra) ci avrebbe messo di più. Intanto un figurante del programma, da quanto si apprende, chiama il 118 spiegando che si trattava di un malore. Solo alla settima telefonata, che arriva alle 14.32 – Sposini si sente male alle 14.05 – l’operatore del 118 riesce a farsi passare il medico. Viene compresa finalmente la gravità della situazione. All’arrivo in via Teulada, uno dei soccorritori spiega che sono partiti in ritardo perché hanno dovuto procurarsi una barella, dato che la loro era stata spostata come letto al pronto soccorso. L’equipaggio porta Sposini al Santo Spirito. Ma il reparto di neurologia è chiuso dal 2010.”  (fonte Libero – Blogo e Televisionando)

Sposini si è rivolto ad un Tribunale del Lavoro contestando alla Rai di “non avere adottato una procedura o comunque ogni misura idonea a gestire l’intervento in regime di emergenza”, ma in primo grado si era visto respingere il ricorso perchè nell’immediatezza dell’evento erano sopraggiunti un primo medico e un’infermiera e “certamente presso uno studio televisivo non potevano essere presenti le sofisticate attrezzature necessarie a stabilizzare Sposini”, come anche le “numerose telefonate effettuate dal personale della Rai  evidenziano una piena consapevolezza della gravità della situazione e della necessità di un pronto e specialistico intervento». Infatti, secondo il giudice di primo grado Mariapia Magaldi, “la lamentata mancanza di tempestività è ascrivibile ai tempi attesi per l’arrivo dell’ambulanza nonostante le ripetute telefonate al 118”.

Più chiaro di così: “mancanza di tempestività, nonostante le ripetute telefonate al 118” …
Sposini ed i suoi familiari sono ricorsi in appello e l’udienza del Tribunale del Lavoro è a maggio prossimo, ma … cosa succederebbe se i loro legali fossero andati in giudizio contro la Regione Lazio?

Partiamo dal fatto che è davvero incomprensibile il fatto che Sposini non sia stato portato direttamente al Policlinico Gemelli che si trova a meno di dieci minuti di ambulanza dalla sede Rai di via Teulada. Il tutto senza considerare la questione della barella che non si trovava e delle ambulanze bloccate in centro per un evento internazionale.

Qui stiamo parlando di una persona colpita da ictus che riceve immediatamente l’assistenza di un medico che si prodiga e che acclara la gravità, ma perviene solo dopo due ore al pronto soccorso giusto.

Aggiungiamo che il 118 della Regione Lazio in questi anni ha visto impiegati che tenevano occupate le linee per autotelefonarsi  e ricaricare i cellulari, invece di rispondere alle telefonate, oppure i circa trecentomila euro pagati in soli sette mesi per l’indennità di reperibilità oppure la diffida alla concessionaria ’Ares 118 a sospendere la gara per l’affidamento ai privati del servizio di supporto alle ambulanze per una storia di subappalti che coinvolgeva persino la Croce Rossa.

Poi, c’è la follia del coordinamento delle ambulanze, con tutto un fiorire di storie atroci e leggende metropolitane, come quella che la centrale radio non funzioni e che gli operatori debbano usare i propri cellulari, con buona pace della precanalizzazione delle urgenze.
Ancora più assurdo è che le ambulanze non conducano i malati presso gli ospedali dotati dei farmaci salva vita, di cui hanno o potrebbero aver bisogno per patologie note, spesso rare, e che – di conseguenza – questi malati sono gestiti da medici che non hanno esperienza sul campo specifico e che, azzeccata la diagnosi, devono aspettare ore per somministrare il farmaco, ricordiamolo, salva vita.
Oppure quella del Municipio III che è privo persino di un pronto soccorso pur avendo più di diecimila abitanti e dove le ambulanze non ti portano all’ospedale più vicino e più attrezzato (il Sant’Andrea, a meno di 15 minuti passando per il GRA) ma altrove, affrontando la selva del traffico urbano e delle buche stradali di Roma.

Dunque, possiamo comprendere per quali motivi Lamberto Sposini abbia preferito – a Roma Capitale – non andare in giudizio contro il Servizio Sanitario Regionale e contro il Commissario ad acta che ne aveva la responsabilità, ma voglia tentare la strada del giudizio contro la Rai, nonostante le chiare motivazioni del giudice di primo grado, che precisato che “la lamentata mancanza di tempestività è ascrivibile ai tempi attesi per l’arrivo dell’ambulanza nonostante le ripetute telefonate al 118” .
E, da quello che riportavano a caldo i giornali l’addetto al primo soccorso ed i sanitari sul posto, sembrerebe che abbiano fatto il possibile secondo le norme per la sicurezza sul lavoro. Ma è giusto e sacrosanto che Lamberto Sposini abbia il suo risarcimento.

Ed è sacrosanto – soprattutto – che i cittadini della Regione Lazio ottengano risposte responsabili e soluzioni rapide su come funzionano le ambulanze e su come dovrebbero funzionare.

Demata

La Capitale della malasanità

10 Gen

Martedì sera, una signora romana quasi novantenne veniva prelevata da un’ambulanza per un sospetto ictus e trasportata al policlinico di Tor Vergata, dove rimaneva ben 15 ore in barella, bloccando, tra l’altro l’ambulanza.
Un episodio eclatante, non affatto infrequente a Roma, la Capitale italiana, come documentano le vicende recente di un’altra donna con un’emorragia cerebrale, trasportata in ambulanza prima da Acquapendente a Viterbo e poi al Gemelli di Roma.

Ricordiamo tutti il tragico caso del giornalista RAI Lamberto Sposini, conduttore de “La Vita in diretta”, che, colpito da un ictus al lavoro e soccorso in tempo,  pervenne con enorme ritardo all’ospedale dove venne operato d’urgenza.
O come è drammaticamente comprovato da fatto che ieri, per ben due ore, su 80 ambulanze che Roma dispone per circa 4 milioni di abitanti, ben «25 mezzi erano bloccati nei Dea occupati dai pazienti da ricoverare e tutte le altre 55 ambulanze erano impegnate in servizio per chiamate già ricevute» (fonte 118).

Tutti a prendersela, giustamente, con il Governatore regionale dimissionario, Renata Polverini, visto che un misfatto simile è certamente causato da carenze profonde nella governance sanitaria, anche se la questione dei posti letto ‘chiusi’ di recente è fuorviante.
Infatti, in termini di governance le questioni da porre, se non si volesse fare solo mera demagogia, sono altre e ben più fattuali:

  1. le ambulanze sono sufficienti oppure in una metropoli come Roma ne servirebbero di più? Sono dislocate solo negli ospedali od anche all’altezza di importanti snodi di viabilità, come accade a Milano da trent’anni, per accorciare i tempi di intervento?
  2. i Pronti Soccorsi sono dislocati in modo da garantire il pervenimento del paziente in tempi inferiori alla mezz’ora? Sono strutturati e coordinati con i reparti dell’ospedale cui solitamente afferiscono i casi che richiedono interventi tempestivi, ovvero cardiologia, neurologia, allergologia e malattie rare?
  3. la centrale che invia le ambulanze (il 118) opera in stretto coordinamento con un corrispettivo coordinamento dei siti ospedalieri, in modo da garantire il rapido pervenimento del paziente nell’ospedale giusto? E, nel caso esistesse questa interazione, esiste qualche software gestionale oppure è tutto affidato al caso ed al fattore umano?

Domande semplici, che chiunque abbia vissuto al Nord come in Europa od in USA  non può evitare di porsi, visto che la percezione che si riceve dalla (mala)Sanità romana è quella di un enorme sistema di monadi autoconsistenti che opera in modo autoreferenziale e caotico.
Domande alle quali dovrebbe aggiungersene un’altra, ben più amara e complessa: perchè i Comitati Etici, l’Ordine dei Medici laziale, la magistratura del luogo, i Consigli di Laurea cui afferiscono i policlinici, gli enti religiosi che gestiscono strutture in convenzione non hanno ancora preso posizione dinanzi ad una situazione che dura da decenni e che a Milano come a Bologna sarebbe del tutto inconcepibile, come probabilmente anche a Napoli ed a Palermo?

Domande che, diciamolo, qualunque ‘professionista della politica – od aspirante tale – dovrebbe porsi, visto che i soldi per sostenere un sistema elefantiaco e clientelare non li stampa più nè la Banca Romana d’infame memoria nè la più virtuosa Banca d’Italia di Via de’ Mille.

Ad esempio, come garantire agli abitanti del IV Municipio (ufficialmente almeno 250.000, probabilmente molti di più) dei tempi di pervenimento al Pronto Soccorso, dalla chiamata, inferiori ai 30 minuti, visto quello che ci raccontano sia i navigatori delle autovetture sia Google Maps, in termini di tempi di percorrenza da/per l’ospedale più vicino.

Oppure i malati rari che sono seguiti spesso da esperti collocati in ambulatori mal dislocati e che, in caso di urgenza, vengono, in prima battuta, trasportati in ospedali non immediatamente operativi per quel tipo di patologia, visto che il farmaco salva vita è dato in esclusiva all’ambulatorio, che – ovviamente – chiude alle due del pomeriggio e nel week end (sic!).

Per non parlare dell’enorme ammasso di casette, tra Tiburtina e Casilina, dove vive forse più di un milione di persone con servizi decisamente scarsi, a causa del fatto che quelle periferie crebbero abusivamente, esattamente come quelle delle città sudamericane, e quando le si volle condonare, non si decise di abbatterne almeno un tot per creare viabilità, piazze, ospedali, scuole eccetera.

Il tutto a fronte di un enorme sito ospedaliero, l’ex sanatorio San Camillo Forlanini, pressochè privo di parcheggi e scarsamente raggiungibile dal resto della città, che inspiegabilmente è ‘da salvare’, mentre le sue dimensioni e la sua parcellizzazione in piccoli edifici dimostrano che deve essere destinato ad altro.
Od a fronte del Sant’Andrea, collocato nel nulla, cui si arriva praticamente solo tramite Grande Raccordo Anulare. Come anche per l’enorme IFO San Gallicano, anch’esso poco raggiungibile e che, nonostante la penuria in quel settore della città di pronti soccorsi con reparti alle spalle in grado di gestire casi gravi, è destinato solo alle malattie dermatologiche.

Ovviamente, la campagna elettorale in città verte tutta su ‘chiudere o non chiudere il San Filippo Neri’, un ospedale d’eccellenza, dicono, che ha avuto il grande (de)merito di operare al di fuori delle grandi logiche baronali e che avrebbe dovuto essere trasferito da tempo in una sede più ampia e facilmente raggiungibile di quella attuale.
Anche in questo caso un disastro causato da un deficit di governance regionale, ben più antico della presente gestione, che ha sempre e solo perseguito lo scopo di mantenere l’esistente senza considerare che dalla nascita dei vari Forlanini, San Filippo Neri, Addolorata, Gemelli, eccetera sono trascorsi decenni, che la popolazione è più che raddoppiata ed abita in quartieri distanti ore dai siti ospedalieri dove sono disponibili posti letto e dove sono attivati gli ambulatori per le cure ricorrenti.

Un vero calvario per chiunque abbia necessità di terapie continuative e parenti lungodegenti, specialmente se ricordiamo che è vietata la somministrazione in strutture non pubbliche dei cosiddetti ‘farmaci orfani’, di per se già difficili da trovare in dotazione negli ospedali, con centinaia di migliai di persone nel Lazio che percorrono chilometri ed ore per ottenere un’infusione od una dialisi in centri collocati in luoghi impossibili.

Come andrà a finire? Che la prossima Giunta continuerà a mantenere l’esistente, confidando in qualche decisione politica che appiani i soliti debiti, come ha fatto il governo uscente che, in piena crisi, ha finanziato la sanità laziale con quasi un miliardo di euro.

D’ altra parte, a leggere la storia di Roma, non sembra che in 2500 anni la Caput Mundi abbia scelto organizzazioni e forme di finanziamento differenti.

Intanto, nessuno si chiede quanti possano essere i morti romani causati dalla lentezza di accesso al pronto soccorso ed alle terapie d’urgenza. Non dovrebbero essere così pochi, però.
That’s Rome.

originale postato su demata