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Il corrotto Lula cerca aiuto in Italia

25 Mar
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Luiz Inácio Lula da Silva – 1979

Luiz Inácio Lula da Silva nacque da una famiglia povera e analfabeta a Caetés, lasciò la scuola dopo la quarta elementare per fare il lustrascarpe e il venditore di strada.

Nel 1978 fu eletto presidente del sindacato dei lavoratori dell’acciaio (Sindicato dos Metalurgicos do ABC) di São Bernardo do Campo e Diadema, dove si trovava la maggior parte delle industrie automobilistiche come Ford, Volkswagen, Mercedes-Benz, Toyota.
Conquistato il sindacato si butta immediatamente in politica e diventa deputato dal 1986 con il Partido dos Trabalhadores, puntando fin dall’inizio a diventare presidente del Brasile, candidandosi nel 1989, 1994 e 1992 senza successo e, tenta e ritenta, vincere nel 2002 e facendosi riconfermare fino al 2010.

Non potendosi candidare per un terzo mandato consecutivo, Lula indicò la politica ed economista Dilma Rousseff come sua erede alla presidenza della repubblica, nonostante la stessa già nel 2007 avesse favorito la vendita della compagnia area VarigLog, specializzata nel trasporto di merci, e della compagnia Varig al fondo nordamericano Matlin Patterson e ai tre soci brasiliani e nonostante che, proprio nel 2010, era stata al centro di scandali per dossieraggio e ricatti verso gli avversari politici del Partido dos Trabalhadores, tra cui il politico José Serra, anch’egli candidato alla presidenza della repubblica, ed Eduardo Jorge Caldas Pereira, presidente del Partito della Social Democrazia Brasiliana.

Da tempo si è scoperto che Lula, quando era alla guida del Paese tra il 2003 e il 2010, era anche parte dallo schema corruttivo del colosso petrolifero statale PetroBras, che ha distribuito oltre 2 miliardi di dollari in mazzette a politici del Partito dei Lavoratori, ricevendo denaro dalla Petrobras e altri favori da parte di imprese varie, come la costruzione di un ranch e di un attico di 216 mq su tre livelli fronte mare.
Ed, oggi, nel mirino degli inquirenti c’è il “cerchio magico” dell’ex leader socialista: la moglie Marisa Letícia e i figli Sandro Luis, Fabio Luis, Marcos Claudio e Luis Claudio, il direttore dell’istituto Lula, Paulo Okamotto, l’assistente speciale di Lula ai tempi della sua presidenza Clara Ant e José de Filippi jr, segretario del prefetto Fernando Haddad, membro del partito.
Per evitare che venisse arrestato per corruzione, la presidente Dilma Rousseff ha addirittura tentato di nominare Lula ministro, ma la nomina è stata bloccata dalla magistratura, la Camera dei deputati brasiliana ha eletto una commissione speciale per l’impeachment contro di lei e l’opposizione ha portato 3 milioni di persone in piazza.

Dunque, all’ex presidente Lula non resta che scappare e chiedere asilo ad un Paese straniero e … la scelta sarebbe caduta sull’Italia, come riporta oggi Veja, il più venduto settimanale brasiliano.
Il piano consisterebbe nel rifugiarsi nell’ambasciata italiana a Brasilia e da lì ottenere un salvacondotto dal Congresso per poter lasciare il Brasile. E deve essere un progetto di vecchia data, se la moglie Marisa Leticia e i figli richiesero la cittadinanza italiana nel 2002, giusto prima che Lula assumesse la presidenza …

E, giusto per non smentire il personaggio, ricordiamo che, mentre la Sinistra alternativa, antagonista, democratica o socialista lo osannava, il ‘compagno’ Lula diveniva Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Reale Norvegese di Sant’Olav e dell’Ordine Reale Norvegese al Merito, Collare dell’Ordine di Isabella la Cattolica (Spagna), Collare dell’Ordine del Re Abd al-Aziz (Arabia Saudita), Membro di I Classe dell’Ordine degli Omayyadi (Siria), Cavaliere di Gran Croce Onorario dell’Ordine del Bagno fondato da Giorgio I d’Inghilterra.

Dunque, è alquanto probabile che  Luiz Inácio Lula da Silva passerà alla Storia come l’ennesimo semianalfabeta, che – messosi in testa a 20 anni di diventare ricco, potente e nobile – c’è riuscito grazie alla professione (se così si può chiamare) di “demagogo socialista”. Resta solo da capire se l’Italia – nota nel mondo per la corruzione politico-mafiosa – lo aiuterà a fuggire all’estero con i soldi sottratti al popolo e  nel silenzio generale, alla stregua dei peggiori dittatori.

I rapporti di Lula con la sinistra italiana – a parte la protezione assicurata personalmente da Lula al terrorista omicida Cesare Battisti –  sono  di vecchia data, fin dai tempi del PCI di Occhetto che lo incontrò a Roma nel 1990 e della CGIL di Cofferati, che nel 1997 lo ebbe ospite di convegni a Bologna, ma anche dopo, nel 2002, quando Veltroni in visita  in Brasile lo indicò come un “leader che ha la forza di parlare non solo alla sinistra”.
Alla sua elezione a presidente, Bertinotti (CGIL e PRC) tenne a dichiarare che “è un auspicio per tutti coloro che in America Latina e nel mondo vogliono battersi contro l’ingiustizia sociale”, Cossutta (PCI) lo elogiò per “il prestigio e l’alto grado di credibilità di cui lui e il suo partito godono tra il popolo brasiliano”, Fassino offrì “l’abbraccio amichevole di Democratici di Sinistra italiani”,  D’Alema spiegò a tutti che “l’insegnamento di Lula è che la sinistra deve sempre restare unita, abbiamo molto da imparare da lui” e Laura Boldrini, giusto un anno fa scriveva che “è contagiosa l’energia che trasmette Luiz Inácio Lula da Silva, l’ex Presidente del Brasile. L’incontro avvenuto a San Paolo è stato uno dei momenti più significativi del mio viaggio in Sud America”.

Battersi contro l’ingiustizia sociale, il prestigio e l’alto grado di credibilità, l’abbraccio amichevole, abbiamo molto da imparare, è contagiosa l’energia, momenti più significativi … uà.

Demata

Stefano Cucchi, le colpe di tutti

7 Giu

Stefano Cucchi – in data giovedì 15 ottobre 2009, verso le ore 23.30 – viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti, a Roma, e trovato in possesso di un modesto quantitativo di droga, una ventina di grammi di cocaina e hashish in tutto.

Incredibile a dirsi, ma Stefano Cucchi – tossicodipendente ed epilettico con qualche spicciolo di droga in tasca – viene sottoposto a “custodia cautelare in carcere”, che è la forma più intensa di privazione della libertà personale in tema di misure cautelari.
Una misura, prevista dall’art. 275 del Codice di Procedure Penale, da applicare solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata, ovvero solo in tre casi, cioè pericolo di fuga e conseguente sottrazione al processo ed alla eventuale pena, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di turbamento delle indagini.

Al momento dell’arresto, il giovane non aveva alcun trauma fisico e pesava 43 chilogrammi per 176 cm di altezz, ma, il giorno dopo,16 ottobre, quando viene processato per direttissima, aveva difficoltà a camminare e a parlare e mostrava inoltre evidenti ematomi agli occhi.
Nonostante la modesta quantità di stupefacenti in suo possesso, la lunga storia di tossicodipendenza, l’epilessia, la denutrizione, il giudice stabilisce una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e che Stefano Cucchi rimanesse per tutto questo tempo in custodia cautelare nel carcere romano di Regina Coeli.
C’era il sospetto che fosse uno spacciatore, come poi confermatosi grazie alla collaborazione dei genitori, che – dopo la morte del figlio – scoprono e consegnano 925 grammi di hashish e 133 grammi di cocaina, nascosti da Stefano Cucchi in una proprietà di famiglia.

Una scelta, quella della privazione della libertà, decisamente infausta, visto che già dopo l’udienza le condizioni di Cucchi peggiorarono ulteriormente e viene visitato presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia, dove gli vengono riscontrate “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente” e dove Stefano dichiara “lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. Anche all’arrivo in carcere viene sottoposto a visita medica che evidenzia “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”.
Trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per effettuare ulteriori controlli, viene refertato per lesioni ed ecchimosi alle gambe, all’addome, al torace e al viso, una frattura della mascella,  un’emorragia alla vescica ed  due fratture alla colonna vertebrale.

Un quadro clinico gravissimo ed eloquente per il quale i sanitari chiedono il ricovero che però viene rifiutato dal giovane stesso, che nega di essere stato picchiato.
Stranamente, con una tale prognosi e l’evidenza biomedica di un brutale pestaggio nessuno dei sanitari intervenuti (in tribunale, nel carcere di Regina Coeli, nell’ospedale Fatebenefratelli) sente il dovere di segnalare al drappello ospedaliero ed a un magistrato la cosa, come accadrebbe, viceversa, se a presentarsi al Pronto Soccorso fosse – massacrato e reticente – un qualunque cittadino.

Stefano Cucchi, con un’emorragia alla vescica e due vertebre fratturate, ritorna in carcere. Il giorno dopo, 17 ottobre,  viene nuovamente visitato da due medici di Regina Coeli, trasferito al Fatebenefratelli e poi, all’ospedale Sandro Pertini, nel padiglione destinato ai detenuti.
Lì trascorre altri tre giorni in agonia, arrivando a pesare 37 chili, ai familiari vengono negate visite e notizie, muore ‘per cause naturali’ il 22 ottobre 2009.

Durante le indagini circa le cause della morte, ottenute con grande fatica dalla famiglia anche grazie ad un forte coinvogimento popolare, diversi testimoni confermarono il pestaggio da parte di agenti della polizia penitenziaria. Un testimone ghanese e la detenuta Annamaria Costanzo dichiararono che Stefano Cucchi gli aveva detto d’essere stato picchiato, il detenuto Marco Fabrizi ebbe conferma delle percosse da un agente,  Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti picchiare Cucchi con violenza (fonte Il Messaggero).

“Pestato nei sotterranei del tribunale. Nel corridoio delle celle di sicurezza, prima dell’udienza. Stefano Cucchi è stato scaraventato a terra e, quando era senza difese, colpito con calci e pugni”. L’omicidio preterintenzionale viene contestato a Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, sospettati dell’aggressione.  (fonte La Repubblica)

Traumi conseguenti alle percosse, che da soli non avrebbero, però, potuto provocare la morte di Stefano Cucchi. Per i quali non si aprono indagini immediate, nè in tribunale quando Cucchi si presenta in quelle condizioni, nè dopo quando rimbalza tra Fatebenefratelli e carcere, informando un magistrato.
Ed infatti, oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vengono indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato adeguatamente il giovane.

Stefano Cucchi muore per il digiuno, la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l’emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1400 cc di urina, con risalita del fondo vescicale e compressione delle strutture addominali e toraciche). Determinante fu l’ipoglicemia in cui i medici lo avevano lasciato e tale condizione si sarebbe potuta scongiurare mediante la semplice assunzione di zuccheri.

Un pestaggio in carcere non dovrebbe, ma può accadere, visto che si accomunano uomini privi di libertà con altri dotati di potere assoluto. Che si infierisca con brutalità su un tossicodipendente, epilettico e denutrito è un abominio, non a caso il ministro La Russa espresse “sollievo per i militari mai coinvolti”, riferendosi ai carabinieri che avevano arrestato Stefano Cucchi.

Ma è davvero mostruoso che un malato trascorra la propria agonia in una corsia, dove dovrebbe essere monitorato, nutrito, curato, tutelato senza che nulla di tutto questo accada.
Una colpa gravissima che ricade tutta sui medici preposti e giustamente condannati in prima udienza per omicidio colposo.
Gli agenti di polizia penitenziaria sono stati assolti – in primo grado – dall’accusa di lesioni personali e abuso di autorità con la formula che richiama la vecchia insufficienza di prove.

“Nonostante siano passati 25 anni da quando il nostro Paese ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e altre pene e trattamenti… inumani e degradanti, ancora nell’ordinamento italiano non è stato introdotto un reato specifico, come richiesto dalla Convenzione, che la sanzioni”. (Irene Testa, segretario dell’associazione radicale Detenuto Ignoto).

Un vuoto legislativo che ci «colloca agli ultimi posti in Europa» denuncia Mauro Palma, presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. Un buco nero tornato alla ribalta dopo che i pm che indagano sui fatti di Bolzaneto legati al G8 di Genova sono stati costretti a contestare agli indagati solo l’abuso di ufficio. (fonte Corsera)
Una ‘problematica’ che si ripresenta, tra i tanti,  per Stefano Cucchi e per Federico Aldrovandi, per Giuseppe Uva (Varese), per Aldo Bianzino (Perugia), per Marcello Lonzi (Livorno), per Stefano Guidotti (Rebibbia), per Mauro Fedele (Cuneo), per Marco De Simone (Rebibbia), per Marcello Lonzi (Livorno), Habteab Eyasu (Civitavecchia), Manuel Eliantonio (Genova),  Gianluca Frani (Bari), Sotaj Satoj (Lecce), Maria Laurence Savy (Modena), Francesca Caponetto (Messina), Emanuela Fozzi (Rebibbia) e Katiuscia Favero (Castiglione Stiviere).

In effetti, nel 1987 Roma ratificò la convenzione Onu che vieta la tortura, ma in Italia non è mai stata fatta la legge in materia, nonostante già nel dicembre 2006 la bozza di legge era stata approvata alla Camera  e  nel luglio 2007 era stata licenziata dalla Commissione Giustizia del Senato. Intanto, nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per “cause naturali” e la restante parte per “cause da accertare”.

«Avrebbe dovuto approdare in aula nei giorni della crisi ma è stata lasciata morire. È necessario che il prossimo Parlamento metta tra le sue priorità l’approvazione del provvedimento che introduce il reato di tortura in Italia» auspica”. (Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone per i diritti nelle carceri)

Il ‘prossimo parlamento’ c’è e nel Padiglione detenuti dell’Ospedale Sandro Pertini sembra siano rimasti solo tre medici, visto che i loro colleghi degli altri reparti hanno il diritto di rifiutare il trasferimento, , come accade per tanti altri servizi necessari ai cittadini.

Intanto, prendiamo atto che per Stefano Cucchi un intero ospedale non è riuscito a fornire un cucchiaio di zucchero (meglio una flebo di glucosio), che le lesioni gravi e l’abuso di potere ci sono state, ma non si sa chi le abbia perpetrate e, soprattutto, che nessuno dei medici le ha denunciate.

originale postato su demata