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La BBC diffonde prove false contro Assad

7 Set

“La propaganda anti-Assad si serve di grandi nomi, tv potenti, accreditate e giornalisti di lustro. E quando i giornali accreditati sono molto seguiti non occorre nemmeno il sensazionalismo tanto demonizzato dai lettori e se una notizia di propaganda è nutrita di sensazionalismo, non importa. L’uomo medio la filtra e la riconosce come “notizia certa.

E’ quello che è accaduto alla BBC, tv inglese seguita in tutto il mondo.” (fonte Coscienzeinrete)

Infatti, la BBC, trasformatasi da mesi in una sorta di strumento di propaganda anti-Assad, ha diffuso un’immagine ‘shock’, affermando che è stata scattata nella città siriana di Hula ed inviata da alcuni attivisti in Siria, a testimonianza dei massacri attuati dalle forze di Assad avrebbe attuato nel suo stesso popolo per sedare le rivolte affamate di “democrazia”.

In realtà, è un falso, come ha denunciato su Facebook da oltre un anno dall’autore, un fotografo free lance.
“E’ un Italiano e si chiama Marco Di Lauro. Quando ha scattato la foto era il 27 marzo 2003 a Al Musayyib, una città iraqena a 40 km a sud di Baghdad.” (fonte Ecplanet)

massacro siria irak di mauro fotografo falso BBC

Qualcuno sta usando illegalmente una delle mie immagini per la propaganda anti-siriana in prima pagina del sito web della BBC“, questo il post del 27 maggio 2012 (link) dove è precisato anche che il reportage di Marco Di Lauro era ‘by Getty Images’, ovvero nel catalogo di una delle maggiori agenzie fotografiche del mondo.

Come sia riuscita la BBC ad affondare nel fango della propaganda bellica è davvero un mistero.

E’ viceversa tutto da chiarire come sia riuscito Gianni Letta ad associarsi allo sparuto gruppo degli stati che accusano Assad senza averne (ancora) le prove.
Specialmente se il nostro Ministero degli Esteri, nella persona di Emma Bonino, e la Santa Sede sembrano avere informazioni diverse e molto più accurate di quante finora sbandierate dall’asse Stati Uniti – Gran Bretagna – Arabia Saudita …

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Obama e la Siria: ultima corvée per i Democratici?

2 Set

Obama dovrà attendere il voto parlamentare per attaccare la Siria, dopo aver baldanzosamente annunciato: «ho deciso che gli Stati Uniti conducano un’azione militare contro il regime siriano», «ho il potere di ordinare l’attacco senza il via libera di Camera e Senato»

Una catastrofica figuraccia, perchè l’iter si concluderà intorno alla metà di settembre e, in caso di rinuncia all’attacco, con grande spreco di carburante che si è reso necessario per trasferire un’intera flotta di fornite le coste libanesi a carico dei contribuenti statunintensi.

La defaillance presidenziale era stata ampiamente annunciata da questo blog, in due post: Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca, dove si riportava la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gove Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente, e Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere, dove si raccontava del’interferenza saudita, della sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e dell’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Così, infatti, sono andate a finire le cose, con la Gran Bretagna che ha congelato le velleità belliche di Cameron e con la Francia di Hollande unica e sola nell’appoggiare Mr. President.

Le ricadute globali di questo disastro politico obamiano sono e saranno pesantissime, forse epocali, anche se dovesse riuscire a lanciare i suoi ‘attacchi mirati’ senza subire ripercussioni dalla reazione siriana, senza i ‘danni collaterali’ causati in Iraq, Libia e Afganistan e senza scatenare l’Armageddon in Medio Oriente.

Infatti, quello che viene drammaticamente a cadere è tutto il modello politico democratico e progressista di cui Obama (e Hollande) erano gli ultimi alfieri.

Un approccio internazionale ‘orientato al confronto’ che non ha saputo risolvere la questione Guantanamo, nè quella afgana o quella israelo-palestinese. Che ha visto esplodere drammatiche rivoluzioni nordafricane e mediorientali contro dittatori appoggiati dai poteri mondiali, a tutt’oggi non stabilizzate. Che non ha avviato una politica ‘atlantica’ di superamento della crisi mondiale, con tutte le conseguenze date da una Germania egemone e prepotente. Che ha permesso una notevole crescita dell’instabilità nell’Oceano Indiano e nell’America Meridionale.

Cartoon da Cagle.com

Cartoon da Cagle.com

Una esibizione di muscoli – in Libia come in Siria – decisamente pletorica e controproducente. Questo è uno dei verdetti relativi al presidente Barack Obama, ma non è tutta colpa sua.

Infatti, quale futuro può esserci per l’ideale ‘democratico’ (o meglio progressista), se il mito del Progresso è stato infranto già dalla fine degli Anni ’70? O, peggio, se gli stessi Progressisti hanno provveduto – venti e passa anni fa – a sdoganare la Cina Popolare, la Russia di Eltsin e Putin, il Venezuela di Chavez, la strana federazione indiana della famiglia Gandhi, un tot di regimi islamici e qualche residuale dittatura fascista o socialista?

Che farne del costo del lavoro e dei salari minimi, della sanità pubblica, delle pensioni, del welfare, se il sistema globale necessita, per alimentarsi e fluidificarsi, di ignorare l’elemento fondante una società organizzata, ovvero la solidarietà umana?

Come offrire ‘progresso’ in cambio di ‘tradizione’ e ‘pace’ in vece di ‘cambiamento’, se l’effetto conseguente è ‘meno solidarietà’, ‘meno uguaglianza’?

E come esprimere qualcosa di ‘progressivo’, in una società dove non è il lavoro l’elemento alienante delle nostre esistenze, bensì lo sono i consumi e l’iperconnessione?

Dopo un quinquennio di pessime mosse in politica estera e di tagli continui al Welfare, la figuraccia di Obama – nel suo quasi solitario tentativo di inaugurare una nuova guerra mondiale, sulla base dei soliti e sacrosanti doveri morali – è la ciliegina sulla torta per chi cercasse una riprova che o si ritorna ad uno stato etico e liberale oppure progresso, democrazia e welfare diventeranno sempre più una chimera.

Una questione che coinvolgerà tutti i partiti progressisti nel mondo, già vessati da oscene storie di corruttela o di sliding doors in cui tanti dei suoi leader sono stati coinvolti. Ed, infatti, Hollande si è ben guardato da intaccare l’autorevolezza delle istituzioni francesi e l’accessibilità dei servizi ai cittadini, mentre i ceti popolari metropolitani slittano sempre più a destra in Francia, dopo che alcuni leader socialisti sono transitati con non chalance dall epoltrone di partito a quelle degli organi di garanzia per pervenire, sistemate le cose a modo loro, ai vertici di alcune maggiori holding francesi.

Andando all’italia, dove la sola e solitaria Emma Bonino ha avuto il coraggio di ricordare il ‘rischio di una guerra mondiale’, ci troviamo con l’Obama di casa nostra, Matteo Renzi che si propone insistentemente per la guida del Partito Democratico.

Non è che storicamente il Partito avesse brillato per la presenza di leader nati e cresciuti in una qualche metropoli, ma c’è davvero da chiedersi cosa mai potrà permettergli di chiamarsi ‘progressisti’, se il leader è un uomo, che arriva ‘fresco fresco’ da una piccola città di provincia in un mondo miliardario e globale, che deve la sua sopravvivenza alle vestigia – mai rinverdite o rinnovate – del suo lontano Rinascimento e delle speculazioni finanziarie dei loro antenati?

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Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere

26 Ago

Usa e Gran Bretagna “pronti ad attacco entro dieci giorni”, ma Mosca avverte che “con intervento le conseguenze sarebbero gravissime” ed ammonisce su una “nuova avventura irachena”. Assad promette: “Li aspetta il fallimento”. Secondo il Daily Telegraph e il Daily Mail, la decisione sarà presa “entro 48 ore”, dopo la lunga consultazione di ieri tra Barack Obama e David Cameron.
La Casa Bianca, per ora smentisce, ma Hollande indirettamente conferma: “Si deciderà entro prossima settimana” e la Bbc ha comunicato che il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ritiene che una risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime siriano sarebbe possibile anche senza l’appoggio unanime del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Intanto, gli ispettori dell’Onu sono alla ricerca di tracce del gas nervino contro gli insorti nell’oasi di Ghouta in Siria, mentre decine di migliaia di curdi siriani e di rifugiati palestinesi si stanno aggiungendo a quanti cercano con ogni mezzo di uscire dal paese.

La dislocazione delle forze militari nel settore è elevata ed il rischio di escalation è notevole.

foto da maritimequest.com

La Royal Navy garantisce una presenza navale massiccia tra cui un sottomarino a propulsione nucleare, la portaerei Hms Illustriuos, la portaelicotteri Hms Bulwark e almeno 4 fregate, oltre alla copertura aerea garantita dalla base Raf ad Akrotiri a Cipro.

Oltre alla presenza della VI Flotta nel Mediterraneo e della forza di intervento rapida dislocata in Sicilia e nella base aerea di Incirilik a Smirne in Turchia, a cui si potrebbero aggiungere i caccia F-16 dislocati in Giordania, gli USA hanno collocato in prossimità delle acque siriane almeno quattro cacciatorpedinieri di classe Arleigh Burke.

La plancia di un sistema AEGIS – da Wikipedia

Questi destroyer sono armati ognuno con 96 missili da crociera Tomahawk, effettivi per bersagli fino a 2.500 km di distanza, ma, soprattutto, dotati  di sistemi AEGIS, per la guerra elettronica, capaci di integrare i vari sottosistemi e far reagire la nave alla presenza di minacce di superficie, aeree e subacquee.

L’Italia ha in Libano la Brigata di Cavalleria ” Pozzuolo del Friuli”,  lì dislocata per l’Operazione Leonte, voluta dal Governo Prodi nel 2006. La Francia è presente con una consistente presenza terrestre (tra cui 16 carri armati pesanti Leclerc ed aviazione leggera ALAT di supporto) e già nel 2006 aveva dislocato le navi anfibie  Mistral e Siroco e le fregate Jean Bart and Jean de Vienne. La Germania dispone di circa 200 uomini, addetti prevalentemente a logistica e intelligence, e di due navi pattugliatrici.

La Russia ha spedito nella sua storica base navale di Tartus, verso il confine siriano con il Libano e di fronte Cipro, almeno una dozzina di mezzi navali, secondo il Wall Street Journal, mentre soli i civili russi presenti in Siria sono stimati in 30.000 persone secondo il Financial Times.

foto da naval-technology.com

Tra queste navi, ci sono la squadra guidata dalla portaerei Admiral Kuznetsov, che trasporta gli avanzati caccia multituolo Su-33 ed elicotteri d’assalto Ka-27, Ka-28, Ka-29, Ka-32 ed è equipaggiata con il sistema antinave Granit, i modernissimi sistemi di guerra elettronica antiaerea Kortik e Klinok, più l’Udav che offre protezione dai sottomarini. Si aggiungono le navi anfibie d’assalto classe Ropucha, l’Aleksandr Otrakovskiy, la Georgiy Pobedonosets e la Kondopoga, con centinaia di marines a bordo, ed una task force che include il cacciatorpediniere antisommergibile Admiral Panteleyev, la fregata Yaroslav Mudry, altre enormi navi anfibie d’assalto,  la  Peresvet, la Kaliningrad, l’ Alexander Shablinaltre e l’Admiral Nevelskoi, più diversi mezzi navali attrezzati per la guerra elettronica come gli incrociatori antimissile classe Slava, i sottomarini classe Tango e Kilo, le corvette classe Grisha e Dergach. Inoltre, è in prossimità l’intera Black Sea Fleet di stanza nel Mar Nero ed, in particolare, come reazione rapida, il 25° Reggimento Elicotteristi attrezzato con almeno venti Ka-27 and Mi-14, il 917 Reggimento aviotrasportato, il 43° Squadrone dotato di 18 velivoli Su-24M e 4 Su-24MR.

Marines russi a Tartus da Globalpost.com

Il ministro della Difesa russo, alla Pravda, ha precisato recentemente che la Russia non intende ritirare un solo uomo dalla base di Tartus, che rappresenta la sua unica opzione nel Mediterraneo e questo chiarisce la posizione di Mosca riguardo la Siria e palesa il timore di essere scalzata dal suo avamposto, nel caso di una caduta di Assad.
Considerato anche che la Russia ha molto investito in questi anni sulla propria flotta e sugli strumenti per la guerra elettronica, la motivazione appare non solo evidente, ma ampiamente plausibile, in un’ottica di delicati equilibri internazionali.

L’Izvetzia di oggi ha pubblicato una lunga intervista con il presidente siriano Assad (link), che ha negato l’uso di armi chimiche e ha accusato l’Arabia Saudita ed i wahabiti di fomentare e finanziare gli insorti. Inoltre, “sono sono stati ottemperati tutti i contratti stipulati con la Russia. E né la crisi, né pressioni da parte degli Stati Uniti, l’Europa e gli Stati del Golfo hanno impedito l’attuazione. La Russia fornisce Siria che cosa ciò che richiede per la sua difesa, e per la difesa della sua gente.
Diversi stati che si oppongono al popolo siriano hanno inflitto gravi danni sulla nostra economia, soprattutto a causa del blocco economico, a causa della quale noi oggi soffriamo. Russia ha agito in modo diverso. Quando la sicurezza nazionale è indebolita, questo si traduce in un indebolimento della posizione economica. E va da sé che il fatto che la Russia fornisce contratti militari della Siria e questo porterà ad un miglioramento della situazione economica in Siria.

Il sostegno politico della Russia, e anche l’adempimento accurato di contratti militari, nonostante la pressione degli Stati Uniti hanno migliorato significativamente la nostra situazione economica.
E, in particolare, parlando di economia, qualsiasi linea di credito da un paese amico come la Russia è vantaggiosa per entrambe le parti. Per la Russia può significare l’espansione dei mercati e di nuove opportunità per le imprese russe, mentre per la Siria è l’occasione per raccogliere fondi per sviluppare la propria economia.”

Se le cose stanno così, almeno a sentirle raccontare ‘dall’altra sponda’, lascia molto perplessi l’annuncio della Casa Bianca di ‘star studiando il modello Kosovo’, visto che si tratta del ‘buco nero’ di tutti i traffici che ci ritroviamo – noi europei – collocato nel bel mezzo dei Balcani, oltre all’infiltrazione islamista che fu solo relativamente contenuta e le stragi etniche che furono perpetrate anche dai ‘liberatori’.

Tra l’altro la Siria ha un esercito di tutto rispetto con circa 300.000 effettivi, oltre 350 caccia MIG di diverso, anche recente, aggiornamento, e 70 Sukoi per l’attacco al suolo, un centinaio di elicotteri d’attacco, una decina di motovedette lanciamissili classe Osa, almeno 2.000 mezzi per la contraerea, oltre 4.000 missili antiaerei spalleggiabili, una cinquantina di mezzi per razzi e missili balistici tattici classe Scud, Frog e OTR-21 Tochka, migliaia di pezzi d’artigleria o lanciarazzi multipli, quasi cinquemila carri armati di produzione russa classe T54/55, T62 e T72.

Il rischio di un nuovo disastro iracheno, stavolta alle porte di Gerusalemme e di fronte a Cipro, è evidente.
In Siria il problema scatenante il conflitto è dato dall’insorgere dei ceti sunniti contro la minoranza alawita che sostiene da sempre la famiglia Assad e come vadano a finire certe spinte moralizzatrici l’abbiamo appena constatato con il tentativo di golpe bianco di Morsi e dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Ma la Siria è anche confinante con l’Iraq, non ancora pacificato, con il Libano, che vede una folta presenza di forze UNIFIL ‘ad interim’, con Israele, che non vede di buon occhio “i crociati in Terrasanta’, con la Turchia, dalla quale Erdogan spinge per uno stato confessionale, con la Giordania, dove l’impatto dei profughi e le tensioni palestinesi sono già allarmanti e dove già da mesi è stato inviato il team del Meccanismo europeo di protezione civile inviato da Bruxelles, con alla guida un italiano.

La guerra in Irak contro il dittatore Saddam Hussein si è rivelata un disastro per il popolo iracheno, un buon affare per i petrolieri statunitensi e britannici, un ottimo subentro per qualcuni dei tanti sceicchi miliardari che l’Arabia Saudita partorisce, una bombola d’ossigeno per Wall Street e per l’occupazione occidentale durata un decennio.

La Siria aveva nel 2010 un PIL di circa 60 miliardi di dollari, ha una produzione di petrolio di 522.700 b/g, a fronte di un consumo interno di 265.000 b/g, una buona presenza industriale. Lo sviluppo dell’economia è stato ostacolato dalla collocazione ‘non allineata’ della Siria rispetto alla questione irachena, che condiziona gli scambi con i paesi occidentali. L’incremento dei prezzi delle merci nei mercati globali hanno portato ad un brusco aumento del tasso di inflazione e della disoccupazione.

Dopo il disastro iracheno, la guerra infinita in Afganistan, il caos libico, la dittatura militare in Egitto,  la paralisi del Libano e della Giordania, quale altro pasticcio stanno per combinare Gran Bretagna e Stati Uniti, in territori e culture che – ormai è evidente – non riescono a comprendere e gestire fin dai tempi di Lawrence d’Arabia e delle fallimentari Anglo-Afghan Wars, dopo aver disarticolato il peso di Turchia, Due Sicile e Catalogna nel Mar Mediterraneo.

Un Mediterraneo sul quale si adombrano fosche nubi, non solo per l’instabilità nordafricana o per la questione israelo-palestinese, ma anche e soprattutto per l’interferenza saudita e la sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e per l’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Intanto, dalla Cina Popolare il ministro degli Esteri, Wang Yi, ricorda a Barack Obama di non potersi permettere di scatenare una guerra sulla base di accuse false, come accade con G. W. Bush, precisando che “tutte le parti dovrebbero gestire la questione delle armi chimiche con cautela, per evitare di interferire nello sforzo generale di risolvere la questione siriana attraverso la soluzione politica”.

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Perchè restare in Afganistan?

26 Ott

Un altro soldato italiano, Tiziano Chierotti, è morto in Afganistan, altri 3 sono feriti. Un pattugliamento a soli 20 km dalla base Lavaredo, nell’abitato del villaggio di Siav, dove li attendeva un’imboscata.

E non resta che chiedersi perchè l’abbiamo mandato lì.

Forse, perchè siamo stanchi di vedere l’eroina tra i nostri giovani, visto che, nel 2011, ‘le Nazioni Unite affermarono che la porzione di territorio afgano destinato alla coltivazione dell’oppio era incrementato del 7%, arrivando ad un’estensione complessiva di 1,310 chilometri quadrati, di cui la maggior parte nelle ‘meno sicure’ aree del sud e dell’est dell’Afganistan’. (fonte Reuters)

Secondo il Servizio Federale per il Controllo dei Narcotici russo, solo i talebani ricaverebbero 150 milioni di dollari l’anno dal traffico di droga. ‘Un’enorme massa di eroina prodotta in un territorio piccolo quanto New York City’, ha dichiarato Ivanov, lo ‘zar dell’antidroga’, mentre Barack Obama ha promesso – con troppa faciloneria – di lasciare agli afgani il controllo del paese entro la fine del 2014, mentre è ormai certo che una buona parte dei traffici avvengono sotto la copertura di militari del posto.

Dicevamo di Tiziano, caporal Chierotti, alpino di Arma di Taggia, in provincia di Imperia, morto per le viuzze di Siav, provincia di Farah, in Afganistan, in nome di una guerra che i talebani hanno dichiarato al mondo 30 e passa anni fa, prima migrando in Afganistan al seguito degli integralisti che Cina Popolare e Stati Uniti appoggiarono e poi occupandola definitivamente, dopo aver raso al suolo la capitale Kabul, nonostante si fosse arresa, al solo scopo di disarticolare l’organizzazione statale.

Una banda di milioni di razziatori tribali pachistani che da due generzioni ha messo gli occhi sul redditizio traffico di armi e oppio su cui si regge l’economia afgana.

Diversi anni fa, scrivevo controcorrente come fosse corretto denominare il ‘nemico’ come insorgenti o insorti, visto che le Nazioni Unite così li chiamava, limitando questa definizione al Wiziristan, dove vivono gruppi tribali non ostili, originariamente, alle ‘forze di pace’.

Oggi, credo che sia importante iniziare a chiarire chi siano gli insorgenti, ovvero le tribù che non si riconoscono col governo di Kabul, chi i talebani ‘fuori zona’ come a Siav, che è al di fuori della zona di infiltrazione storica dal Pakistan dei pastun/ talebani e chi i ‘narcos’ che stanno di casa a Siav, che come tante altre località di quella provincia è tra le tappe dei corrieri che dalle province confinati con l’Iran vanno e vengono con il Pakistan.

Ragioni troppo astratte per accettare la morte di uno dei nostri ragazzi, mentre troppi altri, a casa nostra, soccombono all’eroina?

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Napoli, l’immondizia e le best practices

24 Giu

L’aspetto più scandaloso del disastroso sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti a Napoli è l’aleatorietà e la superficialità con cui è stato, di volta in volta, affrontato il problema.

La questione di fondo, irrisolta, è data dalla densità sia demografica sia criminale della provincia di Napoli: l’affollamento abitativo impedisce la dislocazione “safe” dei centri di raccolta o stoccaggio e la ramificazione camorristica ostacola una attività molto delicata che può essere gestita solo se si rimane nella legalità.

A questo livello, è evidente che le responsabilità, le miopie e le ignavie ricadono solo ed esclusivamente sui diversi  Parlamenti e i Governi, che non hanno voluto e non vogliono tener conto delle peculiarità dell’area partenopea e che, a differenza di molti altri paesi, non sono mai riusciti ad attuare una strategia vincente contro le organizzazioni mafiose o quanto meno di contenimento al loro espandersi al di fuori della Calabria e Sicilia a partire dagli Anni ’70.

Vale anche la pena di prender nota che non c’è anima viva (tra redazioni, ministeri e sedi di partito) che ricordi come  il problema dei siti di raccolta o stoccaggio riguardi la Provincia di Napoli e non semplicemente il Sindaco di Napoli, come anche che lo smaltimento dei rifiuti sia responsabilità della Regione Campania, prima ancora che del Comune di Napoli.

Poi, ci sono Napoli, i napoletani ed i politici che Roma decide di mettergli in lizza.

Riguardo i napoletani, c’è un aspetto che molti ignorano e che delinea tutta la faccenda sotto un’altra luce: percorrono molti metri, anche centinaia per deporre il proprio sacchetto, visto che i siti dove collocare cassonetti sono pochi, in una città millenaria con un reticolo stradale ancora medioevale, se non latino. Siti dove, tra l’altro, spesso non c’è abbastanza spazio per disporre un numero sufficiente di cassonetti.

In tutte le altre città i cittadini protestano se non hanno i cassonetti a 50 metri, mentre a Napoli gli “sporchi e disordinati” partenopei accettano tranquillamente di adattarsi al contingente.

Detto questo, quali best practices possono risolvere la situazione?

Innanzitutto, va evitato in futuro che procedure e protocolli vadano in tilt, come a Napoli, dove le competenze, le responsabilità, le infrastrutture, le burocrazie e, temo, gli intralci sono ormai di tutti: Governo, Regione, Provincia e Comune. E’ anche un problema costituzionale e, forse, la Suprema Corte potrebbe essere proficuamente coinvolta, se solo una delle istituzioni coinvolte volesse.

I sindaci, entro budget prefissati o per motivi di emergenza, devono poter spedire (o vendere) l’immondizia altrove. In Padania, se i gestori dei loro termovalorizzatori vorranno far affari,  o in Europa, dove lo smaltimento è un business come altri ed opera in libero mercato. A contraltare, una giunta comunale che non riuscisse a garantire l’igiene minima nel proprio territorio andrebbe dimissionato e commissariato: il disasrtro Iervolino è un monito per tutti, a Napoli, come a Milano, Roma o Bari.

I siti di raccolta e di stoccaggio vanno posti sotto il controllo diretto dell’autorità pubblica, visti i danni ambientali ed alla salute che possono provocare o le infiltrazioni criminali che ogni tanto emergono, a Napoli come a Roma o Milano.

L’aspetto cruciale, emerso anche nella Parentopoli di Alemanno o in Padania con allarmante frequenza, è che lo smaltimento dei rifiuti genera un enorme business nel settore del  trasporto su gomma. Ogni singolo sacchetto può percorrere anche centinaia di chilometri prima di essere definitivamente smaltito, tra centri di raccolta, stoccaggio, smaltimento eccetera fino al “mitologico” termovalorizzatore. Una riforma del sistema è essenziale se si vuole consentire sia l’emersione e la legalizzazione di un sommerso al momento tutto da comprendere sia una pianificazione finanziaria e gestione credibile.

Alla fine di tutto, c’è Napoli ed i napoletani.

Parlando della città, senza differenziata, non c’è via d’uscita: l’umido deve essere raccolto con quotidianita e nei giusti orari, se si vuole evitare di strabordare dai cassonetti, gli imballi dovrebbero essere accumulati e raccolti in un giorno specifico. Riguardo la plastica, visto anche che parliamodi una città e di una cultura antiche oltre 2500 anni, dovrebbero esserci gli elementi (anche a livello di normativa europea, di Unesco e chi più e ha ne metta), per  regolamentarne l’immissione sul mercato come imballi ed articoli usa e getta.

Quanto ai partenopei, è inutile organizzare una raccolta dei rifiuti umidi senza tener conto delle abitudini alimentari e, soprattutto, degli orari: il sacchetto della sera, ad esempio, è pronto, spesso, a mezzanotte, non alle 19,30, e basta, come nei paesi freddi.

Ma soprattutto è impensabile che, attaccando un sindaco eletto con una forte maggioranza, l’Italia possa venir fuori da una brutta situazione che inizia a degenerare con “roghi”, “blocchi stradali” e “scorte armate”, come riportano un po’ tutti i media.

Purtroppo, nell’Italia del governo della Lega, viene quasi il sospetto che l’ipotesi di una “Napoli insorgente” appaia più come un’opportunità che una tragedia … e su questo De Magistris come Berlusconi dovrebbero davvero meditare.

Napoli, l’assedio

21 Giu

Ero a Napoli la sera che venne perla prima volta acclamato sindaco Bassolino.
La città era invasa dall’immondizia, non come oggi, ma abbastanza per parlare di assedio.
Erano da mesi in agitazione gli “spazzini”, come si chiamavano allora, vuoi per stipendi e diritti, vuoi per l’inconsistenza della gestione, vuoi per le infiltrazioni criminali di cui si lamentava già allora.

La mattina dopo, la città era uno specchio, incredibilmente, tra l’entusiasmo della gente e la diffidenza di pochi verso un tale prodigio.
I fatti dettero ragione ai pochi malfidati, ma non furono presi provvedimenti per evitare il disastro.

Il PD, allora PdS, continuò a candidare Bassolino, prima a sindaco e poi a governatore regionale.
I governi ed i parlamenti fecero leggi sullo smaltimento a base federale, ovvero provinciale, senza tener conto dell’esistenza di una delle aree più densamente abitate del mondo.
Bassolino non venne fermato, anzi fu “riconfermato” da Roma quale Commissario Straordinario, nonostante tutto quello che è scritto negli atti di processi che annunciatamente stanno andando in prescrizione.

Allorchè arrivati sul baratro del disastro ambientale e salutistico, arrivò Berlusconi con le leggi pseciali, l’esercito e le ricette da bar dello sport della Lega.
Risultati pressochè zero, nonostante sia prima che durante che dopo, nell’arco di un ventennio, si siano occupate della “problematica” ditte piemontesi, lombarde e venete. Tutte o quasi puntualmente finite in tribunale.

Oggi, la città ha finalmente un sindaco suo, mentre il disastro si ripresenta e mentre la calura estiva incalza.
Già due anni fa, ONU, Unione Europea ed Organizzazione Mondiale della Sanità incalzarono il governo Berlusconi (ed il suo ministro Maroni) ad intervenire in soccorso della popolazione.

Oggi, siamo punto e accapo, ma la colpa, ovviamente, è dei napoletani, come documenta questo video di una ruspetta che libera un  vistoso blocco stradale spacciato per “così raccolgono la monnezza a Napoli”.

Peccato che Bassolino e Iervolino fossero casertani, che le maggiori aziende chiamate a rispondere sia settentrionale e che è a Roma che operano ancora oggi i principali artefici di questo disastro.

Ovviamente, la colpa è dei napoletani … e del loro spirito di sopportazione.

FOTO serie 1 (da Repubblica)

FOTO serie 2 (da Repubblica)

FOTO serie 4 (da Repubblica)

Foto  serie 3 (da Republica)

Italia in guerra senza Bossi e Bersani?

26 Apr

Sì ad «azioni aeree mirate» italiane in Libia. Questa la brief note con cui il Governo ha annunciato l’entrata in guerra dell’Italia.

Una decisione, come conferma il ministro degli Esteri Franco Frattini, che che poteva attuata ben quindici giorni fa, visti i toni tenuti dal rappresentante del governo provvisorio Jalil, in visita a Roma.
“Voi vi siete fatti ingannare dalla retorica di Gheddafi, ma noi che siamo i libici di Bengasi, i libici che dovrebbero odiare di più gli italiani, riconosciamo che voi non ci avete solo colonizzato: avete costruito il nostro Paese. E’ per questo ha continuato – che abbiamo bisogno di voi, proprio di voi, adesso: aiutateci.”
Un accorato appello, al quale Silvio Berlusconi aveva pubblicamente risposto, pochi giorni dopo, che “considerata la nostra posizione geografica ed il nostro passato coloniale, non sarebbe comprensibile un maggior impegno militare.”

Una mossa, imposta da Obama a nome evidentemente del Consiglio NATO, che potrebbe, almeno, riqualificare l’immagine italiana dall’imbarazzante amicizia di Gheddafi con Berlusconi, il quale, per l’appunto, si dichiara imbarazzato.

Una ripresa “obbligata” della politica italiana nel Mediterraneo, dopo 150 anni di stasi, che  riporterebbe le regioni ed i porti del Sud agli antichi fasti, con prevedibili ricadute (negative?) per le regioni padane e quelle “rosse”.

Infatti, se Calderoli annuncia un “Non con il mio voto”, aprendo un’ulteriore frattura nel governo, dalla riva opposta arriva un durissimo il comunicato di Emergency.
“Il governo italiano continua a delinquere contro la Costituzione e sceglie la data del 25 aprile per precipitare il Paese in una nuova spirale di violenza. Le bombe non sono uno strumento per proteggere i civili: infatti non sono servite a proteggere la popolazione di Misurata. La città di Misurata, assediata e bombardata da oltre due mesi, nelle ultime 24 ore ha vissuto sotto pesantissimi attacchi che hanno raso al suolo quartieri densamente popolati, anche per l’impiego di missili balistici a medio raggio”.
Intanto, il ministro della Difesa Ignazio La Russa precisa che  “non si tratterà di bombardamenti indiscriminati ma di missioni con missili di precisione su obiettivi specifici” per “evitare ogni rischio di colpire la popolazione civile”.
E Frattini conferma: «Bombarderemo obiettivi mirati, per esempio batterie anticarro, carrarmati, depositi di munizioni. Obiettivi pianificati dalla Nato, che ce li indicherà di volta in volta».

Quanto al popolo padano, Berlusconi rassicura (secondo lui) che “non occorre un nuovo voto del Parlamento, dunque non ci sarà nessuna spaccatura tra noi e la Lega come spera l’opposizione”.

L’opposizione?  Tace, imbarazzatamente tace, trincerandosi dietro “i limiti posti dalla risoluzione Onu”, come se non ci siano un popolo insorto, un dittatore efferato e tremila anni di storia comune.

Intanto, a Misurata l’assedio, la fame, la sete, le morti innocenti continuano.

Tutto sui ribelli libici

12 Apr

Il Consiglio nazionale ad interim di transizione è la guida politica della Coalizione della Rivoluzione del 17 febbraio, nata in seguito alle sommosse popolari in Libia contro il regime di Gheddafi.
Il manifesto politico del Consiglio, “Visione per una Libia democratica”, chiede una nuova costituzione, libertà di associazione, di opinione e di stampa, pluralismo e tutela delle minoranze; libere elezioni e separazione dei poteri, superamento delle discriminazioni di genere, colore, razza o posizione sociale, nuove relazioni lotta al terrorismo.

Nulla di inquitante, tutto sacrosanto e legittimo, ma il Consiglio Nazionale Libico è stato riconosciuto solo da Italia e Francia.  Eppure, è composto da 31 membri, governa le regioni liberate dalla Rivoluzione, si è riunito la prima volta a Beida il 24 febbraio 2011, i leader noti sono Mustafa Abdul Jelil (ex ministro della difesa ed attuale Segretatio Generale), Abdul Hafiz Ghoga (ex ministro degli esteri ed attuale Vicesegretario generale e portavoce), Omar el-Hariri, Alì Tarhuni,  Alì el-Essaui.

Con loro ci sono Fathi Mohammed Baja e Abdul Ilah Moussa al-Meyhoub (noti intellettuali democratici), Fathi Tirbil Salwa e Salwa al-Dighaili (attivisti dei diritti civili),

Il primo dei (presunti) problemi è che Mustafa Abdul Jelil  e Abdul Fatah Younis (ex ministro degli interni), pur essendo dei “traditori del regime”, appartengono al gruppo tribale di Omar Mokhtar El-Hariri, eroe della rivoluzione antimonarchica di Gheddafi e poi, nel 1975, leader del primo tentativo di rovesciamento del Raiss. Attualmente è il leader militare della “nuova” Libia, dopo 15 anni di carcere duro, dal 1975 al 1990, e 20 di arresti domiciliari: una sorta di Nelson Mandela della Cirenaica.

Certo, non sono l’ideale per le “big companies” che già  erano alla “Fase 4″ ed avevano acquistato il petrolio del 2030.

Di tutt’altra pasta sembra essere il colonnello Khalifa Haftàr (o Hifter), indicato da McClatchy Newspapers come “leader dell’opposizione”, che il  Washington Post del 26 marzo del 1996 indicava come “leader di un Lybian National Army” con base in USA e che, durante gli ultimi 20 anni, avrebbe vissuto in un sobborgo di Norfolk in Virginia, dopo essere stato catturato in Ciad ed aver disertato nel National Front for the Salvation of Libya.

Un’organizzazione, il NFSL, che nel 1984 fallì il tentativo di uccidere Gheddafi e guidata oggi da Ibrahim Abdulaziz Sahad, fortemente “voluta” dai sauditi e dagli statunitensi, come afferma il “libro bianco” Manipulations africaines, pubblicato da Le Monde diplomatique nel 2001, che indica il NFSL come “sostenuto dalla CIA”. Nonostante sia indicata come la principale organizzazione politica, poco si sa del National Conference for the Libyan Opposition, “braccio politico” del NFSL composto da esuli libici in Inghilterra e USA, e non sembra essere questo il circuito di riferimento per Mahmud Jibril, oggi a capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale.

Un battitore libero, economista, esperto in governance strategica, con un master in scienze politiche presso l’Università di Pittsburg. Mahmoud Jibril è l’uomo che ha ottenuto il riconoscimento diplomatico dei francesi e degli italiani, dopo essere stato un esperto della Monitor Group inc, (la “think tank enteprise” della Harward University di Cambridge, nel Massachussets), è rientrato in Libia nel 2007, con lo “sdoganamento” internazionale di Gheddafi, che lo pose a capo del National Economic Board che promuoveva rapporti con aziende globali.

Il timore principale degli osservatori è nell’incognita “del dopo”, in un paese dove un terzo della popolazione libica è affiliata o affine alla confraternita dei Senussi, che ebbero la corona libica nel 1951 con Idrīs I, che hanno sempre avuto un atteggiamento strumentalmente filo-britannico (come i “cugini” wahabiti d’Arabia) e  che furono fieri antagonisti della colonizzazione italiana. Non a caso Omar Mukhtar, il capo ribelle impiccato nel 1931 dagli Italiani, era uno di loro, come lo era Sharif El Gariani, anziano cofondatore della confraternita (Al Bayda 1844) e principale intermediario proprio con gli italiani.  Ahmed al-Zubair Ahmed al-Sanusi è l’ultimo leader senussi in vita nel territorio libico, ma, rilasciato nel 2001, è fisicamente distrutto da 31 anni di carcere duro ed isolamento.

La Sanusiya è una “tariqa” (ndr. confraternita) fondata agli inizi dell’800 dallo sharif Muḥammad ibn ʿAlī detto al-Sanūsī, appartenente alla tribù dei Awlād Sīdī ʿAbd Allāh, discendenti di Fāṭima figlia di Maometto, e propone un culto influenzato dalla visione spirituale salafita, che alimenta Al Quaeda in Magreb. In realtà, si tratterebbe di un movimento sostanzialmente  moderato: niente fanatismo, niente obbedienza cieca alle madrasse ed agli ulema, bensì “ijtihād”, ovvero ricerca e determinazione personale.

Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti,  si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha  il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.

Chi non è mio nemico, è mio amico? Forse.

Resta solo il dato, piuttosto allarmante, dimostrato da  uno studio del 2007, pubblicato dall’Accademia Militare di West Point, che evidenzia l’elevato numero di jihadisti in Irak provenienti dalla Cirenaica (Bengasi e Derna), reclutati dai militanti del Libyan Islamic Fighting Group, fondato nel 1985 da reduci della resistenza afgana, attualmente diretto da Anas Sebai.

Nel 2003 si stimava che i membri attivi fossero del LIFG fossero un centinaio con 2-3mila simpatizzanti, nel 2005 l’organizzazione divenne formalmente parte di “Al Quaeda in Maghreb” ed oggi i suoi sostenitori potrebbero essere diventati di più, grazie all’infiltrazione jihadista nella comunità dei Senussi fortemente radicata a Derna, Bengasi e Rimal ed alla disponibilità di armi saccheggiate.

E’ questo il dato che allarma gli analisti e che ispira prudenza nel supportare gli insorti.

E’ anche vero che, animate dall’originario “spirito beduino” o meno,  qualche centinaio di teste calde dovranno pur sempre esserci, sotto il sole del Sahara  come del Nevada, e, soprattutto, che una rivoluzione non è affatto un pranzo di gala.

leggi anche Libia, petrolio e guerra,

“La guerra ingiusta”

e “Massacri libici, affari italiani”

Libia, chi sono gli insorti

11 Apr

Il Consiglio nazionale ad interim di transizione è la guida politica della Coalizione della Rivoluzione del 17 febbraio, nata in seguito alle sommosse popolari in Libia contro il regime di Gheddafi.
Il manifesto politico del Consiglio, “Visione per una Libia democratica”, chiede una nuova costituzione, libertà di associazione, di opinione e di stampa, pluralismo e tutela delle minoranze; libere elezioni e separazione dei poteri, superamento delle discriminazioni di genere, colore, razza o posizione sociale, nuove relazioni lotta al terrorismo.

Nulla di inquitante, tutto sacrosanto e legittimo, ma il Consiglio Nazionale Libico è stato riconosciuto solo da Italia e Francia.  Eppure, è composto da 31 membri, governa le regioni liberate dalla Rivoluzione, si è riunito la prima volta a Beida il 24 febbraio 2011, i leader noti sono Mustafa Abdul Jelil (ex ministro della difesa ed attuale Segretatio Generale), Abdul Hafiz Ghoga (ex ministro degli esteri ed attuale Vicesegretario generale e portavoce), Omar el-Hariri, Alì Tarhuni,  Alì el-Essaui.

Con loro ci sono Fathi Mohammed Baja e Abdul Ilah Moussa al-Meyhoub (noti intellettuali democratici), Fathi Tirbil Salwa e Salwa al-Dighaili (attivisti dei diritti civili),

Il primo dei (presunti) problemi è che Mustafa Abdul Jelil  e Abdul Fatah Younis (ex ministro degli interni), pur essendo dei “traditori del regime”, appartengono al gruppo tribale di Omar Mokhtar El-Hariri, eroe della rivoluzione antimonarchica di Gheddafi e poi, nel 1975, leader del primo tentativo di rovesciamento del Raiss. Attualmente è il leader militare della “nuova” Libia, dopo 15 anni di carcere duro, dal 1975 al 1990, e 20 di arresti domiciliari: una sorte di Nelson Mandela della Tripolitania.

Certo, non sono l’ideale per le “big companies” che già  erano alla “Fase 4” ed avevano acquistato il petrolio del 2030.

Di tutt’altra pasta sembra essere il colonnello Khalifa Haftàr (o Hifter), indicato da McClatchy Newspapers come “leader dell’opposizione”, che il  Washington Post del 26 marzo del 1996 indicava come “leader di un Lybian National Army” con base in USA e che, durante gli ultimi 20 anni, avrebbe vissuto in un sobborgo di Norfolk in Virginia, dopo essere stato catturato in Ciad ed aver disertato nel National Front for the Salvation of Libya, di base in Ciad.

Un’organizzazione, il NFSL, che nel 1984 fallì il tentativo di uccidere Gheddafi e guidata oggi da Ibrahim Abdulaziz Sahad, fortemente “voluta” dai sauditi e dagli statunitensi, come afferma il “libro bianco” Manipulations africaines, pubblicato da Le Monde diplomatique nel 2001, che indica il NFSL come “sostenuto dalla CIA”. Nonostante sia indicata come la principale organizzazione politica, poco si sa del National Conference for the Libyan Opposition, “braccio politico” del NFSL composto da esuli libici in Inghilterra e USA, e non sembra essere questo il circuito di riferimento per Mahmud Jibril, oggi a capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale.

Un battitore libero, economista, esperto in governance strategica, con un master in scienze politiche presso l’Università di Pittsburg. Mahmoud Jibril è l’uomo che ha ottenuto il riconoscimento diplomatico dei francesi e degli italiani, dopo essere stato un esperto della Monitor Group inc, (la “think tank enteprise della Harward University di Cambridge, nel Massachussets), rientrato in Libia nel 2007, con lo “sdoganamento” internazionale di Gheddafi, che lo pose a capo del National Economic Board che promuoveva rapporti con aziende globali.

Il timore principale degli osservatori è nell’incognita “del dopo”, in un paese dove un terzo della popolazione libica è affiliata o affine alla confraternita dei Senussi, che ebbero la corona libica nel 1951 con Idrīs I, che hano sempre avuto un atteggiamento strumentalmente filo-britannico (come i “cugini” wahabiti d’Arabia) e  che furono fieri antagonisti della colonizzazione italiana. Non a caso Omar Mukhtar, il capo ribelle impiccato nel 1931 dagli Italiani, era uno di loro, come lo era Sharif El Gariani, anziano cofondatore della confraternita (Al Bayda 1844) e principale intermediario proprio con gli italiani.  Ahmed al-Zubair Ahmed al-Sanusi è l’ultimo leader senussi in vita nel territorio libico, ma, rilasciato nel 2001, è fisicamente distrutto da 31 anni di carcere duro ed isolamento.

La Sanusiya è una “tariqa” (ndr. confraternita) fondata agli inizi dell’800 dallo sharif Muḥammad ibn ʿAlī detto al-Sanūsī, appartenente alla tribù dei Awlād Sīdī ʿAbd Allāh, discendenti di Fāṭima, figlia di Maometto, propone un culto influenzato dalla visione spirituale salafita, che alimenta Al Quaeda in Magreb. In realtà, si tratterebbe di un movimento sostanzialmente  moderato: niente fanatismo, niente obbedienza cieca alle madrasse ed agli ulema, bensì “ijtihād”, ricerca e determinazione personale.
Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti,  si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha  il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.

Chi non è mio nemico, è mio amico? Forse.

Resta solo il dato, piuttosto allarmante, che uno studio del 2007, pubblicato dall’Accademia Militare di West Point, dimostri l’elevato numero di jihadisti in Irak provenienti dalla Cirenaica (Bengasi e Derna), reclutati dai militanti del Libyan Islamic Fighting Group, fondato nel 1985 da reduci della resistenza afgana, attualmente diretto da Anas Sebai.

Nel 2003 si stimava che i membri attivi fossero del LIFG fossero un centinaio con 2-3mila simpatizzanti, nel 2005 l’organizzazione divenne formalmente parte di “Al Quaeda in Maghreb” ed oggi i suoi sostenitori potrebbero essere diventati di più, grazie all’infiltrazione jihadista nella comunità dei Senussi fortemente radicata a Derna, Bengasi e Rimal ed alla disponibilità di armi saccheggiate.

E’ questo il dato che allarma gli analisti e che ispira prudenza nel supportare gli insorti.

E’ anche vero però, che, animate dall’originario “spirito beduino” o meno,  qualche centinaio di teste calde dovranno pur sempre esserci, sotto il sole del Sahara  o del Nevada, e, soprattutto, che una rivoluzione non è affatto un pranzo di gala.

leggi anche Libia, petrolio e guerra,

“La guerra ingiusta”

e “Massacri libici, affari italiani”