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Israele alle porte dell’inferno?

15 Nov

Mentre gli USA sono praticamente senza Segretario di Stato e senza capo della CIA, Israele attacca con aerei e missili il centro urbano di Gaza, a caccia dei leader di Hamas.

Non a caso il Dipartimento di Stato ha tenuto a precisare che «gli Stati Uniti sostengono il diritto di Israele e difendersi e condannano in modo forte il lancio di razzi da Gaza», che sono un messaggio criptico, ma molto preciso, se ad attaccare è stato Israele ed il lancio palestinese non ha sortito effetti, ma può giustificare rappresaglie.

Intanto, l’Egitto ha ritirato il proprio ambasciatore a Tel Aviv, dopo che il presidente egiziano Mohamed Morsi aveva convocato l’ambasciatore di Tel Aviv, Yaakov Amitai, che, accompagnato dal suo staff, avrebbe lasciato il Cairo in tutta fretta.

Giusto per non smorzare i toni, il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha avviato il richiamo alle armi dei riservisti, annunciando una vasta operazione contro «obiettivi terroristici» nella Striscia di Gaza.

Intanto, il tratto di mare aperto che va dal Libano a Gaza sembra essere diventato una sorta di parco marittimo per unità militari, da quelle tedesche, alle turche o siriane, alla marina israeliana, senza dimenticare quelle dell’Italia, della Francia e della Spagna. Per non parlare delle unità di terra spagnole, italiane e francesi dislocate nel Libano, spesso in prossimità delle frontiere israeliane.

In tutto questo, turchi, iraniani, hezbollah e siriani non sembrano affatto essere dei combattenti poco tenaci, mentre l’Egitto  odierno ha dentro di se l’orgoglio dei ‘giorni dell’ira’ e della sollevazione, senza parlare delle migliaia di jihadisti in giro per il mondo che non esiterebbero un attimo a diventare operativi.
Non è una sterile minaccia, ma una realistica eventualità quella di Hamas, che ci avvisa che ‘Israele ha aperto le porte dell’inferno’.

La domanda che andrebbe posta è se Israele, con la situazione che c’è in Medio Oriente, si stia comportando da paese amico della NATO e partner corretto dell’UE. Se così fosse, saremo corresponsabili di tutto quanto accadrà da quelle parti.
In caso contrario, dovremmo davvero iniziare a preoccuparci.

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Roberto Saviano e la cultura in pillole

28 Mag

Anche oggi Roberto Saviano ci illumina via Facebook con un didascalico: “in Siria i civili pagano con il sangue il lungo silenzio dell’Occidente su Assad (finanziatore di Hezbollah e Hamas). Il timore che il dopo Assad fosse peggiore, ha paralizzato l’Occidente troppo a lungo, sacrificando troppe vite.

L’autore di Gomorra è giovane, uno di quei giovani ai quali – mentre erano a scuola od all’università – abbiamo detto di ‘non dare nulla per scontato’ e di rifuggire il ‘sapere in pillole’.

Purtroppo, Saviano ha l’età che ha, la cultura che ha, il reddito e la fama che ha. Così andando le cose, capita che il nostro ‘mito antimafia nazionale’ scivoli su un paio di luoghi comuni colossali.

Infatti, prima di parlare di Occidente in Siria e riguardo la famiglia Assad, vale la pena di verificare cosa fossero i partiti Baathisti e se, per caso, non fossero filosovietici … altro che filo occidentali.

E, caso mai Roberto Saviano volesse dirci qualcosa di non ovvio e non didascalico, potrebbe anche verificare non è la Siria ma, piuttosto, l’Iran ad essere il principale finanziatore (e burattinaio) di Hamas e Hezbollah.

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Strage ad Oakland. Il movente? Rivalsa …

3 Apr

Sette morti, tre feriti gravi: ecco l’ennesima strage, questa volta all’interno di una università statunitense, la Oikos University, una piccola università  d’ispirazione cristiana  ad Oakland, in California.

Come al solito, nelle cronache, troviamo la definizione di “folle”, come in altri casi abbiamo letto le parole “islamico” o “anarchico”. E come al solito, accade che nessuno si interroghi – analisti, politici, militari e giornalisti – sul nuovo corso del terrorismo, iniziatosi nel 1995 con il massacro di Oklahoma City in cui venne demolito, con un “camion bomba”, l’edificio federale Alfred P. Murrah, sede dell’FBI, in cui morirono 168 persone e se ne ferirono oltre 800.

Un attentato avvenuto  sei anni prima dell’abbattimento delle Torri Gemelle, che ha visto l’uso di tattiche ed “armi” non convenzionali, che era mirato non alla semlice strage, ma alla disarticolazione di una leadership (FBI), che venne eseguito da due sole persone (Timothy McVeigh e Terry Nichols), politicizzate ma prive di contatti o collegamenti, che aveva come movente la “rivalsa” (in ingl: revenge) e non un mondo migliore.

Un attentato cui fece seguito quello delle Twin Towers, attuato da una cellula jihadista, collegata al network Al Qaeda di cui l’emiro Osama Bin Laden era uno dei fondatori. Anche in questo caso parliamo di tattiche ed “armi” non convenzionali, non di una semlice strage, ma della disarticolazione di una leadership (Wall Street), un attacco eseguito da poche persone, politicizzate ma prive di contatti o collegamenti sul posto, che aveva come movente la “rivalsa” e non un mondo migliore.

Nella confusione e nello shock collettivo seguito all’11 settembre, George Walker Bush ed i suoi consiglieri trovarono utile affermare qualche mezza verità ed un paio di grosse bugie pur di nascondere una realtà ben più complessa, ma anche relativamente semplice.

Nacque il teorema della “guerra asimmetrica” e dei “combattenti non belligeranti”, in cui degli “stati canaglia” finanziavano delle “cellule terroristiche”, motivate da una fede corrotta o da fame di denaro. In realtà, gli “stati canaglia” non c’erano (salvo forse l’Afganistan del Mullah Omar), la “guerra asimmetrica” non esisteva, se non nella quantità di missili e bombardieri in dotazione alla USAF, i “combattenti non belligeranti” erano spesso degli “insorgenti”, le “cellule terroristiche” erano motivate dalla “revenge” e non solo e semplicemente dalla “fede corrotta”.

Così andando le cose, specialmente per colpa di un sistema mediatico che raramente riesce a contraddirre, con propri studi, le informazioni “official”, accadde che iniziasse la “War on Terror” che ancora oggi coinvolge le forze armate di mezzo mondo contro un nemico invisibile e largamente inesistente, come comprovano le statistiche decennali relative a complotti ed attentati attuati o sventati che vedono all’opera singoli o pochi individui, solitamente “pazzi”.

Non a caso le misure “antiterrorismo”, messe finora in atto, poco hanno a che vedere con l’attentato del kamikaze isolato ed a nulla servono se ad agire è un network (islamico o narcomafioso che sia), ma che tanto servono a prevenire il terrorismo interno, quello spontaneo, quello dei cittadini che “impazziscono”.

Ed, infatti, nonostante si sia ingigantito il controllo sulle armi, sui prodotti chimici di base, sulle transazioni di denaro, su determinati ambienti e persone, solo in Europa ci ritroviamo, nel giro di un anno o poco meno, con i roghi di Atene e le persone bruciate vive dai Black Blocks, il massacro di Utoya attuato da Brevik, la mattanza di Tolosa, attuata da Mohammed Merah, la ripresa del terrorismo “endemico” in Italia, tra pacchi bomba, sabotaggi e pistolettate, l’eccidio (ormai trimestrale o quasi) in un campus universitario.

Tutti attentati condotti con tattiche ed “armi” modeste o non convenzionali, finalizzati alla disarticolazione di una leadership o di un gruppo preciso, eseguiti da singoli individui, politicizzati ma aventi come movente la “rivalsa”.

Dunque, si sbaglia chiunque pensi che la fine delle ideologie coincida con una periodo di “pace” sociale, come si sbaglia chi pensa che per far risorgere il terrorismo serva una “organizzazione”.

Analizzando i tanti atti di “terrore” avvenuti nella Storia, raramente ci troviamo dinanzi ad individui ben collegati o parte di una organizzazione, un aspetto che prende forma solo nel Novecento con le organizzazioni paramilitari marxiste-leniniste o con i movimenti nazionalistici come l’IRA irlandese, l’ETA basca, la Banda Stern israeliana, Al Hamas palestinese.

Gli atti terroristici sono azioni condotte da pochi, se non singoli, individui o da organizzazioni o network con forti connotazioni settarie, un po’ come la Congrega degli Hashassin di un migliaio di anni fa, ai quali vanno ad aggiungersi gli attentati condotti da o per conto di uno dei tanti cartelli narcomafiosi operanti nel mondo.

D’altra parte cosa aspettarsi dal Liberismo, se, finite le ideologie e trasformati i partiti in grosse ammucchiate, non resta solo l’antipolitica, così “utile” per chi, come i poteri finanziari, necessita del “divide et impera” per condurre i propri giochi.

Riemerge con imperio il “prepolitico”, come i Communards antropofagi del 1848 parigino, le bande armate come quella di Bonnot o di Pancho Villa, gli atti isolati come quello di Apple ad Odessa, i regicidi come quello di Umberto I di Savoia ucciso dal meridionale Gaetano Bresci, quarante anni dopo l’annessione delle Due Sicilie.

La sete di “rivalsa”, figlia dell’esasperazione e nipote dell’esclusione, è la “dea” che guida la mano di un attentatore, non le “ideologie”, come tanti, molto speranzosamente, vorrebbero credere.

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Terrorismo del III Millennio

22 Mar

Mentre l’agguato al consigliere dell’UDC torinese, Alberto Musy, è già sparito dalle prime pagine e mentre Mohammed Merah decide di morire armi alla mano, come i suoi avi nella Guerra d’Algeria, accade che nessuno si interroghi – analisti, politici, militari e giornalisti – sul nuovo corso del terrorismo, iniziatosi nel 1995 con il massacro di Oklahoma City in cui venne demolito, con un “camion bomba”, l’edificio federale Alfred P. Murrah, sede dell’FBI, in cui morirono 168 persone e se ne ferirono oltre 800.

Un attentato avvenuto  sei anni prima dell’abbattimento delle Torri Gemelle, che ha visto l’uso di tattiche ed “armi” non convenzionali, che era mirato non alla semlice strage, ma alla disarticolazione di una leadership (FBI), che venne eseguito da due sole persone (Timothy McVeigh e Terry Nichols), politicizzate ma prive di contatti o collegamenti, che aveva come movente la “rivalsa” (in ingl: revenge) e non un mondo migliore.

Un attentato cui fece seguito quello delle Twin Towers, attuato da una cellula jihadista, collegata al network Al Qaeda di cui l’emiro Osama Bin Laden era uno dei fondatori. Anche in questo caso parliamo di tattiche ed “armi” non convenzionali, non di una semlice strage, ma della disarticolazione di una leadership (Wall Street), un attacco eseguito da poche persone, politicizzate ma prive di contatti o collegamenti sul posto, che aveva come movente la “rivalsa” e non un mondo migliore.

Nella confusione e nello shock collettivo seguito all’11 settembre, George Walker Bush ed i suoi consiglieri trovarono utile affermare qualche mezza verità ed un paio di grosse bugie pur di nascondere una realtà ben più complessa, ma anche relativamente semplice.

Nacque il teorema della “guerra asimmetrica” e dei “combattenti non belligeranti”, in cui degli “stati canaglia” finanziavano delle “cellule terroristiche”, motivate da una fede corrotta o da fame di denaro. In realtà, gli “stati canaglia” non c’erano (salvo forse l’Afganistan del Mullah Omar), la “guerra asimmetrica” non esisteva, se non nella quantità di missili e bombardieri in dotazione alla USAF, i “combattenti non belligeranti” erano spesso degli “insorgenti”, le “cellule terroristiche” erano motivate dalla “revenge” e non solo e semplicemente dalla “fede corrotta”.

Così andando le cose, specialmente per colpa di un sistema mediatico che raramente riesce a contraddirre, con propri studi, le informazioni “official”, accadde che iniziasse la “War on Terror” che ancora oggi coinvolge le forze armate di mezzo mondo contro un nemico invisibile e largamente inesistente, come comprovano le statistiche decennali relative a complotti ed attentati attuati o sventati.

E, intanto, venivano prese misure che poco hanno a che vedere con l’attentato del kamikaze isolato ed a nulla servono se ad agire è un network (islamico o narcomafioso che sia), ma che tanto servono a prevenire il terrorismo interno, quello spontaneo, quello dei cittadini che “impazziscono”.

Ed, infatti, nonostante si sia ingigantito il controllo sulle armi, sui prodotti chimici di base, sulle transazioni di denaro, su determinati ambienti e persone, solo in Europa ci ritroviamo, nel giro di un anno o poco meno, con i roghi di Atene e le persone bruciate vive dai Black Blocks, il massacro di Utoya attuato da Brevik, la mattanza di Tolosa, attuata da Mohammed Merah, la ripresa del terrorismo “endemico” in Italia, tra pacchi bomba, sabotaggi e pistolettate.

Tutti attentati condotti con tattiche ed “armi” non convenzionali, finalizzati alla disarticolazione di una leadership, eseguiti da singoli individui, politicizzati ma aventi come movente la “rivalsa”.

Dunque, si sbaglia chiunque pensi che la fine delle ideologie coincida con una periodo di “pace” sociale, come si sbaglia chi pensa che per far risorgere il terrorismo serva una “organizzazione”.

Analizzando i tanti atti di “terrore” avvenuti nella Storia, raramente ci troviamo dinanzi ad individui ben collegati o parte di una organizzazione, un aspetto che prende forma solo nel Novecento con le organizzazioni paramilitari marxiste-leniniste o con i movimenti nazionalistici come l’IRA irlandese, l’ETA basca, la Banda Stern israeliana, Al Hamas palestinese.

Gli atti terroristici sono azioni condotte da pochi, se non singoli, individui o da organizzazioni o network con forti connotazioni settarie, un po’ come la Congrega degli Hashassin di un migliaio di anni fa, ai quali vanno ad aggiungersi gli attentati condotti da o per conto di uno dei tanti cartelli narcomafiosi operanti nel mondo.

Dunque, venendo all’Italia.la questione si pone in un modo ben più complesso di quanto vogliano pensare i “grilli parlanti” che poco leggono d’inglese o d’internet.

In una tale ottica, il rischio principale è rappresentato dagli over 50 che dovessero trovarsi senza impiego o sul lastrico e che, avendo imparato quanto necessario durante gli Anni di Piombo, potrebbero dar luogo ad azioni individuali anche molto plateali e drammatiche, ben oltre l’arrampicarsi su una gru o darsi fuoco per strada come già accaduto. In subordine, c’è da chiedersi cosa faranno i loro figli, visto che la “rivalsa” sembra essere il movente universale … senza trascurare qualche ex naziskin o panterino quarantenne esacerbato da 20 anni di precariato.

L’attentato ad Alberto Musy sembra appartenere a questa categoria di eventi, a prescindere dalla eventuale politicizzazione dell’attentatore.

Immediatamente dopo, i rischi che l’Italia corre derivano da due “attori protagonisti”, non “combattenti non belligeranti” o “disadattati confuiti nel terrorismo”,: le mafie e gli stati esteri con cui non abbiamo alleanze, interessati a destabilizzare l’Italia e, tramite noi, l’Eurozona ed il sistema finanziario “trilaterale”. Ma queste, a voler essere corretti, si chiamano “guerre asimmetriche” e non semplicemente “terrorismo”.

Ritornando al potenziale caos italiano, il rischio di atti isolati non è affatto irrilevante, specie se i media dovessero continuare ad ignorare il diffuso malcontento che si ascolta in giro e se un governo di tecnici dovesse continuare a perseguire una china autoritaria.

Infatti, quello di cui non stanno tenendo in conto sia Mario Monti & co. sia l’attuale classe politica europea è che, finite le ideologie e trasformati i partiti in grosse ammucchiate, non resta solo l’antipolitica, così “utile” per chi, come i poteri finanziari, necessita del “divide et impera” per condurre i propri giochi.
Riemerge con imperio il “prepolitico”, come i Communards antropofagi del 1848 parigino, le bande armate come quella di Bonnot o di Pancho Villa, gli atti isolati come quello di Apple ad Odessa, i regicidi come quello di Umberto I di Savoia ucciso dal meridionale Gaetano Bresci, quarante anni dopo l’annessione delle Due Sicilie.

La sete di “rivalsa”, figlia dell’esasperazione e nipote dell’esclusione, è la “dea” che guida la mano di un attentatore, non le “ideologie”, come tanti, molto speranzosamente, vorrebbero credere.

Il conducente è avvisato, ma … dato che queste cose non si studiano in una Università Commerciale privata come la Bocconi … chissà se i nostri “tecnici professori banchieri” saranno in grado di “leggere lo scenario” che hanno davanti.

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Iran, Turchia e gli errori di Israele

16 Nov

Mentre l’Europa, distratta e pacifista, si dibatte discutendo d’Euro, di debito sovrano e di declino nazionale, dall’altro lato del Mediterraneo si sta assistendo ad una rapida escalation del “problema israeliano”.

Si, “problema israeliano”, come lo percepiscono oltre un miliardo di islamici, anche detto “problema palestinese” da parte di circa 700 milioni di euro-americani e, naturalmente, gli israeliani.

In realtà, non me ne vogliano i sionisti “puri e duri”, il Medio Oriente è “di per se” conformato per essere gestito da un’autorità sovranazionale: è un impianto infrastrutturale che si perde nella notte dei tempi. Basti dire che, a ben guardare le mappe, nessuno degli stati di quei territori, ad eccezione di Turchia e Libano, può dirsi “autosufficiente”.

Ritornando alla “questione israelo-palestinese”, non possiamo trascurare che, nel 1947, gli Inglesi erano mossi da motivazioni umanitarie e non sioniste, quando concessero il permesso all’esodo in Palestina, e che l’ONU, nel 1967, fissò una ragionevole e negoziabilissima linea di demarcazione che Israele non ha mai rispettato, in ragione della necessità di difendersi dai terroristi.

Eppure, se entriamo nel campo del diritto internazionale, la Gran Bretagna non ha mai “allargato” i confini dell’Ulster, per creare una “fascia di protezione” contro i terroristi dell’IRA, che, proprio negli stessi anni, arrivavano dalle basi collocate nella repubblica irlandese. Come anche va sottolineato che i palestinesi di religione cristiana, che terroristi non sono, subiscono lo stesso trattamento degli islamici, i cui correligiosi hanno commesso stragi.

Vicende che, attenzione, sono state condannate anche da molti ebrei atei o cristiani, come, ad esempio, quelli che militano nei partiti della sinistra europea, oltre che da tanti giovani israeliani.

Ed, così andando le cose, arriviamo ai nostri giorni, quelli “in cui il governo israeliano discute i piani d’attacco ai reattori nucleari di Ahmadinejad”, come riporta il Corriere della Sera. Un’idea veramente folle, se consideriamo le ricadute internazionali, oltre che interne.

Se Israele attaccasse l’Iran, le reazioni di Hamas ed Hezbollah, con il conseguente carico di autobombe e di razzi homemade, rappresenterebbero l’aspetto più gestibile dell’impresa.

Infatti, Israele dovrà attendersi una reazione della Cina Popolare, non militare e non immediata come da tradizione orientale, ma è evidente che i cinesi non dimenticherebbero una tale “affermazione di potenza” da parte di Israele nè sottovaluteranno un’azione immotivata e unilaterale verso l’Iran, che è un alleato strategico di Pechino e che reclama il diritto a dotarsi di un’atomica, visto che ce l’hanno Israele, Russia, Pakistan, India e Cina.

In secondo luogo, un attacco senza preavviso trasformerebbe Siria, Irak, Afganistan e Pakistan in una polveriera, con il possibile risultato di unire gli integralisti sciiti e sunniti.

E nulla è dato sapere su come reagirebbero le democrazie ed i mercati europei.

Ma il male peggiore arriverebbe dalla reazione di Libia, Egitto, Tunisia eccetera, dove i Day of Rage hanno abbattuto tiranni e ribadito la legge islamica entro, per ora, i limiti di uno stato laico come avviene in Turchia, che è la potenza, industriale e militare, del Medio Oriente.

Gi attriti tra Ankara e Tel Aviv sono ormai quotidiani, le basi aeree turche  sono ai confini del Libano, a pochi minuti di volo dagli obiettivi, mentre la marina potrebbe garantire addirittura uno sbarco in forze, ad esempio a Gaza.

Senza contare il fatto che la reazione iraniana arriverebbe comunque, probabilmente sotto forma di attentato, e che, per cancellare lo stato di Israele, basterebbe rendere radioattiva la città di Tel Aviv, cosa minacciata più volte da quel pazzo di Ahmadjinejad.

Una Turchia, rifiutata dall’Europa, che ha un esercito con addestramento ed armamenti NATO, la quale, senza ricorrere a scenari apocalittici, potrebbe sospendere l’enorme fornitura di acqua potabile con cui serve Israele, visto cosa accadrebbe nelle moschee di tutto il mondo se venissero attaccate le centrali nucleari a nord di Tehran.

Infine, il mondo intero, che difficilmente perdonerebbe chi avesse dato lo start up ad un conflitto regionale di tale portata.

Israele deve fermarsi ed accettare che, con buona pace di integralisti e sionisti, l’idea di un “dio” che predilige popoli e nazioni è minoritaria e contestabilissima: la divisione dei territori deve essere “laica” e non “integralista”, da ambo le parti.
E’ anche inaccettabile l’idea di “guerra preventiva”, enunciata da Moshe Dayan e realizzata, malamente davvero, da George Walker Bush: produce un’enorme quantità di martiri e di eroi.

Le premesse di una guerra si combattono con l’ipotesi di una pace e questo non significa essere pacifisti, ma semplicemente ricordare che c’è un tempo per le armi ed un altro per le parole, come anche che uno stato assediato non è uno stato libero, nè verso l’interno nè verso l’esterno.

Quanto al futuro, il vero “nemico” dell’isolazionismo di Israele è la Turchia, visto che il Medio Oriente ha bisogno di un’autorità sovrannazionale “laica” che possa garantire la pacifica convivenza di islamici, ebrei e, non dimentichiamolo, cristiani.

Sarà lo stesso sogno cosmopolita degli ebrei dei ghetti, quello che sta trainando la globalizzazione mondiale e che accomuna i giovani di tutto il mondo su internet, a sconfiggere, prima o poi, l’isolazionismo sionista, oltre che l’integralismo islamico.

Shministit, in ebraico “obiettori”

18 Set

Shministit, in ebraico, vuol dire “nel 12° anno”, vuol dire “obiettore di coscienza”.

Sono tanti i giovani ebrei che accettano “dodici anni di disgrazie” pur di non agire contro i palestinesi, mussulmani o cristiani che siano.

La loro esistenza testimonia a tutto il mondo che ebreo non significa sionista e semita non equivale ad usurpatore.

Sono anni, molti più di dodici, che va avanti questa vicenda ed ormai siam oalla seconda generazione di obiettori, ormai, che hanno rinnegato la politica di occupazione militare dei Territori, iniziata nel 1967 da “falchi” come Moshe Dayan e Golda Meyer ed alimentata per due decenni dalle scelte di Ariel Sharon.

I governi israeliani fingono che il fenomeno non esista e quello di Netanhyau, dinanzi ad una popolazione turbata dagli eccidi di Gaza, sta facendo altrettanto.

Potrebbero ricordarglielo gli Europei, ma non lo faranno ed, intanto, giovani ebrei e giovani arabi continuano a morire ed a soffrire, senza un futuro che possa chiamarsi Pace.

Israele: il 10% degli elettori sono pacificamente indignados

4 Set

Anche in Israele, da otto settimane, gli Indignados assediano il governo, chiedendo più equità sociale e più legalità, più politica e meno partiti: 400.000 persone, quasi il 10% dell’elettorato, ha manifestato oggi in tutto il paese (250.000 nella sola capitale).

Era iniziato tutto con una tenda piazzata in Rothschild Boulevard, a Tel Aviv, ed è andata che ieri c’erano migliaia di manifestanti anche a Gerusalemme, a Haifa ed a Eilat, dove l’eterna guerra di Palestina sconsiglia i pubblici assembramenti.

Cosa chiedono gli Indignados al governo presieduto da Nethanyau, la cui politica ha finora accentuato il già pesantissimo isolamento internazionale in cui vive il paese?

Riduzione dei carichi fiscali per i settori sociali esclusi dalla crescità del Pil di questi anni, politiche per i giovani e le famiglie, più fondi all’istruzione, meno corruzione e più sicurezza.
Tutto il mondo è paese.

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Tripoli è caduta: ministoria di un’insurrezione

23 Ago

Tutto iniziava il 17 febbraio 2011, il Giorno dell’Ira.

Migliaia di manifestanti scendevano in strada nelle città della Cirenaica, il regime uccide 6 persone e ferisce decine di manifestanti.

Dopo giorni di manifestazioni e dure repressioni, Bengasi e la Cirenaica insorgono il 23 febbraio . Migliaia di morti e massicce defezioni dei soldati del despota. Inizia la rivolta.

23 febbraio 2011 Un aereo con Aisha Gheddafi a bordo chiede di atterrare a Malta, ma il permesso viene negato. I media avanzano sospetti che il Colonnello stia trasferendo ed occultando capitali all’estero.

19 marzo Dopo un mese di stragi e pulizie etniche del regime, l’Aereonautica francese attacca le forze di Gheddafi in applicazione del mandato ONU.

20 marzo Alla missione si uniscono, progressivamente, gli USA, la Gran Bretagna, la Germania ed alcuni paesi della Lega Araba. L’Italia resta ai margini delle operazioni a causa dell’ambiguità delle sue relazioni con il tiranno.

26 marzo I ribelli riconquistano Brega e Ajdabija, puntando verso Ras Lanuf: inizia la ritirata dei lealisti.

11 aprile Inizia a formarsi un governo provvisorio libico e vengono fornite ampie rassicurazioni riguardo i contratti petroliferi siglati dal regime.

23 aprile Viene liberata Misurata, dopo oltre due mesi di assedi e di bombardamenti da parte dei lealisti di Gheddafi. Viene anche liberato il rimorchiatore italiano, Asso 22, rimasto bloccato lì.

30 aprile Iniziano gli attacchi missilistici al bunker del tiranno e muoiono uno dei figli dei tiranni ed alcuni nipoti. Gheddafi chiede, senza successo, di fermare i bombardamenti USA.

16 maggio Il procuratore Luis Moreno-Ocampo chiede l’emissione di mandati di cattura internazionali contro Gheddafi, il figlio Seif al Islam e il direttore dei servizi segreti libici Abdallah al Senussi.

26 giugno La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja emette mandato d’arresto contro il Colonnello Gheddafi per crimini contro l’umanità insieme al figlio primogenito ed al capo dei servizi di intelligence.

22 agosto 2011 Gli insorti entrano a Tripoli ed inizia l’assedio al bunker del tiranno.

Questi i post passati che si sono occupati del Colonnello Gheddafi:

04-mar-10 Lo stile inconfondibile della Famiglia Gheddafi
04-mar-10 Gheddafi e l’embargo alla Svizzera: dopo il petrolio tocca ai datteri
16-giu-10 Il denaro che puzza
31-ago-10 Gheddafi, dall’Europa un silenzio di tomba
21-feb-11 Gheddafi e l’amico Berlusconi
23-feb-11 Libia, scoperti corpi bruciati (video)
24-feb-11 Massacri libici, affari italiani
23-mar-11 Libia, petrolio e guerra
04-apr-11 Non solo Libia
26-apr-11 Italia in guerra senza Bossi e Bersani?
11-apr-11 Libia, chi sono gli insorti
30-mag-11 Perché Al Qaeda attacca l’Italia?

Italia in guerra senza Bossi e Bersani?

26 Apr

Sì ad «azioni aeree mirate» italiane in Libia. Questa la brief note con cui il Governo ha annunciato l’entrata in guerra dell’Italia.

Una decisione, come conferma il ministro degli Esteri Franco Frattini, che che poteva attuata ben quindici giorni fa, visti i toni tenuti dal rappresentante del governo provvisorio Jalil, in visita a Roma.
“Voi vi siete fatti ingannare dalla retorica di Gheddafi, ma noi che siamo i libici di Bengasi, i libici che dovrebbero odiare di più gli italiani, riconosciamo che voi non ci avete solo colonizzato: avete costruito il nostro Paese. E’ per questo ha continuato – che abbiamo bisogno di voi, proprio di voi, adesso: aiutateci.”
Un accorato appello, al quale Silvio Berlusconi aveva pubblicamente risposto, pochi giorni dopo, che “considerata la nostra posizione geografica ed il nostro passato coloniale, non sarebbe comprensibile un maggior impegno militare.”

Una mossa, imposta da Obama a nome evidentemente del Consiglio NATO, che potrebbe, almeno, riqualificare l’immagine italiana dall’imbarazzante amicizia di Gheddafi con Berlusconi, il quale, per l’appunto, si dichiara imbarazzato.

Una ripresa “obbligata” della politica italiana nel Mediterraneo, dopo 150 anni di stasi, che  riporterebbe le regioni ed i porti del Sud agli antichi fasti, con prevedibili ricadute (negative?) per le regioni padane e quelle “rosse”.

Infatti, se Calderoli annuncia un “Non con il mio voto”, aprendo un’ulteriore frattura nel governo, dalla riva opposta arriva un durissimo il comunicato di Emergency.
“Il governo italiano continua a delinquere contro la Costituzione e sceglie la data del 25 aprile per precipitare il Paese in una nuova spirale di violenza. Le bombe non sono uno strumento per proteggere i civili: infatti non sono servite a proteggere la popolazione di Misurata. La città di Misurata, assediata e bombardata da oltre due mesi, nelle ultime 24 ore ha vissuto sotto pesantissimi attacchi che hanno raso al suolo quartieri densamente popolati, anche per l’impiego di missili balistici a medio raggio”.
Intanto, il ministro della Difesa Ignazio La Russa precisa che  “non si tratterà di bombardamenti indiscriminati ma di missioni con missili di precisione su obiettivi specifici” per “evitare ogni rischio di colpire la popolazione civile”.
E Frattini conferma: «Bombarderemo obiettivi mirati, per esempio batterie anticarro, carrarmati, depositi di munizioni. Obiettivi pianificati dalla Nato, che ce li indicherà di volta in volta».

Quanto al popolo padano, Berlusconi rassicura (secondo lui) che “non occorre un nuovo voto del Parlamento, dunque non ci sarà nessuna spaccatura tra noi e la Lega come spera l’opposizione”.

L’opposizione?  Tace, imbarazzatamente tace, trincerandosi dietro “i limiti posti dalla risoluzione Onu”, come se non ci siano un popolo insorto, un dittatore efferato e tremila anni di storia comune.

Intanto, a Misurata l’assedio, la fame, la sete, le morti innocenti continuano.

Non solo Libia

4 Apr

Ho scritto della crisi libica mentre accadevano i primi eventi e l’impressione è che il fenomeno in atto sia molto più ampio della sola Libia o del Nordafrica.

Come non notare che, dopo la Siria,  solo Palestina-Israele manca all’appello del “Day of rage” e che, se non avverrà, potrebbe solo significare che Hamas è ovunque e che la repressione israeliana soffoca anche i laici palestinesi.

Oppure, come non rendersi conto che il disastro nucleare di Fukushima e l’intensità di certi eventi naturali mettono in crisi sia una certa visione dello sviluppo futuro delle nostre infrastrutture ed attivano un’ancor più spietata ricerca di risorse energetiche e minerarie.

Tornando ai crucci italiani sulla Libia, esistono dei “quid” che sono del tutto disattesi dall’informazione italiana, vuoi per interessi di bottega, vuoi per formazione risorgimentale, vuoi per appartenenza militante.

Questioni, tutte squisitamente politiche ed economiche, che sottendono ai quesiti ondivaghi con cui la pubblica opinione sta lentamente e confusamente apprendendo riguardo gli eventi molto variegati e le (poco) diverse posizioni.

Ad esempio, in uno scenario di superamento degli accordi coloniali del 1884, quale può essere mai il ruolo e le garanzie dell’Italia verso i paesi emergenti se lo stesso Meridione viene tenuto nel degrado con l’aiuto delle mafie?

Oppure, quale politica possiamo mai sostenere nel Mediterraneo, se tutto è deciso a Roma (che ha ormai accettato i “patti di Yalta” tra Saladino e Federico ai tempi delle Crociate) ed a Milano, che è più svizzera che penisola? Sarà un caso che il comando NATO sta proprio a Napoli?

Come rispettare la convenzione di Ginevra per i profughi, se negammo l’asilo persino ai fiumani, oppure garantire la firma delle Carte dei diritti ONU, se 4 milioni di italiani devono ricorrere ai banchi alimentari con la spesa pubblica che abbiamo?

E’ anche da quesiti come questi, che gli altri si pongono e noi no, che nasce la marginalità italiana nel contesto africano e mediorientale.

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