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Stefano Cucchi, le colpe di tutti

7 Giu

Stefano Cucchi – in data giovedì 15 ottobre 2009, verso le ore 23.30 – viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti, a Roma, e trovato in possesso di un modesto quantitativo di droga, una ventina di grammi di cocaina e hashish in tutto.

Incredibile a dirsi, ma Stefano Cucchi – tossicodipendente ed epilettico con qualche spicciolo di droga in tasca – viene sottoposto a “custodia cautelare in carcere”, che è la forma più intensa di privazione della libertà personale in tema di misure cautelari.
Una misura, prevista dall’art. 275 del Codice di Procedure Penale, da applicare solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata, ovvero solo in tre casi, cioè pericolo di fuga e conseguente sottrazione al processo ed alla eventuale pena, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di turbamento delle indagini.

Al momento dell’arresto, il giovane non aveva alcun trauma fisico e pesava 43 chilogrammi per 176 cm di altezz, ma, il giorno dopo,16 ottobre, quando viene processato per direttissima, aveva difficoltà a camminare e a parlare e mostrava inoltre evidenti ematomi agli occhi.
Nonostante la modesta quantità di stupefacenti in suo possesso, la lunga storia di tossicodipendenza, l’epilessia, la denutrizione, il giudice stabilisce una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e che Stefano Cucchi rimanesse per tutto questo tempo in custodia cautelare nel carcere romano di Regina Coeli.
C’era il sospetto che fosse uno spacciatore, come poi confermatosi grazie alla collaborazione dei genitori, che – dopo la morte del figlio – scoprono e consegnano 925 grammi di hashish e 133 grammi di cocaina, nascosti da Stefano Cucchi in una proprietà di famiglia.

Una scelta, quella della privazione della libertà, decisamente infausta, visto che già dopo l’udienza le condizioni di Cucchi peggiorarono ulteriormente e viene visitato presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia, dove gli vengono riscontrate “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente” e dove Stefano dichiara “lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. Anche all’arrivo in carcere viene sottoposto a visita medica che evidenzia “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”.
Trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per effettuare ulteriori controlli, viene refertato per lesioni ed ecchimosi alle gambe, all’addome, al torace e al viso, una frattura della mascella,  un’emorragia alla vescica ed  due fratture alla colonna vertebrale.

Un quadro clinico gravissimo ed eloquente per il quale i sanitari chiedono il ricovero che però viene rifiutato dal giovane stesso, che nega di essere stato picchiato.
Stranamente, con una tale prognosi e l’evidenza biomedica di un brutale pestaggio nessuno dei sanitari intervenuti (in tribunale, nel carcere di Regina Coeli, nell’ospedale Fatebenefratelli) sente il dovere di segnalare al drappello ospedaliero ed a un magistrato la cosa, come accadrebbe, viceversa, se a presentarsi al Pronto Soccorso fosse – massacrato e reticente – un qualunque cittadino.

Stefano Cucchi, con un’emorragia alla vescica e due vertebre fratturate, ritorna in carcere. Il giorno dopo, 17 ottobre,  viene nuovamente visitato da due medici di Regina Coeli, trasferito al Fatebenefratelli e poi, all’ospedale Sandro Pertini, nel padiglione destinato ai detenuti.
Lì trascorre altri tre giorni in agonia, arrivando a pesare 37 chili, ai familiari vengono negate visite e notizie, muore ‘per cause naturali’ il 22 ottobre 2009.

Durante le indagini circa le cause della morte, ottenute con grande fatica dalla famiglia anche grazie ad un forte coinvogimento popolare, diversi testimoni confermarono il pestaggio da parte di agenti della polizia penitenziaria. Un testimone ghanese e la detenuta Annamaria Costanzo dichiararono che Stefano Cucchi gli aveva detto d’essere stato picchiato, il detenuto Marco Fabrizi ebbe conferma delle percosse da un agente,  Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti picchiare Cucchi con violenza (fonte Il Messaggero).

“Pestato nei sotterranei del tribunale. Nel corridoio delle celle di sicurezza, prima dell’udienza. Stefano Cucchi è stato scaraventato a terra e, quando era senza difese, colpito con calci e pugni”. L’omicidio preterintenzionale viene contestato a Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, sospettati dell’aggressione.  (fonte La Repubblica)

Traumi conseguenti alle percosse, che da soli non avrebbero, però, potuto provocare la morte di Stefano Cucchi. Per i quali non si aprono indagini immediate, nè in tribunale quando Cucchi si presenta in quelle condizioni, nè dopo quando rimbalza tra Fatebenefratelli e carcere, informando un magistrato.
Ed infatti, oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vengono indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato adeguatamente il giovane.

Stefano Cucchi muore per il digiuno, la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l’emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1400 cc di urina, con risalita del fondo vescicale e compressione delle strutture addominali e toraciche). Determinante fu l’ipoglicemia in cui i medici lo avevano lasciato e tale condizione si sarebbe potuta scongiurare mediante la semplice assunzione di zuccheri.

Un pestaggio in carcere non dovrebbe, ma può accadere, visto che si accomunano uomini privi di libertà con altri dotati di potere assoluto. Che si infierisca con brutalità su un tossicodipendente, epilettico e denutrito è un abominio, non a caso il ministro La Russa espresse “sollievo per i militari mai coinvolti”, riferendosi ai carabinieri che avevano arrestato Stefano Cucchi.

Ma è davvero mostruoso che un malato trascorra la propria agonia in una corsia, dove dovrebbe essere monitorato, nutrito, curato, tutelato senza che nulla di tutto questo accada.
Una colpa gravissima che ricade tutta sui medici preposti e giustamente condannati in prima udienza per omicidio colposo.
Gli agenti di polizia penitenziaria sono stati assolti – in primo grado – dall’accusa di lesioni personali e abuso di autorità con la formula che richiama la vecchia insufficienza di prove.

“Nonostante siano passati 25 anni da quando il nostro Paese ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e altre pene e trattamenti… inumani e degradanti, ancora nell’ordinamento italiano non è stato introdotto un reato specifico, come richiesto dalla Convenzione, che la sanzioni”. (Irene Testa, segretario dell’associazione radicale Detenuto Ignoto).

Un vuoto legislativo che ci «colloca agli ultimi posti in Europa» denuncia Mauro Palma, presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. Un buco nero tornato alla ribalta dopo che i pm che indagano sui fatti di Bolzaneto legati al G8 di Genova sono stati costretti a contestare agli indagati solo l’abuso di ufficio. (fonte Corsera)
Una ‘problematica’ che si ripresenta, tra i tanti,  per Stefano Cucchi e per Federico Aldrovandi, per Giuseppe Uva (Varese), per Aldo Bianzino (Perugia), per Marcello Lonzi (Livorno), per Stefano Guidotti (Rebibbia), per Mauro Fedele (Cuneo), per Marco De Simone (Rebibbia), per Marcello Lonzi (Livorno), Habteab Eyasu (Civitavecchia), Manuel Eliantonio (Genova),  Gianluca Frani (Bari), Sotaj Satoj (Lecce), Maria Laurence Savy (Modena), Francesca Caponetto (Messina), Emanuela Fozzi (Rebibbia) e Katiuscia Favero (Castiglione Stiviere).

In effetti, nel 1987 Roma ratificò la convenzione Onu che vieta la tortura, ma in Italia non è mai stata fatta la legge in materia, nonostante già nel dicembre 2006 la bozza di legge era stata approvata alla Camera  e  nel luglio 2007 era stata licenziata dalla Commissione Giustizia del Senato. Intanto, nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per “cause naturali” e la restante parte per “cause da accertare”.

«Avrebbe dovuto approdare in aula nei giorni della crisi ma è stata lasciata morire. È necessario che il prossimo Parlamento metta tra le sue priorità l’approvazione del provvedimento che introduce il reato di tortura in Italia» auspica”. (Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone per i diritti nelle carceri)

Il ‘prossimo parlamento’ c’è e nel Padiglione detenuti dell’Ospedale Sandro Pertini sembra siano rimasti solo tre medici, visto che i loro colleghi degli altri reparti hanno il diritto di rifiutare il trasferimento, , come accade per tanti altri servizi necessari ai cittadini.

Intanto, prendiamo atto che per Stefano Cucchi un intero ospedale non è riuscito a fornire un cucchiaio di zucchero (meglio una flebo di glucosio), che le lesioni gravi e l’abuso di potere ci sono state, ma non si sa chi le abbia perpetrate e, soprattutto, che nessuno dei medici le ha denunciate.

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Curriculum che parlano

8 Feb

Non pensavo che un banale post, dove si andava a ricostruire criticamente un curriculum “esemplare” link, potesse contribuire a scatenare un “caso” e mi sembra utile aggiungere qualcosa, dato che non è stato affatto un “attacco strumentale e gratuito a una studiosa”.

Iniziamo, innazitutto, col ribadire che “riguardo le qualità culturali e scientifiche della persona in questione nulla è messo in dubbio nel post, che non a caso precisa “una nomina, di sicuro, non immeritata, se PubMed mostra in review ben 93 pubblicazioni della dottoressa Silvia Deaglio.”
Come anche, nulla di quanto scritto nel post fa riferimento a cumulo di borse, doppi lavori et similia, ripostati in rete. Anzi, a leggere il curriculum c’è solo da prender atto della sua bravura nel campo della ricerca e nella fortuna che l’ha assistita nell’economicamente oneroso cursus studiorum.

Però, se andiamo a chiederci “quali sono le eccellenze, curriculum alla mano, dei “giovani” che dovrebbero avvicendare gli attuali gerontocrati, bypassando le generazioni intermedie”, sorge un preciso quesito quesito, anche tenendo conto delle doti scientifiche dell’oncologa: “Ma con un curriculum così, quanta esperienza clinica, magari proprio in reparto tra i malati che combattono quotidianamente con il cancro, può aver effettivamente maturato, a 14 anni dalla laurea, il medico Silvia Deaglio, che ha “sempre” fatto ricerca e docenza?”.

Ma non solo, le domande che pone, indirettamente, il post – le domande che io mi pongo, per l’esattezza – sono diverse dall’aspetto scandalistico o personalistico e riguardano la nostra società italiana.

Il post si titola “Fornero, una figlia in carriera”: è la storia quella che conta, perchè è esemplare, sia nel successo (non messo in discussione) dell’oncologa, sia, soprattutto, dalla rapidità con cui tutti i gradini necessari per diventare un professore di seconda fascia siano andati a posto con un sincronismo da record, anche tenendo conto del ceto sociale, elevatissimo, della ragazza.
Silvia Deaglio è certamente la persona tra le più fortunate del paese, almeno per quanto riguarda il lavoro, è il suo curriculum a raccontarlo.

E, visto che Elsa Fornero è il ministro del Welfare, dobbiamo necessariamente chiederci se, leggendone il curriculum, la nostra oncologa avrebbe avuto la medesima “rapidità di carriera”, ovvero di accumulare riconoscimenti e finanziamenti, nel caso fosse stata una persona qualunque con una famiglia alle spalle del ceto medio o, peggio, della cosiddetta worker class.

Purtroppo, la risposta è no, basta consultare le statistiche per saperlo: l’improbabilità del dato è estrema ed, a dirla tutta, i figli della worker class di iscriversi a medicina non ci pensano neanche. Troppi anni e niente soldi per avviare uno studio di periferia.

Ovviamente la questione non è rivolta a Silvia – cosa farci se il destino le è benevolo – ma alla madre Elsa, che sembra, in quello che dice ed in quello che fa, di non ricordare che si occupa di Welfare, ovvero di politica e di pari opportunità di accesso a diritti e servizi.
Anche nelle banlieu nascono dei geni, perchè nessuno oggi si fa strada legalmente, mentre 30 anni fa era ancora possibile? E di cos’altro dovrebbe occuparsi un ministro del Welfare, congiuntamente ai suoi colleghi, se si vuole essere un governo giusto?

Oppure, parliamo sempre del curriculum, andrebbe chiarito – esiste anche una deontologia “dei docenti” ed un’altra “degli scienziati” – se sia del tutto “limpida”, per un docente di un’università pubblica e non privata,  l’esser prima diventata “head” della Immunogenetics Research Unit finanziata da un ente privato afferente alla Compagnia ove mamma è il “number two” e, solo poi, professore associato, direttamente in seconda fascia.

Troppo facile poter addiritura “avere” un centro di ricerca indirettamente finanziato dalla Compagnia di mammà e poi partecipare ad un concorso pubblico per titoli: è una questione di stile.

O, ancora, cosa ce ne si fa ed a chi vanno a beneficiare le tante borse di studio di fondazioni private e non, tra cui leggiamo Telethon nel curriculum in questione, che arrivano dai fondi raccolti – per le stelle di Natale o con gli sms, ad esempio – proprio tra le fasce più bisognose della popolazione. Silvia Fornero Biagi aveva certamente una disponibilità di mezzi “molto importante”, in famiglia, la borsa poteva andare al secondo classificato.

Utile precisare che Telethon ha intrapreso un rapporto di collaborazione con le fondazioni di origine bancaria, tra cui spicca il nome della Compagnia di San Paolo.

E, dunque, facendo riferimento, ai fondi che arrivano dai grandi enti della finanza e dell’industria, andrebbe fugato il dubbio che, in casi deprecabili, questo possa rivelarsi un modo “impeccabile” per finanziare gli studi di giovani “eccellenti”, inserirli in gruppi di lavoro importanti, dotarli di un vistoso “blasone” su cui impiantare il curriculum vincente.

Non è certo il caso di Silvia Deaglio, meritevole di suo a quanto pare, ma la “linea fortunata”, che possiamo evincere dal suo curriculum, dovrebbe renderci cauti quando, in Italia, ma forse in tutta Europa, si parla di “professori” e di “giovani eccellenti”.

Dubbi che dovremmo fugare per il bene del paese, visto che non “il caso”, ma statistiche decennali, ci raccontano di sedi/organici eccessivi e del notorio nepotismo degli ambienti accademici.

Come anche ci ritroviamo troppo spesso a leggere delle onlus e delle fondazioni che poco, troppo poco, offrono ai malati, a fronte di un gettito rilevante, che, a quanto pare, si volatilizza in spese di gestione, borse per “eccellenze” e fondi per la “giovani ricercatori”.

Come, infine, dovremmo affrontare il problema dei finanziamenti privati alla ricerca pubblica, che presenta potenziali problemi di conflitto di interessi, che potrebbero danneggiare la ricerca effettivamente innovativa, e diversi “buchi nel recinto”, attraverso i quali, avendo i soldi, è possibile “costruire una carriera” in breve tempo.

Non è certo il caso di Silvia Deaglio, studiosa seria come del resto la madre, ma dalla sua “linea fortunata” possiamo evincere un “percorso” facilmente perseguibile da giovani molto meno dotati e “soltanto fortunati”.

Tanti quesiti, tra cui quello che conta.
Elsa Fornero da due mesi si occupa di politica e sembra non essersene del tutto accorta, come del resto tutto il governo Monti. Certe scelte o cert’altre affermazioni nessun politico, italiano e non, si sognerebbe mai di dirle o metterle in atto.

Quanto impiegheranno i “professori” per capire che si stanno occupando, da premier e da ministri, della “politica di una nazione”, che non è un modello teorico a cui applicare formulette anglosassoni e, soprattutto, tagliando dove “si può”, che è ancor peggio che fare tagli lineari, o delegando le riforme strutturali del sistema di amministrazione pubblica alla politica dei partiti, che, prendiamo atto, non c’è.

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Fornero, una figlia in carriera

6 Feb

Da qualche giorno, la Rete ci sta informando che Silvia Deaglio è ricercatrice in genetica medica, professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino e responsabile unità di ricerca.

Per l’esattezza, Silvia Deaglio è nata nel 1974, a soli 24 anni era laureata in medicina, specializzazione in oncologia nel 2002, dottorato in genetica umana nel 2006.
Le “particolarità” che hanno scatenato l’attenzione dei media iniziano nel 2005, quando, appena conseguito il Master e mentre svolgeva un dottorato in Italia, si ritrova Instructor in Medicine e Visiting Assistant Professor presso il Beth Israel Deaconess Medical Center, Harvard Medical School di Boston, nel Massachussests.

Per l’esattezza, in quel periodo, Silvia Deaglio era ricercatore non confermato a Torino, mentre era dottoranda nella stessa Università e mentre lavorava nel Massachussets come Instructor.
Ma non solo. Dal 2005, teneva anche il corso di Genetica Medica per la Laurea in Scienze Infermieristiche (sedi di Torino e Ivrea), oltre ad essere Board presso la Scuola di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, sempre dell’Università degli Studi di Torino.

Dov’è il problema?
Le borse di dottorato non possono essere cumulate con assegni di ricerca. Le attività lavorative esterne sono autorizzate dal Consiglio della Scuola e non devono in alcun modo identificarsi con l’attività svolta dal dottorando per il conseguimento del titolo.
Le borse di dottorato non possono essere cumulate con altre borse di studio o forme di sussidio a carico del bilancio universitario e/o dello Stato, fatta eccezione per quelle previste per integrare, con soggiorni all’estero, le attività di ricerca del dottorando.” (regolamenti universitari standard)

Altra “anomalia” nel 2010, allorchè, ancora ricercatrice, viene messa a capo della Immunogenetics Research Unit finanziata dalla Human Genetics Foundation presso l’Università di Torino.

Un “notevole scatto di carriera”, specialmente se si considera che solo un anno dopo (2011) arriva la nomina a professore associato. Una nomina, di sicuro, non immeritata, se PubMed mostra in review ben 93 pubblicazioni della dottoressa Silvia Deaglio.

Ma, d’altra parte, come non pensare di trovarsi dinanzi ad una “predestinata”, se Silvia Deaglio quasi neanche s’era laureata che già vinceva premi scientifici.

  • 1996: PBI international Prize per la migliore ricerca al congresso “Immunology Cooperation Group (GCI)” L’Aquila,
  • 1998: Premio Telethon Foundation per la ricerca scientifica, Roma,
  • 1999: Premio per il miglior studente, Associazione Industriali di Torino,
  • 2002: Premio Cecilia Cioffrese per la ricerca sul cancro, Milano.

Ricerche condotte a patto di trovare un gruppo di ricerca “vincente” che ti accolga e che, soprattutto, ti lasci firmare una pubblicazione  … (Curriculum link)

Alcuni “quid in carriera” che, però, da novembre scorso sono diventati fin troppo vistosi, specialmente in un paese, dove, da un lato, la Costituzione impegna lo Stato a fornire pari opportunità ai cittadini e, dall’altro, ci si ritrova fermi al palo, mentre è ministro del Welfare  Elsa Fornero, proprio la madre della “nostra” giovane oncologa.

Infatti, Silvia Deaglio ha svolto tutta la sua carriera, fin dai primi passi di matricola, nella stessa università dove i suoi genitori, Elsa Fornero e Mario Deaglio, sono dei rispettati e noti docenti.
E, soprattutto, è bene ricordare che la Immunogenetics Research Unit, a cui è capo la figlia di Elsa Fornero, è finanziata dalla Human Genetics Foundation, a sua volta un’istituzione creata e finanziata dalla Compagnia di San Paolo, di cui l’attuale ministro del Welfare è stata vicepresidente dal 2008 al 2010.

La storia di Silvia Deaglio non smentisce, anzi sembra confermare, la tradizione italica per la quale nelle università pubbliche restano solo coloro che hanno già un parente “nel sistema”.
Del resto, come non notarlo, se, a parte l’inserimento “ottimale” nel mondo accademico e la possibilità di accesso ad ingenti finanziamenti “fiduciari”, Silvia Fornero Deaglio, a trentacinque anni, oltre tutta l’attività di ricerca che sottoscrive, di cattedre riesce a tenerne davvero tante: Problemi di salute V e Genetica medica per il Corso di Laurea in Infermieristica ad Ivrea, più Basi Biologiche e Genetica Umana, Biologia Generale e Genetica, Genetica Umana per la Laurea Magistrale/Specialistica in Medicina e Chirurgia – sede di Torino. (Dettaglio Corsi pdf)

E’ questo che intendono i ministri di Mario Monti, quando affermano “il posto fisso è un’illusione” (Fornero) oppure che bisogna “staccarsi da mamma e papà” (Cancellieri) …ed ecco quali sono, curriculum alla mano, i “giovani” che dovrebbero avvicendare gli attuali gerontocrati, bypassando le generazioni intermedie.

E io pago.

Aggiornamento dell’8 febbraio:
Rispondo a chi, in un commento, ipotizza che questo post sia un “attacco strumentale e gratuito a una studiosa”.

Iniziamo col precisare che “riguardo le qualità culturali e scientifiche della persona in questione nulla è messo in dubbio nel post, che non a caso precisa “Una nomina, di sicuro, non immeritata, se PubMed mostra in review ben 93 pubblicazioni della dottoressa Silvia Deaglio.”
Come anche, nulla di quanto scritto nel post fa riferimento a cumulo di borse, doppi lavori et similia. Anzi, a leggere il curriculum c’è solo da prender atto della sua bravura nel campo della ricerca.

Però, se andiamo a chiederci “quali sono le eccellenze, curriculum alla mano, dei “giovani” che dovrebbero avvicendare gli attuali gerontocrati, bypassando le generazioni intermedie”, sorge un preciso quesito quesito, anche tenendo conto delle doti scientifiche dell’oncologa: “Ma con un curriculum così, quanta esperienza clinica, in reparto, ha maturato il medico Silvia Deaglio?”.

Ma non solo, le domande che pone, indirettamente, il post – le domande che io mi pongo, per l’esattezza – sono diverse dall’aspetto scandalistico o personalistico e riguardano la nostra società italiana.
Il titolo dato al post sia “Fornero, una figlia in carriera”: è la storia quella che conta, perchè è esemplare, sia nel successo (non messo in discussione) della studiosa sia dalla rapidità con cui tutti i gradini necessari per diventare un professore di seconda fascia siano andati a posto con un sincronismo da record.
Silvia Deaglio è certamente la persona tra le più fortunate del paese, almeno per quanto riguarda il lavoro, e la sua storia andava raccontata, da qualcuno certamente.

E, visto che Elsa Fornero è il ministro del Welfare, dobbiamo necessariamente chiederci se, leggendone il curriculum, la nostra oncologa avrebbe avuto la medesima “rapidità di carriera”, ovvero di accumulare riconoscimenti e finanziamenti, nel caso fosse stata una persona qualunque con una famiglia alle spalle del ceto medio o, peggio, della cosiddetta worker class. Purtroppo, la risposta è no, basta consultare le statistiche per saperlo: l’improbabilità del dato è estrema ed, a dirla tutta, i figli della worker class di iscriversi a medicina non ci pensano neanche. Troppi anni e niente soldi per avviare uno studio di periferia.
Ovviamente la questione non è rivolta a lei – cosa farci se il destino le è benevolo – ma alla madre Elsa, che sembra, in quello che dice ed in quello che fa, di non ricordare che si occupa di Welfare, ovvero di politica e di pari opportunità di accesso a diritti e servizi.
Anche nelle banlieu nascono dei geni, perchè nessuno oggi si fa strada legalmente, mentre 30 anni fa era ancora possibile?

Oppure, parliamo sempre del curriculum, andrebbe chiarito – esiste anche una deontologia “dei docenti” – se sia del tutto “limpida”, per un docente di un’università pubblica e non privata,  l’esser prima diventata “head” della Immunogenetics Research Unit finanziata da un ente privato afferente alla Compagnia ove mamma è il “number two” e, solo poi, professore associato, direttamente in seconda fascia. E’ una questione di stile.

O, peggio ancora, cosa ce ne si fa ed a chi vanno a beneficiare le tante borse di studio di fondazioni private e non, tra cui leggiamo Telethon nel curriculum in questione, che arrivano dai fondi raccolti – per le stelle di Natale o con gli sms, ad esempio – proprio tra le fasce più bisognose della popolazione. Come anche, facendo riferimento, ai fondi che arrivano dai grandi enti della finanza e dell’industria, andrebbe fugato il dubbio che, in casi deprecabili, questo possa rivelarsi un modo “impeccabile” per finanziare gli studi di giovani “eccellenti”, inserirli in gruppi di lavoro importanti, dotarli di un vistoso “blasone” su cui impiantare il curriculum vincente.

Dubbi che dovremmo fugare per il bene del paese, visto che non “il caso”, ma statistiche decennali, ci raccontano di sedi/organici eccessivi e del notorio nepotismo degli ambienti accademici. Come anche ci ritroviamo troppo spesso a leggere delle onlus e delle fondazioni che poco, troppo poco, offrono ai malati, a fronte di un gettito rilevante, che, a quanto pare, si volatilizza in spese di gestione, borse per “eccellenze” e fondi per la “giovani ricercatori”.
Come, infine, dovremmo affrontare il problema dei finanziamenti privati alla ricerca pubblica, che presenta potenziali problemi di conflitto di interessi, che potrebbero danneggiare la ricerca effettivamente innovativa, e diversi “buchi nel recinto”, attraverso i quali, avendo i soldi, è possibile “costruire una carriera” in breve tempo.

Silvia Deaglio in tutto questo c’entra poco o nulla se non per il successo che le arriva dall’essere, oltre che brava, anche fortunata.
La questione di cui si tratta in questo post sono le pari opportunità che dovrebbero almeno essere dovute a coloro che son bravi ma non fortunati.

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