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Clima e Digitale: la Germania accelera e il Sud Europa no

4 Nov

La Germania – dopo le ‘difficoltà’ con Mosca – ha accelerato sulla via dell’autonomia energetica con fonti rinnovabili, contando di coprire l’intero fabbisogno industriale e – forse – residenziale tra pochi anni.
Quanto all’autotrazione, l’anno scorso è stato scoperto che la zona della valle dell’Alto Reno è abbastanza ricca di litio da poter supportare la produzione di batterie per oltre 400 milioni di veicoli elettrici.
Già nell’attuale il Climate Change sta permettendo di trasferire merci dall’Oriente all’Europa tramite la Rotta Artica anzichè tramite Suez e il Mediterraneo.

L’obiettivo malcelato? Rendere la Germania e la MittelEuropa del tutto autonome dal punto di vista energetico sia per i consumi residenziali sia per quelli industriali.
Come? Gestendo il Cambiamento ambientale in termini di mercato e consumi, come attuando la Trasformazione Digitale nell’ambito tecnico e diffondendola tra la popolazione.

Infatti, il Cancelliere tedesco Scholz è a Pechino, dopo aver approvato lo scorso 26 ottobre la cessione di una partecipazione del 24,9% di Hhla, società che controlla tre terminali del porto di Amburgo, al colosso navale cinese Cosco, nonostante una forte opposizione anche nel consiglio dei ministri.

Una scelta dei Socialdemocratici e dei Demoliberali che ha visto l’opposizione non solo della Cdu, ma anche dei Grunen al governo, che – come ha dichiarato il ministro degli Esteri Annalena Baerbock: “hanno invitato a non ripetere gli errori fatti in passato con la Russia, dal momento che una possibile escalation di tensione su Taiwan potrebbe mettere di nuovo Berlino di fronte a scelte molto difficili”.

Ma è pur vero che le ‘scelte molto difficili’ toccherebbero a tanti, se solo in Europa Cosco ha già in uso il porto del Pireo (Grecia), la gestione nel trasporto dei container per i porti spagnoli di Bilbao e di Valencia come di Zeebrugge (in Belgio) come controlla il 40% del porto di Vado Ligure , terminale nel trasporto di container.

Infatti, i Grünen al governo della città-Stato di Amburgo e l’attuale sindaco Peter Tschentscher, (socialdemocratico come Scholz) si sono espressi a favore dell’accordo con la Cina: “Ciò che è sensato dal punto di vista imprenditoriale deve anche essere possibile e realizzato nella pratica”.

In termini di impresa (e occupazione) c’è da sapere che il 70% delle importazioni cinesi dalla Germania appartengono a quattro macro-settori: AutomotiveMeccanica strumentaleElettrotecnica e elettronica e Farmaceutica.
Un export made in Germany da 95 milioni di euro, grazie alla forte differenziazione dei prodotti tedeschi, cioè rivolti sia alla crescente industrializzazione del mercato cinese (sviluppo) sia all’emergere di una nuova classe media (domanda). 

E se una escalation a Taiwan dovesse mettere Berlino di fronte a scelte molto difficili con Pechino?

Si vedrà … intanto la Germania punta a rendersi del tutto autosufficiente prima possibile.

Ben altro che governicchi di una nazione ricchissima ma all’inedia, che sanno solo sottoscrivere debiti per spostare un sussidio da destra a sinistra o viceversa pur di accontentare i clientes nullafacenti, come in Brasile ad esempio.

Venendo all’Italia, che non è il Brasile, l’imprenditoria subalpina manifatturiera che rifornisce direttamente l’industria tedesca sarà certamente avvantaggiata e la domanda da porsi è: cosa accadrà alla demografia delle regioni a nord del Po e cosa all’economia del resto dell’Italia, specialmente se le merci cinesi per arrivare in Germania passano dal Mare Artico e non da Suez?

Demata

Governo Meloni: punti di forza e debolezza

22 Ott

Era dal 2011 che la democrazia italiana tirava avanti con premier nominati dal Presidente, di cui 3 su 4 (Monti, Conte e Draghi) neanche eletti.
Dunque, vedremo se “non è un governo conservatore, ma reazionario” – come titola Huffington Post – ma ad oggi quello di Giorgia Meloni è certamente un governo ‘politico’ e ‘democratico’.

Intanto, i nomi sono sul tavolo e, se qualche testata annuncia l’arrivo di “autarchia, sovranismo e nostalgia”, qualche altra reclama che Giorgia Meloni “aveva promesso un esecutivo di alto profilo e invece ha profili modesti in ambiti cruciali” e qualcuna ancora sottolinea che “cinque sono tecnici di area“.

Ma come stanno le cose?

Di sicuro, la cordiale stretta di mano tra Mattarella e Meloni sembra essere lontana dalla faziosa storia del nostro continente e- soprattutto – è notevole che una donna sia pervenuta all’apice della politica italiana, fatto che nelle grandi nazioni industrializzate è avvenuto solo in Germania e in Gran Bretagna.
D’altra parte, i neo Ministri dovranno essere visti alla prova dei risultati, anche se il livello dei curriculum professionali di tanti lascia ben sperare, specialmente rispetto alle due compagini governate da Giuseppe Conte, con non pochi ministri appena diplomati e non di rado carenti di esperienze professionali.

Fa scalpore il ‘Merito’ che andrà ad accompagnarsi all’Istruzione, ma è pur vero che la Scuola degli ultimi 50 anni non è che abbia granchè badato al merito.
Sono ormai due generazioni che mancano sistemi di verifica (esami) imparziali, le assunzioni non sono rigorose se si raschia puntualmente il fondo delle graduatorie, le carriere non possono essere dignitose se mancano progressioni e premialità, il buon esempio resta vano se sussidiamo i peggiori ma non i meritevoli, la qualità dell’edilizia e l’efficienza tecnica delle dotazioni sono sulle cronache a ciclo continuo, la visibilità e l’immagine della professione docente si scontrano con un burnout diffuso e un livello di contenzioso abnormi.

Inoltre, l’importanza data alla Famiglia e alla Natalità induce molti a prevedere che diritti e libertà civili non conosceranno una stagione felice.
Certamente, però, quel che è urgente è la carenza di politiche per la famiglia, per la natalità e la genitorialità, mentre abbiamo tassi povertà e abbandono scolastico sempre più eclatanti.

Se questi potrebbero essere dei punti di forza, certamente possono esserlo Adolfo UrsoGuido Crosetto, Antonio Tajani e tutti i tecnici messi a capo di alcuni ministeri strategici come non non si vedeva da tanti anni.

Piuttosto – in negativo, visti l’estremismo del passato e il possesso solo di un diploma liceale, Matteo Salvini alle Infrastrutture suscita perplessità, dato che anche questo è un ministero ‘tecnico’ e gli competeranno anche quei 3-4 tunnel in Liguria, i destini di Venezia, il salvataggio Alitalia o la siderurgia di Taranto e non solo le polemiche dell’ultimo mese contro il sindaco Beppe Sala per lo stop ai motori diesel dentro l’Area B di Milano.
Come se non fosse una questione di Salute, come lo era quando c’era da mettere in lockdown una parte della Lombardia.

Una prova non semplice anche per Nello Musumeci, che da giornalista si ritrova alle Politiche del mare a cui andranno i porti, a partire dall’hub di Gioia Tauro, come toccherà la lotta agli sbarchi illegali, a partire da ‘migliori’ accordi con i regimi libici e una maggiore ‘sovranità nel Mediterraneo’ rispetto all’Unione Europea, su cui ha fondato la sua campagna elettorale.
Speriamo solo che non finisca a litigare con gli altri paesi mediterranei, quelli che ci danno gas e petrolio, … perché fermino loro i migranti, dopo aver noi smantellato ripetutamente la nostra flotta.

Ma quel che fa arricciare il naso agli analisti (e farà dubitare le agenzie internazionali) è che di Coesione territoriale, Pnrr regionali, Transizione digitale e Transizione ecologica non c’è più traccia, cioè saranno spacchettati tra vari Ministeri, sia come spesa sia come rendiconto e – si spera almeno – non anche come progettualità.
In altre parole, sarà molto più complicato ricostruire la logica, gli interventi e i risultati in termini di resilienza, resistenza, innovazione, adeguamento eccetera … mentre il Digital Divide già mostra nei populismi i suoi letali effetti sociali e politici.

Infatti, il “Pnrr” diventa un mero piano di finanziamento negoziale e non prima di tutto un progetto di transizione nazionale, se dalle Infrastrutture e Finanze passa agli Affari Europei affidati all’esperto Raffaele Fitto.

Intanto, come per il Pnrr e le Politiche del Mare, dalle Infrastrutture s’è dovuta togliere anche la “Sicurezza energetica”, trasferita all’Ambiente affidato a Gilberto Pichetto Fratin, finora viceministro allo Sviluppo Economico con Mario Draghi. 

Un buon governo, almeno in termini di competenze ‘sulla carta’, ma vistosamente azzoppato da Salvini, che ha preteso un Ministero “tecnico”. Speriamo che non accada come l’altra volta, che dopo non essere andato in ufficio per giorni e settimane, s’è chiamato fuori dal governo con un tweet dalla spiaggia.

Demata

Scuola, infrastrutture, legge elettorale, pensioni: mutare tutto per cambiare nulla

5 Mag

E’ o non è un ‘inciucio’ approvare una riforma elettorale con soli 19 voti di vantaggio (334 su 630) in una Camera dei Deputati eletta con un premio di maggioranza incostituzionale e un voto blindato dalla fiducia al Governo o tutti a casa?

renzi boschi

E’ o non è una vergogna trovare una dozzina di miliardi per i diritti di chi è già gode di una pensione tre volte superiore al minimo, mentre persino gli invalidi gravi che dovevano andare in pensione da quest’anno si troveranno ad attendere il 2018 o forse mai?

E’ pura demagogia convocare i soliti scioperi per ‘salvare la scuola italiana’ dalla cancellazione del precariato, come dal diritto dei presidi di scegliersi i diretti collaboratori (ed essere sostituiti se si ammalano) oppure dal diritto degli alunni ad essere valutati uniformemente su tutto il territorrio nazionale?

E’ tutta ‘una chiacchiera’ quella dei conti dello Stato, se manco sappiamo quanto costerebbero sanità, pensioni e welfare ‘a regime’ o – peggio ancora – quanto costa rinnovare e manutentare le ‘infrastrutture’ lasciateci da 40 anni di saccheggio e spreco?

E’ sbagliato prendere atto che ormai siamo governati da partiti che non abbiamo eletto (Renzi senza Bersani e Letta ma con i Montiani; Alfano con i transfughi di UDC e Lega)?

E, soprattutto, è il caso di dirlo, se i media si preoccupano di cosa faranno i pensionati con il gruzzoletto che gli arriverà, mentre ignorano del tutto percchè e per cosa serva una ‘buona scuola’, dimenticando che l’Inps è ormai un ‘crollo annunciato’ e che risistemare il Belpaese significa prima ripristinarlo?

Demata (blogger since 2007)

Piazza Affari crolla: gli errori della BCE e i segnali dei mercati

2 Ott

A Milano Piazza Affari perde il 3,9% e l’Europa trema a Francoforte (-1,7%) , Londra (-1,49%) e Parigi (-2,5%). Il credito di fiducia concesso all’Italia è ormai palese che non sarà mantenuto e lo spread risale a 142.

Intanto, a giustificare i peggiori timori dei mercati, arriva la prudenza di Mario Draghi, che il Bel Paese lo conosce bene, con la BCE che mantenendo basso e bassissimo il costo del denaro – per rilanciare un Francia e Italia che non ripartono – di sicuro non favorisce la ripresa dell’inflazione.

Un Mario Draghi che ancora non ha attivato il «Quantitative Easing», il programma di acquisto massiccio di bond da parte della banca centrale a sostegno della crescita, dopo averlo proposto con insistenza  – cosa sacrosanta – come toccasana della ripresa, ma senza evidenziare che per arrivarci sarebbe stato propedeutico che Italia e Francia riformassero pubblica amministrazione e sistema di bilancio.

E così è andata che in Italia tanti – ma non Carlo Cottarelli o Daniela Morgante – si sono illusi che potessimo scaricare il 60% del debito, senza prima smantellare l’enorme e inefficiente macchina burocratica delle proroghe, delle deroghe e degli sprechi.

Infatti, è accaduto che per due anni – dopo il rullo compressore di Monti, Fornero e Passera – nessuno tra Letta e Renzi abbia ben pensato di mettere all’ordine del giorno la riforma della giustizia nè quella della sanità e neanche quella dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per non parlare del blocco del Patto di Stabilità per gli enti locali che durerà, si spera, fin quando non cambieranno sistemi di reclutamento, contratti di lavoro a ‘posto fisso’ e regole per gli appalti.

Dunque, Mario Draghi qualche colpa ce l’ha.
Poteva, ad esempio, non illudersi che Roma – la sua città natale – cambiasse metodo e registro dopo oltre duemila anni durante i quali ha perfezionato quel ‘sistema’ di tributi prima, oboli dopo ed infine imposte e accise, che le permette di vivere nello spreco.
Non si offendano i romani o gli italiani: è nei fatti che in Europa ci sono almeno 200 milioni di cittadini i cui antenati – proprio per quei motivi – si opposero strenuamente a Roma fino a distruggerla e che altrettanto – secoli dopo nei loro territori – con la Chiesa Cattolica, salvo dove la spada (Francia, Baviera e Polonia) riuscì a far deserto chiamandolo pace.

In parole povere, specialmente dopo lo stallo che la Sinistra italiana e francese impongono in casa loro da anni, è evidente che l’Eurozona ‘che conta’ andrà a recriminare sulla promessa della BCE di un «Quantitative Easing», senza chiarire i requisiti minimi di accesso per i diversi stati dell’Unione, come chiederà la marcia indietro a Draghi sul recente abbassamento del costo del denaro, per salvare due nazioni decotte come Italia e Francia, ma frenando la crescita proprio della Germania e mettendo ancor più in difficoltà la Gran Bretagna.

Una BCE che – a vederla in altri termini – non può avviare un «Quantitative Easing» a cuor leggero, perchè ci si sta rendendo conto che comporterà anche un certo indebolimento contestuale dell’Euro, dato che farebbe ‘emergere’ che il valore infrastrutturale italiano è molto inferiore al dichiarato /ritenuto (ndr. addio spread …), visto che in metà del Paese strade, scuole, edifici pubblici e ospedali sono stati costruiti spesso male e manutentati certamente peggio: per almeno un ventennio rappresenteranno un costo e non esattamente un patrimonio …

A noi italiani non piace sapere tutto questo e, infatti, i media non ne fanno cenno, ma facile intuire cosa possano pensare di noi gli stranieri, se – da quando è iniziata la Crisi – abbiamo una Politica che ha cetamente il reccord mondiale di propri esponenti finiti in tribunale per scandali e ruberie, una Finanza pubblica che promette di tutto e non mantiene niente, un Sindacato che non propone mai ma diffida sempre, una Giustizia che non vede mai le Corti supreme costituite al completo, troppi cittadini che sanno sbraitare ma non rimboccarsi le maniche, tanti media che ‘non la raccontano giusta’ come la pessima posizione in classifica Reuter dimostra, troppe piccole imprese e cooperative che non sono altro che delle famiglie affatto allargate.

Che ci piaccia o meno, questa è la ‘figura’ che stiamo facendo da tanti anni ormai e gli unici che ancora non ci trattano da insolventi che campano sugli allori sono Mario Draghi e la BCE: il ‘segnale’ di oggi non era per l’Italia, ma per l’Eurozona e, quel che è peggio, a Napoli come a Roma non l’hanno capito …

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Cosa dovremmo imparare dalla Germania

17 Giu

In questi quattro lunghi anni di crisi finanziaria, etica e produttiva, l’Italia ha sempre evitato di chiedersi quali siano le doti della Germania che l’hanno portata ad una tale egemonia nell’Eurozona.

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Per prima cosa, la gran parte di noi rivolgerebbe lo sguardo alla proverbiale efficienza e operosità germanica, ma chi consosce i tedeschi sa che l’operosità non è solo oro che luce, come chi studia storia sa che dal disfacimento dell’Impero federiciano a fino all’epoca gugliemina – circa il 1880 – i tedeschi erano noti per l’ozio e la birra, non per le loro armate o una qualche capacità industriale.
Il tutto con buona pace di coloro che – pro domo italiaca o germanica che sia – sostengono una profonda e atavica diversità culturale ed etnica, che rende taluni più onesti ed attivi, mentre altri sono maggiormente furbi e pigri.

Se è vero che sono gli uomini a scrivere le leggi, dalla Germania impariamo che sono – poi – le leggi a fare gli uomini.

Leggi che in Italia, come in Francia, sono prolisse, aggettivanti, interpretabili, dibattibili eccetera, mentre in Germania sono concise, avverbiali, esecutive, semplificative, come del resto lo sono presso tutti i popoli occidentali non cattolici.
Le leggi sono ‘decisioni’ e ‘indicazioni’. Non rappresentano un arrovellarsi continuo su diritti e doveri, a loro volta ben chiariti nelle così dette ‘leggi fondamentali’, che a loro volta non vengono modificate di continuo da interpretazioni e sentenze.

Se una norma non garantisce la ‘certezza della legge’, ovvero se viene modificata, derogata o integrata di continuo, non può nè essere opportuna nè, soprattutto, adeguatamente conosciuta e, di conseguenza, rispettata.

E quanto al rispetto degli altri paesi e verso la propria nazione, dovremmo prendere atto che dal ‘Me ne frego, il sangue, il lavoro, la Civiltà cantiamo la Tradizion”, di fascista memoria, siamo passati al ‘Ma che ce frega, ma che ce mporta, fatece largo che passamo noi, li giovanotti de’ ‘sta Roma bella”.
In Germania, viceversa, a sentire l’inno nazionale, siamo passati da “Germania, Germania, al di sopra di tutto al di sopra di tutto nel mondo” delle armate naziste ad un ben più promettente “Unità, giustizia e libertà sono la garanzia della felicità, fiorisci patria tedesca”.
Praticamente, ci siamo scambiati i ruoli, con i ‘vitelloni’ e i ‘coatti’ che rivendicano una superiorità da predestinati e i tedeschi che rievocano la ‘florida Friede’ delle antiche Civiltà …

Utile annotare che persino nell’inno vengono ricordati i principi basilari della costituzione tedesca: unità e collaboratività, giustizia ed equità, libertà e diritto alla privacy. In Italia, menzioniamo una nazione che ‘serva di Roma, Iddio la creò’: è mera conseguenza che – poi – spesa pubblica e capitale siano fuori controllo.

E, poi, ci sono i leader, che da loro sono in numero sufficiente, mentre in Italia sovrabbondano.
I nostri sono spesso eternamente anziani ed ingiaccati, particolarmente presenti sulle veline di agenzia e nelle televisioni, ma mai a parlare della quantità ‘strutturale’ di scandali e di reati nel finanziamento dei partiti, del ruolo dei sindacati, della inesistente lungimiranza degli industriali, della poco severa selezione dei dirigenti, del costo e del rischio assicurativo che la casta medica comporta dati alla mano, eccetera.
I loro evitano una sovraesposizione mediatica, non cercano contese e conflitti bensì intese e soluzioni. Certo sono spesso dei provinciali, ma non così come da noi o, peggio, dai francesi. Le intelligenze e le realtà metropolitane sono ben rappresentate. Le imprese preferiscono investire capitali propri anzichè start up a finanziamento pubblico, perchè non si accontentano dell’uovo oggi, ma pensano al pollaio di domani. I sindacati pretendono regole e parametri su e per il lavoro. La qualità dei medici e della Sanità è ben monitorata dalle Versicherungen (ndr. Casse), tramite le quali si gestisce l’assistenza pubblica. Le capacità dei docenti sono ben chiarite dagli esami che gli alunni sostengono esami due volte all’anno e si fa un piano industriale, se i treni, ma anche gli autobus, sono in ritardo.

La causa? Si iniziò nel 1880, all’incirca, con l’istituzione di 217 Politecnici ed il conseguente fiorire di decine di migliaia di brevetti industriali, creando le basi della potente industria manifatturiera che oggi ci schiaccia.
Si prosegue tutt’oggi dando grande importanza alle competenze tecnico-scientifiche, sia a livello di diplomi sia di lauree sia, soprattutto, di assorbimento nei ruoli chiave dell’amministrazione.
Da noi si pretende che un esercito di laureati in legge con un diploma da ragioniere faccia quadrare i conti pubblici e che una platea di letterati decreti in Parlamento leggi semplici e comprensibili ai più.
Basti dire che Angela Merkel ha una laurea in chimica-fisica, ovvero è una modellista-sistemista di prim’ordine, mentre la nostra Casta a volte s’arrabatta persino con la lingua italiana.

Il perchè è semplice, i tedeschi non sono migliori degli italiani: hanno solo ben chiaro che “Unità, giustizia e libertà sono la garanzia della felicità”.

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Renzi e le riforme che farà

14 Feb

I dati delle elezioni del 1992 furono l’ultimo atto della Prima Repubblica ed in essi è sugellato alla Storia il quadro – ferale ma bellamente ignorato – di una egemonia di consensi tanto ‘riformista’ quanto poco  ‘di apparato’, visto che i consensi ‘a sinistra’ videro, alla Camera, Occhetto (PDS) fermo a 6,3 milioni di voti, il PSI di Craxi a 5,3 e il PRC a 2,2 milioni, i Verdi poco oltre il milione.

Da lì prese avvio la Seconda Repubblica, erano almeno 14 milioni di voti, dopo 20 anni – nel 2013 – erano poco più di 10 milioni …

L’odierna Sinistra Ecologia e Libertà è riuscita a dilapidare un patrimonio di oltre 3 milioni di voti (PRC + Verdi nel 1992), divenuti meno di un milione nel 2013, mentre alle ultime elezioni tedesche Linke e Grunen – nonostante la batosta – hanno assommato comunque il 20% delle preferenze. Praticamente quanto oggi raccolto dal Movimento Cinque Stelle …

Quanto al Partito Democratico, oggi raggiunge circa 10 milioni di preferenze, più dei sei del 1992, ma molto meno di quanto raccogliessero PDS e PSI. In Italia, come in Germania per l’odierna SPD, quella che risulta determinante è l’incapacità di attrarre il voto moderato e di formulare strategie di politica economica.

Jean Ziegler – allorchè cadde il Muro di Berlino ed ebbe inizio la Globalizzazione – preannunciò questa crisi della ‘sinistra’, sia in ragione dell’ampio spread di diritti, tutele e benefit di cui godono i lavoratori europei (ma non nel resto del mondo) sia perchè la fine dei ‘blocchi ideologici’ avrebbe affievolito il ‘legante’ che finora aveva accomunato ceti medi e ‘dananti della terra’.

Enrico Letta poteva essere il protagonista di questo cambiamento, traghettando le istituzioni (e la Sinistra che ne ha fortemente condizionato l’attuale status) verso un sistema di governance che permetta la cosiddetta ‘alternanza’ senza escludere le minoranze di una certa entità e verso un  Progetto Italia che non pensi solo a consolidare il denaro ma anche e soprattutto a farlo circolare.

C’era da far la voce grossa in Europa – con ottimi alleati in Gran Bretagna, Francia e Strasbourg – e c’era da por mano alla ridondante questione romana (INPS, Alitalia, debiti comunali, legge sui rifiuti, Bankitalia, vendite e concessioni demaniali, eccetera), c’era da dar respiro ad un’Italia che produce e arranca, senza che vi sia almeno un termine prefissato per misure (ndr. quelle di Monti e Fornero) che non possono essere ragionevolmente durevoli, e c’era da dar speranza a quanti – troppi – non hanno il lavoro, la cura o la pensione che gli spetterebbe con le tasse che ci fanno pagare.

Enrico Letta non l’ha fatto e, in mancanza di altri parlamentari proponibili, arriva Matteo Renzi.

Per fare cosa?
L’agenda è già scritta dagli errori e dalle esitazioni di chi l’ha preceduto, ovvero dall’urgenza:

  1. risolvere il brutto pasticcio delle pensioni e del conseguente blocco del turn over e dell’innovazione
  2. alleggerire l’impianto dei contratti nazionali e della filiera negoziale, per facilitare gli sgravi fiscali, il sistema di premialità, gli accordi locali, la flessibilità sull’export
  3. riformare la legge elettorale in modo che sia garantita l’alternanza, ma anche la democraticità, ovvero le minoranze politiche di rilievo ed il federalismo
  4. riformare -per riequilibrarlo con il nuovo parlamento – il livello apicale della governance (sindacati, CSM, INPS, Bankitalia, Regioni, Provincie e Comuni)

Il passaggio politico più difficile non è il primo – come qualcuno cerca ancora di convincerci – ma l’ultimo, visto che cambiare sistema elettorale per davvero e pervenire ad un parlamento diverso per accesso e poteri significa dover mutare tutto quello che a Roma è immutabile da un secolo e passa: la Pubblica Amministrazione.

Non sarà difficile sbloccare previdenza, lavoro e investimenti, incassando consensi prima e dopo le elezioni europee. E non dovrebbe essere difficilissimo concertare una legge elettorale.

Vedermo, però, se Matteo Renzi riuscirà a riportare nei limiti sostenibili quell’antico Male che si impossessò di Roma nell’arco di soli 10-15, già negli anni di poco precedenti la Breccia di Porta Pia … ma potrebbe farcela.

Serviranno l’azzeramento delle prebende, gli scivoli pensionistici, l’innovazione tecnologica, la meritocrazia e il controllo di gestione: tutte cose che i Sindacati confederali italiani avversano come fosse il fumo negli occhi …

Dunque, a prescindere da Renzi, riuscirà l’Italia a dotarsi di un partito riformista?

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Renzi segretario: un’opportunità per il Centrodestra?

11 Dic

Durante gli Anni ’70 il Partito Comunista Italiano subì un vero e proprio tracollo nell’incamerare l’adesione delle nuove generazioni, proseguito, poi, negli Anni ’80.

I dati delle elezioni del 1992 ne furono la ferale conferma, con Occhetto (PDS)  fermo a 6,3 milioni di voti, il PSI di Craxi a 5,3 e il PRC  a 2,2 milioni. Altra riprova ne sono le date di nascita di D’Alema (1949), Bindi (1951), Veltroni (1955), Fassino (1949), Turco (1955), Gentiloni (1954).

Non uno che avesse tra i 45 e i 54 anni, ovvero appartenesse a quei giovani che 30 anni fa cercarono approcci riformisti per la soluzione dei problemi italiani e che reclamarono un cambiamento meritocratico nelle carriere, a loro precluse perchè determinate dalla politica consociativa di DC-PSI-PCI.

Proprio quei cinquantenni che SWG – in un suo sondaggio del febbraio scorso – individuava, come lo zoccolo duro dell’astensionismo, con una ‘base’ di almeno 3 milioni di ‘non voti’.

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Un dato ‘pesante’ per tanti motivi.
Dal fatto che si tratti proprio di ‘quella generazione’ che va dai movimenti ‘pacifici’ del ’77 agli ultimi fuochi della Pantera all’evidenza che si tratta di quasi una persona su due sia perchè – a differenza delle altre fasce d’età – appare indipendente dal livello di istruzione.

Era davvero difficile convincere a votare Fioroni o Franceschini (1958) se parliamo di un gruppo elettorale, una generazione intera, che ricorda i Cattivi Maestri della Guerra Fredda e gli Anni d Piombo, come l’assurgere delle Mafie e della corruttela generale o gli strani affari di Marcinkus e della P2.
E’, d’altra parte, una delle promesse di Romano Prodi, lui stesso ‘tecnico’, fu quella di aprire le porte della politica a quella generazione, che, per altro, a furia di ricoprire ruoli esecutivi e amministrativi, le ossa se l’era fatte.
Mai promessa fu talmente disillusa: Bassanini e Berlinguer nel poco tempo che ebbero incontrarono una miriade di difficoltà proprio ‘a sinistra’, nel partito e nei sindacati. Delle più o meno equivalenti promesse di Berlusconi e di cosa ne sia stato, nulla di più eloquente di un centrodestra parlamentare privo di ricambio e frammentato.

Meglio far scorrere acqua sotto i ponti – così agevolando vent’anni di Berlusconismo – ed attendere che fosse pronta una nuova generazione da proporre ai ‘nuovi italiani’.

Matteo Renzi è del 1975, la sua segreteria ha di media meno di 40 anni d’età. Praticamente i figli dei Big che vanno a sosituire.

“Luca Lotti all’organizzazione, Stefano Bonaccini (Enti locali), Davide Faraone al (welfare), Francesco Nicodemo (comunicazione), Maria Elena Boschi (riforme) e Alessia Morani (giustizia). Filippo Taddei della John Hopkins University è un esponente del fronte di Pippo Civati e con un ruolo di peso, quello di responsabile Economia del partito. Dall’aera di Walter Veltroni alla segreteria dem arrivano Marianna Madia (Lavoro) e Federica Mogherini (Europa). C’è Debora Serracchiani (infrastrutture), ‘scoperta’ da Franceschini quando era segretario del Pd, da tempo poi sostenitrice di Renzi. Chiara Braga (ambiente) e Pina Picierno (legalità e sud) di provenienza ‘franceschiniana’. Lorenzo Guerini è portavoce della segreteria”. (Il Fatto Quotidiano)

Complimenti, il Partito Democratico ha fatto il turn over senza dover assorbire la generazione degli attuali 45-54enni.

Il sondaggio di SWG ‘leggeva’  il doppio degli astenuti tra gli over44 rispetto a quanti più giovani e nessun sondaggio è stato fatto per capire se siano più ‘conservatori dello status quo’ i nostri giovani under40 in carriera od i cinquantenni esclusi da sempre dalla governance del paese.

Va da se che i margini di raccolta dei loro voti (39% astenuti) da parte di un centrodestra ‘all’inglese’ aumentano a dismisura, come diventano appetibili quelle di incrociare il consenso dei loro figli, che nel prossimo decennio raggiungeranno la maggiore età.
Senza contare la reazione – prevedibile – degli over-55 che potrebbero sempre meno votare un partito in cui non vedono riflesse le proprie convinzioni o rappresentate le proprie esigenze, astenendosi o votando altro.

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Alba Dorata: rischi per l’Italia?

4 Nov

In Grecia sale la tensione, dopo l’attentato alla sede di Alba Dorata, con due morti e diversi feriti, che fa seguito ad attentati a giornalisti e uffici avvenuti nel 2013. Una tentata strage attuata proprio mentre la Grecia cercava di fare piazza pulita dei suoi neonazisti e con il solo scopo di gettare in paese nel caos e non per ‘vendetta’, visto che l’omicidio del rapper antifascista era scaturito da una lite da bar e non da un complotto.

In una sua lunga disanima, Harry van Versendaal – noto editorialista della versione inglese del quotidiano greco I Kathimerini – invita non solo la Destra neonazista, ma anche la Sinistra antagonista a “sviluppare una comprensione più inclusiva della violenza, condannandola in ogni sua forma: sia essa razziale, sessuale o politica“.

Un invito che andrebbe esteso anche all’Italia, dove i nostri media in questi anni ci hanno poco o punto informati sull’escalation anarco-insurrezionalista e della sinistra radicale, cui fanno da contraltare (come a Weimar) i neonazisti di Alba Dorata.

Intanto, in Italia non possiamo di certo dire che stiamo al sicuro da rischi simili, ma, nel nostro caso,  di neonazisti o neofascisti non è che se ne vedano tanti come in Grecia. Anzi, all’ennesimo anniversario mussoliniano c’erano forse 5.000 nostalgici.

E’ la minaccia anarco-insurrezionalista che rimane «estesa e multiforme», in grado di tradursi in una «gamma di interventi» che può comprendere anche «attentati spettacolari», questo il report dei servizi segreti nella Relazione annuale consegnata al Parlamento nel marzo 2013.
La sola nDrangheta, secondo il rapporto Eurispes 2008, avrebbe un giro d’affari di 44 miliardi di euro annui e potremmo stimare in almeno 150 miliardi annui il PIL (ndr. attivo o passivo?) derivante da attività crimine organizzato. Il disastro ambientale campano, le fabbrichette della moda o le rivolte degli immigrati schiavizzati comprovano una dimensione ‘messicana’ dei rapporti tra governance nazionale, sistema produttivo e cartelli locali.

La nostra governance – a differenza di quella spagnola – non è riuscita a far altro che congelare il debito interno e quello estero, mentre il Parlamento è in ostaggio di una legge elettorale indecente e di un’informazione pubblica che Freedom House nel suo report annuale considera ‘semilibera’, collocandoci alla stregua degli stati ex-satellite dell’URSS (Ungheria, Romania, Bulgaria, Serbia eccetera) o delle traballanti repubbliche africane (Egitto, Tunisia, Benin, Namibia eccetera).

Indice di Competitività UE 2013

Aggiungiamo che un malgoverno durato 150 anni ha ormai creato e sigillato tre aree geografiche ben distinte: un Settentrione con una produttività paragonabile a quella tedesca, un Meridione ormai ridotto a vicereame ispanico (come il Messico, Columbia e quant’altri), un Centro che sopravvive – oggi come ieri – di speculazioni finanziarie e immobiliari in nome del ‘paesaggio italiano’ e della ‘bona fidae’.

PIL pro capite UE 2009
Tenuto conto dell’irriducibilità di Silvio Berlusconi e di Matteo Renzi nell’anteporre una visione personale all’interesse generale, oggi, come durante la Guerra Fredda, l’Italia sta andando a porsi al centro di una serie di ‘affari internazionali’, di cui un ‘assaggio’ sono state le montagne russe dello spread del 2011.

Dunque, se la Grecia prendesse fuoco, l’Italia potrebbe non esserne esente.

In assenza di un sufficiente numero di ‘fascisti’, per ora, la furia del ‘tanto peggio tanto meglio’ non avrebbe che prendersela con le istituzioni – che non sono nè i partiti nè gli speculatori – e con chi le difende, a danno di gran parte della popolazione, che è ‘moderata’, ‘conformista’, ‘populista’ …

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Cobas + NO Tav = quattro gatti? Forse si, forse no

21 Ott

La Repubblica riportava “circa 20 mila partecipanti alla manifestazione indetta dai Cobas e dai Sindacati di Base”, di venerdì 27 ottobre. Il giorno dopo – per il corteo di NoTav, NoMuos, Migranti, Movimenti per la Casa e Antagonisti in lotta contro l’Austerity e la Precarietà – “secondo gli organizzatori, sono 70mila i partecipanti alla manifestazione” (L’Unità).

la casa si prende Roma No Tav foto Tiscali

Foto di Tiscali

Lasciamo perdere se quello che chiedono sia o non sia legittimo in un paese democratico, come anche se si condividono o meno le idee o le opinioni. Sono molti o sono pochi?
La risposta è nei numeri.

Secondo i Cobas, oltre ai 20.000 manifestanti di Roma, si sono contati “molte centinaia di migliaia di scioperanti, nella scuola, sanità, pubblico impiego, Telecom, trasporti urbani, principali fabbriche a partire dal gruppo Fiat, trasporto aereo e controllori di volo”. Il personale della scuola conta almeno un milione di dipendenti, come anche il settore sanitario, ed in totale i dipendenti pubblici in Italia superano i 3 milioni di unità. Poi, c’è un altro milione e mezzo di addetti del settore industriale e tot altre centinaia di migliaia di addetti dei settori minori.
Alla fine dei conti della serva, viene fuori che parliamo di almeno 4 milioni di lavoratori e che – se anche gli scioperanti fossero stati 4-6 centinaia di migliaia – staremmo parlando forse del 10-15% del totale, forse qualcosa in meno. Comunque una piccola minoranza, non il 30-40%.

Uno su dieci o poco più, come il 6% di elettori votanti ed il 4% degli astenuti alle elezioni, su una base del 100% degli elettori: praticamente tanti quanti la Sinistra ‘radicale’ ha sempre potuto contare in Italia negli ultimi 30 anni. Paradossalmente, oltre alla proporzione pressochè costante nel tempo, sono i pronipoti di quel sindacalismo rivoluzionario e di quell’azione diretta che furono padre e madre del Fascismo delle origini ed i discendenti di quel Giacobinismo libertario che confluì nel Terrore totalitario di Robespierre.

Una componente statica delle nazioni figlie della Rivoluzione Francese (Francia, Italia, Messico, eccetera), che non impara dai propri errori? Forse si, forse no?
Certamente, i movimenti attuali sembrano rappresentare più una reazione al cambiamento, che una spinta alla pacificazione e al rinnovamento contro il declino ed il degrado.

Ritornando al corteo di sabato, tenuto conto che di adesioni da parte di organizzazioni e comitati ve ne erano in abbondanza, specie tra i ‘movimenti’ capitolini, 70.000 sembrano davvero pochi.
Specialmente se in Italia i migranti sono circa 5 milioni, i disoccupati quasi 6 milioni, i giovani senza lavoro oltre 900.000, le donne non occupate almeno al 50%.
O se, la sera prima, allo Stadio Olimpico ve ne erano quasi altrettante a tifare per una squadra di calcio, una volta tanto senza tafferugli.

Riflessioni romane, che circolano da anni nel borbottio del popolino e che da due o tre anni stanno prendendo una forma concreta: quale è il costo – per Roma e i romani – su un PIL che alla fine dell’anno dovrà pur tener conto di questa ‘due giorni’  di blocco e rallentamenti, sia per gli scioperanti, sia per le manifestazioni ed i voli, sia per quanti non sono andati a lavoro perchè ‘de facto’ impediti (traffico, trasporti, figli piccoli), sia per gli ‘accampamenti’ nel bel mezzo di una città che vive anche di turismo.

Foto da Libero

E, messo che il PIL della Provincia di Roma sia nell’ordine dei 300 milioni di euro per giornata lavorativa, possiamo ipotizzare che – se le manifestazioni si fossero svolte al Circo Massimo e solo lì – oggi avremmo qualche milionata di euro in movimento in più nella nostra Capitale e nelle vessate casse dello Stato?

Quanti blocchi semigeneralizzati possa permettersi Roma, mentre cerca di risollevarsi dal declino generale e dalla sua già asfittica mobilità, è una questione che riguarda tutti.
Come è di tutti la spesa pubblica extra necessaria a proteggere diversi edifici pubblici della Capitale e pagare straordinari alle forze dell’ordine, oltre che i soldi che i contribuenti romani, per tramite del Comune, si troveranno in conto spese per pagare i danni (fortunatamente limitati) ad inermi cassonetti, ignare palettature dei marciapiedi e innocue pavimentazioni stradali.

Allo stesso modo, sono di tutti le sacrosante istanze di riconoscimento dei diritti civili dei migranti, come lo sono quelle di tanti giovani e ormai ex giovani laureati ancora ridotti alla precarietà e quelle delle giovani coppie con figli che non sanno come tirare avanti, tra disoccupazione e affitti da pagare.

Questioni, però, che andrebbero meglio poste, se ai migranti serve innanzitutto una legge elettorale ed ai senza casa necessitano meno assistenzialismo (la botte è vuota …) e più poltiche locali del lavoro.
Come se ai laureati e ai giovani servisse da decenni un  mercato del lavoro ed un sistema delle carriere che non può di certo arrivare dal MIUR o dall’INPS o dalle ASL o dall’INA, che sono imperniati su concezioni strutturali di fascista memoria.

Come se sia proponibile a chi manifesta perchè non ha lavoro, casa e futuro di associarsi a chi chiede un aumento della spesa pubblica, scioperando perchè si aumenti il magro stipendio dei docenti, a parità di servizio, di ben 300 euro netti (circa 450 euro lordi) pro capite, come chiedono i Cobas, che – essendo i docenti circa 800.000) – fanno oltre 350 milioni di spesa pubblica extra all’anno con la situazione finanziaria che c’è e la Merkel che, rieletta, ricomincia ad incalzare.

O come se ieri, a Roma, non avessero manifestato insieme, sotto il MInistero delle Infrastrutture, sia quelli che – No Tav, No Muos, No gasodotto /inceneritore/discarica/eccetera – non vogliono certe infrastrutture nel proprio territorio sia gli altri che protestavano per la disoccupazione e la precarietà derivante dai tagli fatti ai già pochi interventi infrastrutturali previsti …

Poche noci nel sacco fan tanto rumore e l’arcobaleno è di mille colori non sempre l’un l’altro complementari, ma i nodi al pettine – sia da un lato che dall’altro – restano, specie se l’Italia è non va nè di quà nè di là e la Capitale bloccata con gli Svevi alle porte.

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Quel che (non) resta del Made in Italy: dati e riflessioni

29 Lug

Da quando è iniziata la Crisi, in soli tre anni, sono 363 le aziende italiane acquisite, per un controvalore di circa 47 miliardi di euro, da imprenditori/fondi d’investimento/fondi sovrani. Questi i risultati dello  studio realizzato dalla società di revisione Kmpg per il Corriere della Sera, sul periodo 2009-2013.
Parliamo del famoso Made in Italy, le cui esportazioni sorreggono quel poco che resta dell’Italia che fu.

Parliamo di Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, Acqua di Parma e Loro Piana ormai parte della LVMH Hennessy Louis Vuitton SA, come di Gucci, Prada, Bottega Veneta e Sergio Rossi, in mano alla Ppr di Francois-Henry Pinault, oppure di Moncler (The Carlyle group), Ferrè (Paris Group Dubai), Valentino (Mayhoola for Investment), come anche Coin (Bc Partners) e la Rinascente, di proprietà della tailandese Central Retail Corporation.

Nel settore agroalimentare, siamo messi davvero male, con la Parmalat, la Locatelli e la Galbani, entrate nel Groupe Lactalis SA, poi Lactalis Italia, la AR Industrie Alimentari SpA (leader settore inscatolamento), controllata da Princes Limited (Gruppo Mitsubishi), la Star, oggi della spagnola Galina Blanca, la Gancia, inglobata nell’impero finanziario dell’oligarca russo Rustam Tariko, proprietario della vodka Russki Standard, il Riso Scotti, il cui 25% è del colosso industriale spagnolo Ebro Foods, la Casanova – Ripintura Chianti Docg del Gallo Nero, rilevata da un privato di Hong Kong, la Pernigotti, acquisita dal gruppo turco Toksoz, l’Invernizzi, che andò al 100% alla Kraft, l’Orzo Bimbo, passata alla Nutrition&Santè di Novartis, la premiata ditta Cesare Fiorucci, andata alla Bongrain Europe Sas / Campofrio Food Holding,  la Findus Italy, rilevata al 100% da Birds Eye Iglo Group Ltd, il Gruppo Bertolli (Maya, Dante, and San Giorgio olive oil), acquistato da SOS Cuétara S.A. che controlla anche la Carapelli e l’Olio Sasso, come la Perugina, la San Pellegrino e la Buitoni, da molto tempo andate alla Nestlè, la Peroni, da dieci anni di proprietà della sudafricana Sabmiller, il gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni, acquisito al 27% dalla francese Bongrain Europe, le quote della Del Verde Industrie Alimentari finite al gruppo Molinos Rio de la Plata, la Stock, acquisita nel 2007 dalla Oaktree Capital Management e chiusa per trasferire la produzione nella Repubblica Ceca.

Praticamente buona parte del nostro export porta ricavi ed utili ad azionisti stranieri. Ottimo affare, a prima vista …

Nel settore finanziario, ci sono la banca Unicredit, il cui 11% è diviso tra Aabar Investments PJSC e PGFF Luxembourg S.A.R.L., il Marazzi Group, passata alla Mohawk Industries,  la N&W Global Vending S.p.A., acquisita da Barclays Private Equity Limited.

Andando all’energia, reti ed infrastrutture, vediamo il passaggio in mano straniera di Terna, al 65% della Companhia Energetica de Minas Gerais,  di SAECO, acquisita da Koninklijke Philips Electronics N.V., di Ansaldo Energia, al 45% di First Reserve Corporation, di Gruppo Tenaris, finito alla General Electric Co, di Transalpina, andata alla EDF Electricity de France SA, Investcorp SA, del Gruppo Telecom Italia S.p.A., finito alla Iliad S.A. e alla Telefonica Deutschland Gmbh, del Gruppo Enel S.p.A. (assets), finito alla E.On AG, di Impregilo, passata alla Primav Construçoes e Commercio S.A. e BTG Pactual.

Nel campo della meccanica, abbiamo perso Ducati (Audi-Volkwagen),  Mv Agusta (Harley-Davidson) e Ferretti Yacht (SHIG-Gruppo Weichai). La FIAT è gruppo con la Chrysler, l’Alitalia è controllata dal Air France-KLM e, riguardo Finmeccanica, il 42% del capitale fa capo ad investitori istituzionali esteri.

Addirittura, il Gruppo Atlantia SpA, che controlla Autostrade S.p.A., è stato acquisito da un fondo pensionistico estero, il Canada Pension Plan Investment Board, quasi mentre Mario Monti ed Elsa Fornero falcidiavano le pensioni di chi oggi è al lavoro. Oppure, andando alla Sisal, che opera anche nel settore dei Servizi di pagamento alle P.A., ricordiamo che, nell’autunno del 2006, la Direzione Generale della Concorrenza della Commissione Europea evidenziò la sussistenza di un controllo congiunto sul Gruppo da parte dei fondi Apax, Permira e Clessidra.

Detto questo, non restano che poche e schiette riflessioni, visto che – a ben vedere – anche nell’andamento dell’import-export c’è qualcosa che andrebbe valutato meglio, a partire dalla quota di produzione che gli stessi imprenditori italiani hanno trasferito all’estero a causa di una fiscalità esosa, di servizi carenti e costosi, di una tristemente famosa complessità amministrativa e contrattuale. Specialmente, se nonostante tutto le cose non andassero affatto male …

Infatti, è evidente che una certa parte dell’Italia è ancora un buon investimento, che gli stranieri accorrono e che diventa davvero difficile comprendere la continua emissione di titoli di Stato da parte della Repubblica Italiana, mentre aumentano dubbi e perplessità sull’autorevolezza che possiamo ancora concedere a tanti guru della nostra finanza pubblica – sempre dediti alla ‘caccia agli evasori’, al taglio delle spese e al finanziamento (sprecone) di salvataggi impossibili e di apparati inutili – se accade che i pensionati canadesi verranno sostenuti anche (soprattutto?) dai pedaggi autostradali degli italiani. Interessante anche sapere se i capitali derivanti dalla vendita di tali aziende siano entrati e, soprattutto, rimasti in Italia.

Come anche dovremmo prendere atto che il ‘sistema’ su cui si è retto finora il Bel Paese – quello immortalato nei film di Sordi, Proietti, Verdone e Mastroianni – ha fino trasformato il Welfare in ‘volemose bene’ e ‘salti chi può’, mentre il Futuro, trascorrendo gli anni, si confermava essere Degrado e Corruzione. La ‘strana’ vicenda kazaka ha portato in luce, come pubblicato da Der Spiegel, un nesso profondo tra alcuni padri fondatori dell’Europa, nonchè ex leader di partito, e certi ‘benzinai’ oltreuralici, oligarchi di professione.

Ed, ormai, esistono anche degli indicatori affidabili e la lancetta è sul rosso.

Naturalmente, se i capitali derivanti dalla vendita di tante belle aziende fossero rimasti in Italia e fossero stati reinvestiti in fondi pensione, crescita ed occupazione, potremmo evitare di porci parte delle presenti questioni … e se la Germania – di cui attendiamo le prossime elezioni – non avesse intrapreso una escalation finanziaria e commerciale (incalzando il nostro export) non staremmo parlando, forse, neanche del resto.

Un trend avviatosi dal 2010, quando la Germania di Angela Merkel perfezionò una politica finalizzata a trattenere il turismo giovanile (con le note ricadute su Grecia e Spagna), poi seguita dalla svendita dei titoli di Stato italiani da parte delle Deutsche Bank di Josef Ackermann.
Una Germania al bivio, come rilevano gli analisti, ma anche un’Europa ed un Euro al pit stop, se gli indicatori di potenziale concorrenza qualitativa di segnalano che, nonostante quanto importi dall’Italia, sia Berlino – e ben distaccata Pechino – ad attuare politiche finanziarie e commerciali che ostacolano il nostro export e, di riflesso, le nostre capacità produttive, occupazionali e di leva previdenziale e fiscale.

Oggi, a due mesi circa dall’esito delle elezioni tedesche e con la sentenza di Cassazione per Silvio Berlusconi passata in giudicato, almeno una parte della Destra italiana dovrebbe chiedersi se continuare a far capo dai cristiano-popolari targati Deutschland od iniziare a rapportarsi con i laici conservatori di base a Londra. Allo stesso modo, una parte della Sinistra – mentre si prepara al congresso di novembre del PD – potrebbe provare a chiedersi se non sia il caso di passare dallo stato sociale del FSE, modellato sull’impronta francese e comprovata fonte di ampia corruttela, ad un più standardizzato (sobrio ed equo) welfare di stile anglo-germanico.

Questioni che sono sottointese nei “mal di pancia” delle monarchie costituzionali nordeuropee che hanno ben presente l’eccesso di ‘nazionalismo’ insito nel modello di socialcapitalismo, che un certo cristianesimo europeo (bavarese) ha recentemente ispirato, e l’importanza di uno stato laico e liberale, che altro cristianesimo europeo preferì, dopo aver constatato nei secoli che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’Inferno.
Un tema meritevole di un’enciclica, forse, visto anche il New Deal che Papa Francesco ha pre-annunciato al suo gregge romano.

Un tema ‘europeo’ che coinvolge anche e soprattutto il Movimento Cinque Stelle di Grillo & Casaleggio – guardando oltre gli schemi tradizionali di destra-sinistra – che dovrà pur iniziare a raccogliere e canalizzare su candidati di qualità il prevedibile consenso che raccoglierà anche alle possibili ri-elezioni nazionali ed alle già previste europee.
Un M5S che dovrà fornire volti, programmi e risposte a chi fa impresa ed amministrazione, se vuole essere credibile come partito di governo per le riforme strutturali che servono.

Intanto, su gran parte di quello che si produce Made in Italy, da quache tempo c’è un’option, ovvero un ‘valore’, che va all’estero e questo ci fa sempre più somigliare ad uno dei tanti paesi ispanici d’oltre oceano. Loro in crescita e noi in calo, ma per sempre lavoratori dipendenti di qualche holding mondiale anche se cervello, prodotto e risultato sono tutti made in Italy.

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