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Plastica monouso al bando? Quasi …

19 Gen

Da oggi in Italia mette al bando la plastica monouso e i molti prodotti progettati per essere utilizzati una sola volta.

E’ vietata non solo la produzione ma anche la vendita di piatti e posate in plastica, cannucce, cotton fioc, aste a sostegno dei palloncini, contenitori per alimenti e per bevande in polistirene espanso.


Esercenti e produttori potranno continuare a vendere le scorte presenti in magazzino fino al loro esaurimento. Sono previste delle agevolazioni per le aziende che utilizzavano plastica monouso, con un credito di imposta, nel limite massimo complessivo di 3 milioni di euro per gli anni 2022, 2023 e 2024. Stabilito infine l’avvio di campagne di sensibilizzazione. 

Saranno vietati anche i prodotti in plastica che si riduce in micro frammenti (oxo-degradabile), ma non le bottiglie in plastica PET, per le quali non solo l’Italia, ma la normativa europea è molto tollerante e concede dilazioni: entro il 2026 le bottiglie di plastica dovranno contenere almeno il 25% di Pet riciclato e il 77% dovrà essere raccolto e riciclato.

Ogni anno 570mila tonnellate di plastica finiscono nelle acque del Mediterraneo: come se 33.800 bottigliette di plastica venissero gettate in mare ogni minuto. (fonte WWF)
E solo in Italia più del 60% delle bottiglie immesse sul mercato ogni anno non viene riciclato. (fonte Greenpeace)

L’inquinamento causato dalla plastica consiste nella dispersione e nell’accumulo di materie plastiche nell’ambiente, il che causa problemi all’habitat di fauna e flora selvatica, oltre che a quello umano. Tale tipo di inquinamento può interessare l’aria, il suolo, i fiumi, i laghi e gli oceani.

Un recente studio del Biodesign Center for Environmental Health Engineering dell’Arizona State University (ASU) ha confermato che “frammenti microscopici di plastica si sono stabiliti in tutti i principali organi di filtraggio del nostro corpo”: iI ricercatori hanno trovato prove di contaminazione da plastica in campioni di tessuto prelevati da polmoni, fegato, milza e reni di cadaveri umani donati.
“Abbiamo rilevato queste sostanze chimiche della plastica in ogni singolo organo su cui abbiamo studiato“, ha affermato il ricercatore senior Rolf Halden, direttore del centro accademico. Da tempo si teme che le sostanze chimiche nella plastica possano avere una vasta gamma di effetti sulla salute che vanno dal diabete e obesità alla disfunzione sessuale e all’infertilità.

Demata

Tav: quali costi e benefici per l’Italia se poi resta al trasporto su gomma?

3 Feb

Tra Francia e Italia transitano oltre 42 milioni di tonnellate di merci che rappresentano quasi la metà di quanto si muove da e verso l’Europa.

Italy Exports to France

Questa linfa vitale per l’Italia ha diversi modi per valicare le Alpi Occidentali e raggiungere Francia, Portogallo, Spagna, Benelux e Gran Bretagna:

  1. l’Autostrada Traforo del Monte Bianco che dichiara come “i mezzi pesanti rappresentano una media giornaliera di oltre 2.430 veicoli sull’Autoroute Blanche (A40), ossia il 9% del suo traffico, pari a circa un milione di Tir all’anno e poco meno di 15 milioni di tonnellate di merci, che rappresentano una quota notevole dei traffici verso la Francia, il Benelux e la Gran Bretagna
  2. la “direttrice costiera” di Ventimiglia da cui – (dati Certet Bocconi ) – transita il 49,4% del traffico, cioè circa 1,5 milioni di Tir e oltre 20 tonnellate di merci in transito, con una crescita esponenziale negli ultimi anni
  3. il passante del Moncenisio-Fejius , dove (rapporto Alpinfo 2010) transitano solo 3 milioni di tonnellate di merci, a causa delle pendenze proibitive e della ristrettezza del tunnel, che dal 2020 sarà fuorilegge, perchè scadrà la deroga per le uscite di sicurezza e la ventilazione che ancora oggi mancano
  4. la restante parte (circa 3 milioni di tonnellate) transita attraverso la Svizzera o viaggia per mare e aereo.

Insomma, tra Italia e Francia non c’è una linea ferroviaria per le merci efficiente e ci sono oltre 42 milioni di tonnellate da spostare: qualsiasi popolo di buon senso non avrebbe dubbi: o si carica tutto su nave oppure servono binari (e tunnel) nuovi.

France Exports to Italy

Però, in termini di costi e benefici, c’è che in Italia sono immatricolati oltre quattro milioni di autocarri per trasporto merci, cioè ci sono degli interessi che cozzano con l’idea di collegare decentemente Francia e Italia: la Tav Torino-Lione rappresenterebbe la fine di un esercito di autisti, benzinai, ristoratori, riparatori, venditori eccetera.
Ad esempio in Val d’Aosta se nell’intera provincia di Genova con oltre 850.000 abitanti sono immatricolati meno di 40.000 autocarri, mentre nella provincia autonoma valdostana ci sono 46.926 autocarri (dati Anfia 2017) per circa 120.000 abitanti, … che equivale a dire un autocarro ogni tre valdostani, praticamente tutti esclusi bambini e anziani …

Dunque, quando si vanno a valutare i costi e i benefici della realizzazione della Tav Torino-Lione, c’è da tener conto che ne verrebbero centinaia di migliaia di disoccupati, per i quali – a dire il vero – l’Italia già oggi spende fior di bilanci se il trasporto su gomma è ormai obsoleto, visto che “la sopravvivenza delle imprese del settore oggi è affidata al sostegno dello stato tramite agevolazioni fiscali o il rimborso delle accise” , come dichiarava il il presidente di Fita CNA Modena, in occasione dello sciopero dei ‘padroncini’ nel 2015 per le deduzioni fiscali.

In totale, in Italia sono registrati oltre 4 milioni di autocarri per circa 60 milioni di abitanti: la media è di uno ogni 15 persone, cioè il 6,7% rispetto ai residenti totali.
Comuni-italiani.it pubblica una tabella dei Comuni superiori ai 5000 abitanti con maggior numero di auto per mille abitanti (anno 2016).
Nell’elenco sono indicati solo dieci comuni, ma già così scopriamo che a Scandicci gli autocarri per trasporto merci sono uno ogni cinque residenti a San Michele Salentino (22,3%) e Bolzano (26,5%), crescono ad uno ogni sette persone a Sala Consilina (14,6%) e Santa Venerina (14,7%), un po’ di più a Tavagnacco (9,3%) e Sannicandro di Bari (10,3%), nella norma Qualiano di Napoli 7,6%, ma arriviamo ad un autocarro ogni 3 persone a Trento (31,3%), mentre a Bolzano ci sono ben 8 camion ogni dieci residenti (77,9%) e ad Aosta capoluogo si va anche oltre (84,5%).

Aggiungiamo tutto l’indotto di rifornitori, ristoratori e riparatori e siamo arrivati ad una bella fetta dell’elettorato, distribuita a macchia di leopardo nel Paese ed in grado di paralizzarlo, certamente molto preoccupata dai propri interessi localistici piuttosto che da quelli collettivi, a partire dal caos, dal rumore e dall’inquinamento che ci arriva dal trasporto su gomma, di cui tanta italia si lamenta da decenni inutilmente.

Il vero timore non è la Tav in se, quanto la fine del trasporto su gomma all’italiana, che da decenni regge a fatica costi e carichi che solo il trasporto marittimo e ferroviario possono sostenere, come da decenni complica un assetto idrogeologico che andrebbe meglio tutelato.

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Il vero problema dei costi e dei benefici è che anche in questo caso l’innovazione non conviene a molti italiani: come per le mille comodità delle App e dell’Ecommerce che decine di milioni di italiani si rifiutano di usare l’economicità e l’efficienza del trasporto ferro-marittimo preoccupano i tanti altri che – avendo una bassa formazione – finora non hanno potuto altro che ‘riqualificarsi’ come artigiani, padroncini e piccoli imprenditori.

Dunque, decidere riguardo la Tav è semplice e dipende solo da quale Italia vogliamo: in Europa e con una tratta ferroviaria pensata al Futuro verso Spagna, Francia, Belgio, Olanda e fino alla Gran Bretagna?
Oppure, pensiamo già a breve di ridurre il nostro PIL che tanto non c’è modo di esportare abbastanza merci in un modo rapido e conveniente?

E gli artigiani, padroncini e piccoli imprenditori?
Se con un trasporto merci efficiente la produzione interna e il commercio estero ripartono, anche l’occupazione ne risentirà positivamente.

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Prendiamo atto che l’Italia esporta in Francia merci per un valore di 51,82 miliardi di dollari, mentre ne importa per un valore di 39,74 miliardi USD (dati ComTrade – 2017). Dunque, è all’Italia che conviene migliorare le rotte commerciali ed è l’Italia che verrebbe maggiormente danneggiata da una crisi tra le due nazioni.

Il problema è politico: avere un progetto infrastrutturale ventennale e avviare un piano di formazione-lavoro ad hoc.
Non sembra ci siano altri modi per avviare riforme ed innovazioni.

Demata

Diritto alla salute: l’Italia deregola l’inquinamento?

10 Lug

Non tutti si sono accorti che il Governo Letta ha inserito nel “Decreto del Fare” una modifica del Testo Unico sull’Ambiente D.lgs. 152/2006, che prevede come, “nei casi in cui le acque di falda determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile, devono essere adottate misure di attenuazione della diffusione della contaminazione”.

Eliminazione della fonte di contaminazione, solo “ove possibile ed economicamente sostenibile”? Solo misure di “attenuazione della diffusione della contaminazione”? E se l’attenuazione non bastasse, come sembrano necessitare alcune località campane, cosa si fa? Si procede allo sgombero dei residenti che siano in “una situazione di rischio sanitario”, come a tal punto di dovere?

Una testo normativo, dunque, che afferma la prevalenza degli interessi economici sul diritto alla salute, garantito dalla Costituzione e tutelato dalle istituzioni, e ad un ambiente salubre, in contrasto con diversi principi affermati dall’Unione europea in sede di propria normativa. Vale la pena di sottolineare che persino in Danimarca accade, ormai, che la classe politica sia accusata di inerzia ed inettitudine verso i sempre maggiori problemi ambientali e le ricadute sulla salute delle persone (Rapporto Sundhed).

Il punto è che in Italia la situazione per la salute pubblica in diversi territori è particolarmente critica, come denunciato dalle autorità sanitarie e come accluso ad atti processuali, al Nord come al Sud.

Una situazione che Donato Greco, epidemiologo e consulente dell’Istituto Superiore della Sanità, – pur contrario ad allarmismi a proposito del Rapporto Balduzzi sulla situazione epidemiologica in Campania – non esita a definire “ciclo degenerato”, parlando non di ‘meridionali incivili’ bensì di “responsabilità politiche del passato”.
Infatti, nella sola Campania – secondo il rapporto Ecomafia 2010 di Legambiente – sono oltre 5.200 i siti potenzialmente inquinati, soltanto 13 siti hanno ottenuto la certificazione di avvenuta bonifica e si stima che nell’intera fascia di territorio fra Napoli e Caserta solo il 15% dei siti sia stato liberato dai rifiuti e dai loro resti. Secondo  l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania (ARPAC) sono almeno 461 quelli con un alto livello di inquinamento.

L’Unità del 10 dicembre 2012 raccontava come gli “scarti industriali tossici dell’Acna di Cengio finivano nelle discariche del napoletano e nella falda acquifera, inquinando acque usate per irrigare e per bere, grazie a un’azienda, la Ecologia 89, costituita appositamente dallo storico boss dei «Gomorra» Francesco Bidognetti e da altre persone contigue al clan dei Casalesi di Casal di Principe.”
Lo Studio SENTIERI dell’Istituto Superiore di Sanità ha dimostrato l’enorme impatto sanitario con migliaia di morti in più rispetto al campione di controllo nei 37 siti monitorati, per patologie causate dalle sostanze e dai materiali sversati dai clan camorristici per due decenni, con un via vai lungo la penisola di rifiuti pericolosissimi, senza colpo ferire.
Una situazione che ha avuto origine da una legge sui danni ambientali che consente la prescrizione a cinque anni ed, evidentemente, anche da criteri nazionali di controllo  inefficaci, vista l’assenza di indicatori che evidenziassero, fin da principio, la facilità ed i bassi costi con cui tante aziende del settentrione smaltivano di tutto di più in Campania.

Siti inquinati in Campania

Storia passata, ormai archiviata dai Palazzi di giustizia, spesso prescritta, ma in alcune località della Campania la situazione è gravissima, con allarme internazionale per la salute delle persone, e, passando al resto delle regioni meridionali, basta un click su Google per trovare decine di link alle news locali, che raccontano di tanti e troppi smaltimenti ‘fai da te’, come accaduto per i comuni della ‘valle del fiume Oliva’, di Cadelbosco, Gualtieri e Amantea, Bagnolo, Rende e  Rapino, Melfi e Novellara, eccetera.

Una norma, quella introdotta nel “Decreto del Fare”, particolarmente scandalosa, perchè in Campania – visto il tasso di malati di tumore e di altre patologie causate dall’inquinamento – dovrebbe essere lo Stato ad intervenire, perchè non ha adeguatamente vigilato a suo tempo, perchè, oggi, una parte dei luoghi inquinati sono sotto sequestro e, soprattutto, perchè i Comuni preposti non hanno risorse e territorio per intervenire per portare a conclusione un’emergenza in cui, ricordiamolo, è nata e cresciuta ormai un’intera generazione di bambini e di giovani aldulti.

Infatti, è accaduto che un enorme massa di rifiuti ‘classified’ si spostasse per anni e anni ‘dal Nord passando da Roma per arrivare in una delimitata area della Campania’, nonostante il «97 per cento del territorio della provincia di Napoli sotto vincolo», come scriveva, nel 2011, il presidente della Provincia di Napoli, Luigi Cesaro, a Gianni Letta, chiedendo poteri speciali per l’ennesima emergenza rifiuti.
Come è lo Stato che dovrebbe tutelare cittadini, famiglie, bambini, rimuovendo gli agenti inquinanti che sono collocati in aree sotto sequestro amministrativo.

Un inquinamento del sottosuolo, in alcune zone della Campania, che raggiungerà  il suo culmine nel 2064 quando le oltre 65.000 tonnellate di percolato contamineranno irrimediabilmente le falde acquifere sottostanti uno dei territori più fertili del Mondo, dove vivono circa due milioni di persone.

Un diritto alla salute che si prospetta salatissimo per le casse dello Stato se la missione della Protezione civile incaricata di chiudere la contabilità di 17 anni di emergenza si è vista presentare, due anni fa, un conto da 3,5 miliardi di auro da quasi un migliaio di creditori, tra cui in prima fila Fibe e Fisia, le imprese del gruppo Impregilo che pretendono 2 miliardi e 400mila euro, dei quali 1,5 solo per il danno d’immagine.

E’, dunque, difficile comprendere come possa uno Stato di diritto, incardinato nell’Unione Europea, legiferare di provvedere “all’eliminazione della fonte di contaminazione (solo) ove possibile ed economicamente sostenibile” e di poter adottare “misure di (sola) attenuazione della diffusione della contaminazione” in Terra di Lavoro.

Difficile da comprendere, ma non impossibile se, poi, l’Italia è anche il paese del ‘trasporto su gomma’, in cui non ha avuto nessun riflesso nè che l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) aveva proposto pedaggi stradali per i veicoli pesanti “inclusivi” dei costi/gli effetti sulla salute causati dall’inquinamento nè, soprattutto, che, dal 2011, la direttiva Eurovignette prescrive agli Stati membri dell’Ue di integrare i costi sanitari da smog per gli oneri darivanti dal traffico ‘industriale’ sulle strade di grandi dimensioni e sulle autostrade.
Secondo l’Aea, l’inquinamento atmosferico causa 3 milioni di giornate di malattia e 350 mila morti premature in Europa e, secondo gli autori del rapporto, il ‘danno’ economico in termini di salute e impatto ambientale, derivante dai soli autocarri in Europa, è quasi il 50% del totale derivante dall’inquinamento dell’aria di tutti i veicoli, imbarcazioni e velivoli. tutti i trasporti, nell’ordine dei 45 miliardi di euro annui.
I residenti di tante città letteralmente attaversate o abbarbicate da/ad autostrade sono avvisati, come lo sono gli amministratori delle loro Regioni e dei loro sistemi sanitari.

Un diritto alla salute costituzionalmente garantito, che se – in barba a qualunque elementare diritto derivante dalla cittadinanza o anche dalla mera sudditanza – non venisse tutelato, almeno nel caso campano, diventerebbe l’ennesima conferma delle tesi che, nel 1861, si trattò di annessione coloniale, specialmente dopo che i dati ‘storici’ ci raccontano come il Meridione venne deindustrializzato, agli inizi degli anni ’90, proprio mentre aveva superato il livello di produzione del Settentrione ed aveva, evidentemente, un potenziale che, oggi, farebbe comodo all’Italia tutta.
Non una pulizia etnica come quella messa in atto dagli Yankee a danno degli Indiani, diffondendo coperte infettate di vaiolo, ma la questione degli scarti industriali del Settentrione – ILVA di Taranto inclusa – porterà lacrime e lutto per troppo tempo per poter essere abbandonata al corso degli eventi.

Una questione non del tutto desueta,  se nel circuito europeo delle autonomie locali rimbalza la rivendicazione dei Meridionalisti Democratici, che ricordano ai “parlamentari eletti nel Sud” come la norma in questione “intacchi ulteriormente la salute dei loro elettori, mentre tutela le imprese del Nord che sono responsabili, secondo recenti rivelazioni di magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine, dello sversamento di rifiuti tossici che hanno causato l’inquinamento territoriale delle falde acquifere di ampie zone della Campania, Puglie e Calabria”.

Una questione – quella dell’inquinamento e della salute pubblica – in cui campani e meridionali sono accomunati ai settentrionali ed ai romani, visto che quella che crolla oggi è anche l’economia ‘drogata’ dai bassi costi di smaltimento, dalla troppa facilità operativa e dai rapporti con le Ecomafie, ma anche un sistema dei trasporti su gomma che funge da volano occupazionale e che produce ‘qualcosa’ che non solo viene respirato, ma finisce anche nei materiali che ci circondano, nelle falde acquifere e sulla nostra tavola.

A proposito, nella spesa pubblica degli stati europei, oltre a spendere meno di noi in generale, riescono anche a metterci le risorse per evitare, controllare e sanare i rischi per la salute dei cittadini derivanti dall’inquinamento dell’ambiente …

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Apple, ma quanto ci costa?

11 Dic

Mentre la Francia e l’Italia si affannano nel tentativo di imporre tasse e tributi a Google e Amazon, dagli USA arriva uno studio di Reuters che punta l’indice verso la Apple, produttrice dei costosissimi Ipod e Ipad.

Infatti, sono molti anni che il reddito degli americani ( edegli europei) è risucchiato da spese spesso poco sostenibili e non particolarmente necessarie per computer, tablet e telefonini. Una spesa che incide notevolmente sulla disponibilità di reddito per altre esigenze o consumi.

Secondo Reuters, la spesa media della famiglia statunitense per prodotti Apple nel 2011 è stata di 444 dollari e prevede che, se Apple introdurrà la nuova HDTV,  entro il 2015, la spesa familiare che finisce nelle casse dell’azienda di Cupertino potrebbe superare gli 850 dollari all’anno.
Una sorta di rata fissa, se consideriamo che, la vita media di questi apparecchi è di 3-4 anni, che il ricambio avviene ogni circa due, che con l’iPad e l’iPhone si scaricano brani musicali a pagamento da iTunes.

Secondo un sondaggio dell’italiano Ipsos un quarto degli intervistati è pronto a tagliare altre spese pur di potersi permettere un Ipad.

La problematica si aggrava se consideriamo che Apple si contende il mercato globale di smartphone, tablet e pc con la Samsung, che la supera nelle vendite (66,1 milioni di “smart device” venduti nel terzo trimestre del 2012 contro ‘soli’ 45,8 milioni di apparecchi venduti da Apple). Infatti, il prezzo medio di vendita di Apple per i suoi prodotti è di 310 dollari superiore a quello di Samsung.

Cosa offra Apple più di Samsung, Nokia e altri non è chiaro, dato che l’appeal dell’Ipod ed Ipad è dato da categorie merceologiche piuttosto effimere come ‘creativo’ o ‘nuovo’. Inoltre, nella sostanza, la marcia in più dei due device è la quantità di software messo a disposizione, che spesso trova equivalenti nei sistemi Android e Windows utilizzati dai concorrenti, con la sola differenza che vanno cercati on line e scaricati. Anche nella durevolezza, gli apparecchi della casa di Cupertino non si dimostrano particolarmente più longevi di quelli Samsung.

Ma c’è dell’altro.

Il 24 gennaio scorso Apple ha annunciato 13 miliardi di dollari di profitt nel trimestre ottobre-dicembre 2011, praticamente il PIL di un piccolo stato europeo, con ricavi annuali superiori ai  46 miliardi di dollari di ricavi.

Più o meno contemporaneamente, Charles Duhigg e David Barboza per il l New York Times  raccontano le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi che producono hardware per Apple, tra cui il caso dei numerosi suicidi alla Foxconn, una delle principali ditte fornitrici, all’inizio del 2010. Numerosi suicidi (decine, centinaia?) che fanno notizia in una una delle più grandi aziende di tutta la Cina, con circa 1,2 milioni di dipendenti e fabbriche in tutto il paese, che produce o assembla circa il 40 per cento di tutta l’elettronica di consumo del mondo.

 All’inizio del 2010, almeno 137 operai di una fabbrica di proprietà della Wintek (ancora oggi tra le maggiori fornitrici di Apple) rimasero intossicati dal n-esano, che causa danni al sistema nervoso, e che gli veniva fatto usare per pulire gli schermi degli iPhone in costruzione perché evaporava tre volte più velocemente dell’alcool.

Nel 2011, a Chengdu e a Shanghai, si sono verificate esplosioni in due fabbriche che producono gli iPad con 4 morti e 77 feriti, la causa fu l’alta concentrazione nell’aria di polvere di alluminio, un problema facilmente risolvibile con un adeguato impianto di ventilazione. Un gruppo di difesa dei diritti dei lavoratori aveva avvertito Apple dei pericoli all’interno della fabbrica, senza ricevere risposta.

Nella fabbrica di Chengdu sono impiegate circa 120.000 persone, con turni che coprono tutte le 24 ore del giorno. Il New York Times racconta anche che a Chengdu – dove bastava un impianto di areazione per evitare il disastro – alle pareti si leggono scritte come “Lavora duro al tuo impiego oggi oppure lavora duro per trovartene un altro domani”. La Foxconn, a Chengdu, fornisce anche appartamenti in condizioni di serio sovraffollamento a circa 70.000 dipendenti.

Nell’articolo del New York Times si racconta che negli stabilimenti cinesi, che forniscono Aplle e non solo, i turni di lavoro sono molto gravosi, le pressioni che vengono fatte sugli operai sono eccessive, le loro condizioni di vita e di sicurezza molto carenti.

Apple si giustifica affermando che ha un codice di condotta sottoscritto dai suoi fornitori, che fissa il tetto dell’orario settimanale degli operai a 60 ore.  Peccato che il NYT racconti che un operaio qualificato guadagna circa 8-90 dollari al mese, mentre l’Istituto Nazionale Cinese di Statistica pubblica che il reddito medio di un abitante cinese delle aree urbane è di circa 316 dollari al mese.

Ad ogni modo, la casa di Cupertino ha imposto la restituzione di diversi milioni di dollari alle ditte che, addirittura, avevano chiesto agli operai come “contributo di assunzione” per ottenere il lavoro. Purtroppo, non ha ritenuto di approfondire maggiormente cosa potesse esserci dietro la richiesta di un oneroso balzello ai disoccupati da assumere. Caporalato? Ellis Island?

Apple ed i suoi beni voluttuari sono davvero un costo che l’Umanità può permettersi?

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Cronache di un’Italia colonizzata

22 Ott

Mario Monti spera che «grazie a noi si dica che l’Italia non è stata colonizzata dall’Europa e ha mantenuto la sua sovranità».

Quasi in simultanea, però, TGcom24 ci informa che “non c’è stato nessun incontro a Palazzo Chigi sul futuro dei vertici di Finmeccanica“, dopo che la Uilm aveva annunciato “che Finmeccanica ha confermato di voler passare “da una quota di maggioranza a una di minoranza” in Ansaldo Energia, l’azienda genovese oggetto di trattative per una dismissione, e ha confermato anche trattative con un partner “estero” per la cessione di Ansaldo Breda.

Riguardo gli F35, “l’impianto Final Assembly and Check-Out (FACO) sulla base aerea novarese partirà a regime ridotto, con inevitabili aggravi di costo cui si aggiunge per il Governo – che li ha spesi – l’onere di recuperare i circa 800 milioni di euro investiti per realizzare la struttura. … Non mancheranno tuttavia di avere conseguenze almeno indirette sul nostro Paese i nuovi contrasti fra Pentagono e Lockheed sulla conduzione complessiva del programma, con una sovrapposizione di attività che porta a risultati negativi sul piano del costo-efficacia … Il Pentagono è preoccupato fra l’altro per le difficoltà di sviluppo del software dell’aereo, la non corretta pianificazione de collaudi, la vulnerabiltà ai “cyberattack” del sistema logistico integrati“. (fonte AnalisiDifesa.it)
Intanto, il futuro ‘civile’ di Alenia Aermacchi, il Superjet 100, è al 49% della Sukhoi, che ne gestisce anche la commercializzazione in Europa. Dulcis in fundo, i piani alti di Finmeccanica sono scossi da scandali che raccontano di tangenti, commesse sporche e leader di partito.

Restando all’aereonuatica, abbiamo di recente scoperto che il Commissario europeo alla Concorrenza ha aperto un numero impressionante di procedure contro aeroporti di piccole e medie dimensioni per finanziamenti illeciti alle compagnie aeree, che non pochi aeroporti italiani che non sono in grado di sostenersi senza aiuti pubblici, che si prospettano “tagli ben più drastici di quelli proposti dal piano elaborato dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, mettendo a repentaglio persino aeroporti centrali come Genova, Bologna, Firenze o secondari come Ciampino” (fonte Gazzettino.it).

Intanto, giorni prima, Alitalia annunciava 690 esuberi a fronte di diverse centinaia di milioni di perdite ed un magistrato la condannava per ‘monopolio sulla tratta Roma-Milano”, ordinando di “liberare entro il 28 ottobre gli slot necessari all’ingresso sul mercato di un altro competitor.”

Ricordiamo che l’INAIL racconti di “cantieri navali senza più ordini, di fatturato dimezzato sul pre-crisi dei posti barca, di porti deserti” o che Tassinari, presidente di Coop Italia annunci che “la grande distribuzione soffre per la caduta dei consumi provocata dalla crisi. Ci aspettiamo, per la prima volta dopo 20 anni, non solo la chiusura di punti di vendita, ma la cessione di rami d’azienda e purtroppo anche la chiusura di imprese distributive“. Mettiamo in conto anche che a Torino si fanno le Jeep ed a Pomigliano ‘solo la Panda’, che ILVA Taranto è affogata nell’inquinamento, che da alcuni mesi Parmalat fa parte del gruppo francese Lactalis, che ne ha acquisito l’83,3%, ed andiamo alla sostanza: le Banche.

Di Unicredit si legge, in questi giorni, di “voci che corrono sul taglio di 35mila bancari, ma secondo l’Abi di Mussari non sarebbero più di 25mila” (Dagospia), che “il consiglio ha anche cooptato Mohamed Ali Al Fahim quale consigliere. Mohamed Ali Al Fahim è attualmente responsabile della Divisione Finance dell’International Petroleum Investment Company, società di investimenti interamente detenuta dal governo di Abu Dhabi e controllante di Aabar, uno dei maggiori azionisti di Unicredit” (Milano Finanza), riguardo lo “scorporo della banca italiana dalla holding, l’ad Ghizzoni spiega che per ora e’ un tema che non e’ in agenda” (Borsaitaliana.it).

Una settimana fa,  Moody’s declassava la gloriosa Monte Paschi di Siena a livello ‘trash’, con un downgrade a «Ba2» da «Baa3», nonostante il ‘dono’  – è proprio il caso di dirlo – fatto dal governo Monti per 1 miliardo e mezzo di euro, tagliati a pensionati, scolari e malati.
Una situazione che richiedeva cautela, se parliamo di soldi pubblici, visto che, nonostante un ‘provvidenziale’ accordo tra MPS e CartaSì – siglato pochi giorni prima del report di Moody’s, “il primo in Italia di questo genere” – consentiva “all’istituto senese di diventare il quarto operatore per numero di carte emesse (circa 3,3 milioni) sul mercato nazionale” (fonte MPS), l’agenzia di rating ritiene «che ci siano probabilità reali che la banca abbia bisogno di ulteriore aiuto esterno nell’arco dell’orizzonte del rating. Come gli stress test dell’European Banking Authority (EBA) e della Banca d’Italia hanno mostrato, Mps non è stata in grado di aumentare la propria base di capitale ai livelli richiesti».

A cosa si riferiva, allora Mario Monti con ‘abbiamo mantenuto la sovranità’? Quali informazioni lo inducono a promettere che «pochi mesi, spero pochi, che ci mancheranno all’emergere chiaro di segni di ripresa»?

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Comune di Bologna: uno schema finanziario collaudato

17 Mag

Virginio Merola (Partito Democratico) è il sindaco di Bologna, un comune che è il maggiore azionista di Hera S.p.A. con una quota di azioni pari al 14,76 % e, tramite questa, controlla (100%)  HERA COMM, la quale si occupa di vendita di gas ed energia elettrica ed a sua volta detiene il 50,01% di HERA COMM MEDITERRANEA la quale si occupa di produzione, acquisto, trasporto e vendita di energia, mentre il restante 49,99% è detenuto dalla società S.C.R. s.r.l. con capitale coperto da segreto fiduciario e scelta senza gara ad evidenza pubblica. Il Gruppo Hera è il secondo operatore italiano nella gestione del ciclo idrico integrato, ovvero dalla raccolta alla depurazione delle acque reflue fino alla distribuzione di acqua potabile, ed è anche il principale operatore nazionale nel settore ambiente per quantità di rifiuti raccolti e trattati.

Tra l’altro, come formalmente dichiarato a bilancio comunale, “la raccolta differenziata è particolarmente bassa nel Comune di Bologna (36%),  rispetto agli standard richiesti in sede comunitaria (65% entro il 2012).”

Un Comune, quello di Bologna, che alla chiusura del consuntivo 2011 metteva a bilancio ben 12.5 milioni di euro di avanzo economico di parte corrente pari. Risorse che non il sindaco della città ed il consiglio comunale non intendono destinare alla spesa corrente, riducendo tributi e invrementando i sussidi, e che verranno destinati “cura della qualita’ urbana della città” pur di non protestare contro il Patto di stabilità.

Un bel conflitto di interessi, di questi tempi, visto che la crisi dovrebbe indurre il Primo Cittadino a non innalzare il costo delle forniture acqua-gas-luce, se si volesse essere attenti ai cittadini, e non viceversa innalzarlo, come accade, dato che si pensa solo alla cassa ed alla spesa.

Utile aggiungere che il Comune di Bologna controlla anche Interporto Bologna  S.p.A. (35,1%), con ricavi, nel 2007, superiori ai 22 milioni di Euro, e che dagli utili, che questa società  si propone di ottenere, dipende sostanzialmente il prezzo al banco di qualunque prodotto transiti da lì.

Un bel balzello sulle spalle degli altri italiani che permette al Comune di Bologna di mantenere “fiori all’occhiello” a spese di altri.

Un Comune che annuncia (esultante?) che “tra i principali risultati ottenuti con le più recenti modifiche normative, vi sono l’esclusione dall’IMU degli immobili comunali e la possibilità di assimilare alla prima abitazione quelli non comunali (di proprietà Acer) destinati a Erp o Ers, così come quelli dei soci di cooperative a proprietà indivisa” , oltre che forti riduzioni per le imprese.

Mica alleviare i cittadini, visto che si tratta di “un Comune quasi totalmente autonomo da un punto di vista tributario e finanziario”, bensì finanziare la Casta e la folle spesa pubblica, per sostenere la quale il Sindaco e la Giunta bolognesi hanno già introdotto, per i servizi educativi nel corso del 2012, alcune significative innovazioni nell’utilizzo dell’ISEE (Indicatore di situazione economica equivalente) e che ulteriori modifiche saranno introdotte “al fine di conseguire maggiore equità e selettività nelle modalità di accesso e contribuzione ai servizi”.

Ma non solo, visto che la Giunta di Virginio Merola, con i tempi che corrono è riuscita a deliberare, per il 2012, · risorse aggiuntive per 1,6 milioni di euro “per estendere la rete e potenziare la manutenzione degli impianti di rilevazione automatica delle infrazioni al codice della strada”, mezzo milione di Euro per il bike-sharing ed un altro mezzo milione per “potenziare le azioni di recupero dell’evasione”. Importante aggiungere, riguardo ll’utilità di queste spese, che l’Emilia Romagna nel solo 2010 ha speso quasi 2 milioni di euro per il bike sharing, che è la regione con il più basso rischio di evasione fiscale e che il numero di feriti negli incidenti stradali a Bologna è relativamente costante dal 1995.
Tra l’altro, essendo il debito comunale nell’ordine dei 300 milioni, secondo alcune stime, davvero non si comprende come possano i revisori dei conti tollerare interessi passivi a fronte di somme eccedenti od accantonate.

Ritornando ad Hera spa, sia il Fatto Quotidiano sia la Voce di Romagna, raccontano una “strana” vicenda iniziata dieci anni fa, quando la società SCR – quella coperta da “segreto fiduciario” e indicata dal Fatto Quotidiano come vicina alla famiglia Cosentino tramite una fiduciaria – compra per tre miliardi e 715 milioni di lire (1,9 milioni di euro) l’area industriale della ex Ceramiche Pozzi di Sparanise (CE), un prezzo a dir poco stracciato, dato che il sito non aveva  i permessi per ospitare impianti energetici o per il trattamento rifiuti.  Nel 2001, l’area viene rilevata da AMI spa (azienda controllata dal Comune di Imola) proprio poco prima che il Comune di Sparanise cambi la destinazione d’uso dei terreni, consentendo la costruzione di una centrale a turbogas da 800 megawatt, e prima che la stessa AMI spa si fonda con altre ditte emiliano-romagnole, diventando Hera. Un’area che già nel 2003 Hera aveva provveduto a vendere a Calenia Energia, a sua volta ricomprata, nel settembre 2004, dalla  “stessa” Hera e dalla “quella” Scr collegata all’onorevole Nicola Cosentino per il 15%  e per il restante  85% del capitale dalla svizzera Egl.
Nel 2008 Hera Comm Med, società commerciale di Hera (nel cui cda siede Giovanni Cosentino, fratello di Nicola), cui è intanto è passato il controllo del 15 % della centrale, dichiara ricavi per 40 milioni di euro ed utili per 6 milioni e mezzo, dei quali  non vi è traccia nei dividendi e nei bilanci delle giunte romagnole e della multiservizi bolognese (fonte Voce di Romagna).

Non deve dunque meravigliare se il sindaco bolognase Virginio Merola segua con trepido interesse le vicende campane sia riguardo i rifiuti sia riguardo il caso Equitalia e sulle proteste scoppiate in tutto il paese, chiedendo «una grande manifestazione contro l’evasione fiscale», aggiungendo  «non come a Napoli dove contro Equitalia sono scesi in piazza cittadini e camorra».

Ciò che dovrebbe meravigliare è che nessuno ancora si sia accorto di come l’Emilia Romagna e le sue giunte rosse e bianche vantino un “successo gestionale” che si fonda su indebitamenti sine die, gestioni separate o parallele come quelle delle ex-municipalizzate, speculazioni su aree meno sviluppate del paese amministrate da “giunte amiche”, pressione fiscale ossessiva o poco trasparente.

Non meraviglia neanche che, ancora oggi, proprio negli impianti di Imola vadano a finire migliaia e migliaia di tonnellate di rifiuti campani e che a lucrare sulla “monnezza di Napoli” ci siano emiliani e romagnoli.

Come non meraviglia che, non Bersani e non Vendola, ma Giovanni Favia, consigliere comunale bolognese del Movimento Cinque Stelle (link), sostenuto dal Partito del Sud campano (vedi link) abbia presentato un ordine del giorno dove si chiede al Sindaco di Bologna di “adoperarsi affinchè persone delle quali non può essere garantita l’onestà e l’estraneità al mondo della camorra, non siedano all’interno di società partecipate dal comune”.

Utile sapere, però, che Virginio Merola è bolognese d’adozione, essendo nato a Santa Maria Capua Vetere, comune casertano limitrofo proprio a Sparanise, dove è nata anche la moglie dell’ex ministro alle telecomunicazioni, Mario Landolfi (PDL), rinviato a giudizio per presunti favori alla camorra, e dove dal 16 al 26 gennaio scorso è stato cercato come “sparito” l’ex sindaco, Salvatore Piccolo, un avvocato che aveva difeso gli interessi del boss Giuseppe Papa, poi “riapparso” adducendo «questioni strettamente personali».

… e che, come riportato dal giornalista Massimiliano Amato nel libro “Il casalese”, edito da “Cento Autori”, la centrale di Sparanise (una “creatura” di Giovanni Cosentino, fratello del deputato Nicola) sancisce l’inizio di un “consociativismo” negli affari tra imprenditori collegati alla camorra e politici, che travalica qualsiasi possibile distinzione tra sinistra e destra.

originale postato su demata

Italia: maglia nera per l’ambiente

10 Gen

E’ proprio vero che per l’ambiente l’Italia non si è mai distinta?

Rispetto agli altri paesi industrializzati ed al tipo di territorio abbiamo avuto un “solo” incidente chimico di rilievo (Seveso), una “sola” area a forte percentuale di tumori alla vescica (Pero) ed una “sola” area (Marghera) in condizioni di “waste”.

Sarà stato per la limitata industrializzazione “pesante” del paese, ma cose così nelle “verdi” democrazie industriali mitteleuropee, se le sognano e se c’era un posto dove l’arte del manutentare e del riciclare, dell’arrangiarsi, era ben viva erano proprio le nostre aree rurali e le città del sud.

Poi, abbiamo visto crescere un consumismo “preconfezionato”, i cui rifiuti in PVC, polistirolo e cartone sono la maggior parte di quanto troviamo nei cassonetti. E, con i Verdi che facevano concorrenza “a sinistra” della Corazzata Rossa, da noi si è affermato, purtroppo, una sorta di agro-ambientalismo da diporto.

La grande massa degli Italiani focalizza la salvaguardia dell’ambiente in due o tre scenari ridondanti: la macchia mediterranea, ovvero la fraschetta, la bruschetta e la pennichella, la spiaggia semi-libera, con il parcheggio, il bar ed il noleggio barche esentasse, il cibo saporito a tavola, come mamma l’ha fatto, ma anche con il PVC e l’etichetta UE di qualità.

Intanto, l’Italia ha già del tutto capitolato sul traffico, sul rumore e sullo smog in città. Se parlassimo, poi, di attività produttive, lagnarsi è inutile, c’è sempre una logica di qualche emergenza, c’è sempre un’urgenza “sociale” prioritaria.

Ma, intanto, arriva la maglia nera per l’ambiente.

 

Rosso + verde = nero fumo

7 Dic

Dalla Conferenza ONU di Bali sul cambiamento climatico emerge che l’Italia è 41esima su  56 paesi esaminati in fatto di controllo delle emissioni di CO2.

Siamo alla pari con la Cina comunista, ben nota le politiche governative ”insufficienti e inadeguate”.

Come mai?

Non siamo forse l’unico paese al mondo che ha i Verdi nel Governo, addirittura con il loro leader a fare il Ministro dell’Ambiente?