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Lavoratori precoci: arriva lo sblocco definitivo?

10 Giu

Per lavoratore precoce si intende generalmente chi abbia corrisposto contributi previdenziali per almeno un anno prima del compimento del diciannovesimo.

Sostanzialmente, abbiamo tre grandi categorie: coloro che hanno iniziato presto per poca disposizione allo studio e hanno svolto lavori pesanti e umili, quelli che lo hanno fatto per problemi familiari e spesso sono riusciti a divenire quadri, quelli, infine, che precoci negli studi erano all’università a 17 anni e hanno trovato lavoro immediatamente.

Essendo una categoria da tutelare, persino la riforma Fornero ha dovuto tenerne conto, stabilendo che  l’obbligo di pensione a 62 anni non si applicherà per questi lavoratori fino al 31 dicembre 2017, onde evitare l’incostituzionalità manifesta tenuto conto che dopo il 40esimo anno di lavoro stipendi e pensioni non crescono più.
Per chi ha iniziato a lavorare prima dei 18 anni d’età per altri tre anni varrà solo il requisito di 40 anni contributivi e non quello dell’età, con pensione decurtata dell’1% se hanno 61 anni, del 2% se intendono andare in pensione a 60 anni, del 4% a 59, del 6% a 58, dell’8% a 57, del 10% a 56 anni).

Tutto bene? No.

Purtroppo, oltre a passare la patata bollente al governo a seguire ‘entro il 2016’, l’azione di Monti, Fornero e Mastapasqua ha  partorito la solita incongrua corsa ad ostacoli con ‘effetto tappo’ per gli italiani e per l’economia.

Infatti, ci sono voluti due anni e una legge (L.125/2013) per chiarire che ai benefici sono ammessi solo i periodi derivanti “da sola contribuzione effettiva da lavoro e da contribuzione figurativa derivanti da astensione obbligatoria per maternita’, per l’assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia, per cassa integrazione guadagni ordinaria, per donazione di sangue e di emocomponenti (legge n. 219/05), per congedi parentali di maternita’ e paternita’ (Dlgs. 151/2001) nonche’ per congedi e permessi concessi ai sensi dell’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Rientrano, inoltre, nella valutazione: i periodi assicurativi derivanti da riscatto, secondo l’articolo 13 della legge 1338/1962 (contribuzione omessa e colpita dalla prescrizione): a)i periodi di effettiva contribuzione derivanti da totalizzazione estera; b) il congedo matrimoniale; c) le ferie; d) permessi retribuiti; e) i congedi e permessi per handicap (articolo 33 della legge 104/1992).

Non rilevano invece ai fini dell’esclusione delle penalità i periodi di cassa integrazione straordinaria e di mobilità, la maggiorazione da amianto, i contributi volontari, quelli per il riscatto del corso legale di laurea e i contributi figurativi per disoccupazione indennizzata.” (fonte Pensioni Oggi)

Una soluzione talmente iniqua, ma soprattutto traballante, che l’Inps, pur fornendo di solito informazioni chiare e ben raccolte, non riesce ad andare oltre le tre righe striminzite : “nel 2004 e nel 2005, l’età richiesta è di 56 anni per gli operai e i cosiddetti “precoci”, coloro cioè che possono vantare almeno un anno di contribuzione derivante da attività lavorativa prima del compimento del 19° anno di età. In alternativa, questi lavoratori possono ottenere la pensione di anzianità con 38 anni di contribuzione, indipendentemente dall’età.”
Tutto qui.
Infatti, in un regime contributivo, non dovrebbe esserci motivo legittimo per escludere chi abbia versato, per ricongiugersi, dei contributi volontari o figurativi per disoccupazione indennizzata, come quelli (solitamente esosi) per il riscatto del corso legale di laurea.
Come anche, il Welfare e l’Inps dovrebbero trovare una soluzione allo strumento della cassa integrazione che è tutt’oggi in uso e non determina contributi, seppur figurativi, come l’indennità di disoccupazione.
Si parla di turn over e di equità, ma soprattutto di legittimità dato che i contributi furono versati.
Ecco qualcosa su cui il governo Renzi potrebbe subito mettere a posto le cose: i precoci, tutti, vanno a casa per anzianità contributiva, non anagrafica.

originale postato su demata

Francia vs. Italia, cosa c’è di vero?

7 Apr

Silvio Berlusconi ha firmato il decreto, faticosamente concordato con la Tunisia, che prevede il rilascio di un «permesso di soggiorno temporaneo per protezione umanitaria» ai circa 26mila immigrati arrivati da gennaio ad oggi.

Secondo il nostro governo il documento consentirà loro di lasciare l’Italia, secondo la Francia “assolutamente no”.

Mentre Maroni tuona “Francia ostile!”,  il ministère de l’Intérieur, de l’Outre-mer, des Collectivités territoriales et de l’Immigration si limita a mandare una circolare e qui viene il bello.

La circolare francese (la trovate cliccando qui) dice molto chiaramente, tra le condizioni di regolarità per l’ingresso in Francia, che è escluso il ” permesso di soggiorno temporaneo per richiesta silo politico ai sensi della Convenzione di Dublino”.

Andando a cercare (lo trovate cliccando qui) cosa riporta il Ministero degli Interni possiamo leggere che “al richiedente asilo viene rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo, recante la dicitura “Convenzione di Dublino 15.6.1990”, che lo autorizza alla permanenza sul territorio nazionale per un mese e può essere prorogato fino a quando non verrà accertata la competenza dell’Italia all’esame della domanda di riconoscimento.”

I tunisini che accogliamo come richiedenti asilo ed ai quali diamo un permesso di soggiorno temporaneo possono solo “permanere sul territorio nazionale”, questo è quanto prevedono gli accordi di Dublino, la legge francese, il ministero diretto da Maroni.

Troppo facile addebitare ai cugini d’oltralpe il fallimento del “partito del fare” in politica estera ed energetica come in quelle sociali e dei flussi migratori e della sicurezza pubblica …

Bastava dare a quei tunisini un regolare permesso di soggiorno, per 6 mesi, e questo gli avrebbe consentito di recarsi, prima o poi, in Francia o Svezia, o chissadove. Ma come spiegarlo agli elettori della Lega dopo aver lapidato il tutto con un “fora de ball”?

“Sindaci sceriffi”, addio

7 Apr

E’ durata poco più di due anni l’epopea dei “sindaci sceriffi”, nati con una legge voluta dalla Lega e da Silvio Berlusconi nel 2008.

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimi gli ampi poteri concessi ai sindaci dal cosiddetto “pacchetto sicurezza”, fortemente voluto da Maroni, Zaia, Alemanno, Cota.

La Consulta ha, infatti, acclarato l’incostituzionalità dei provvedimenti “a contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato” e, comunque, che non rispondano al criterio di “contingibilità e urgenza”.

Questa sentenza è un duro colpo al “federalismo municipale”, così come formulato da Calderoli, ed a quanti prefiguravano la cancellazione delle Prefetture e la nascita di polizie locali.
Ma non solo.

La sentenza della Suprema Corte va ad aggiungersi a quelle, recenti, che hanno confermato l’illegittimità del reato di clandestinità e riconosciuto la non punibilità dell’immigrato in stato di indigenza.
Una “politica del fare” a dir poco fallimentare, messo anche in conto che procure, preture e tribunali regionali hanno seppellito la Gelmini sotto una montagna di condanne e di conseguenti “ulteriori spese per l’erario”.

Una Lega ed un governo Berlusconi che in 3 anni hanno collezionato una mole senza precedenti di sentenze avverse, non per una “antipatia dei giudici”, ma per sonore violazioni di diritti essenziali di disabili, indigenti, bambini, lavoratori, malati.

Che non si tratti della “solita” guerra tra palazzi trova la sua conferma nel fatto che, a ben vedere, quella che ne esce sconfitta è la strategia tremontiana dei tagli e degli imperativi che costringono a buone pratiche.

E’, viceversa, sempre più evidente che solo il risanamento e l’innovazione della Pubblica Amministrazione possono consentire economie, ridare centralità ai legittimi poteri e dare sicurezza di un futuro ai cittadini.