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Armi nucleari tattiche: cosa c’è da sapere

22 Set

Le armi nucleari tattiche (TNW) sono una sottocategoria di armi nucleari non strategiche, che si distinguono per:

  • una portata limitata, cioè colpiscono entro un raggio di 500 km
  • una potenza limitata (kilotoni, kt), cioè pari o inferiori a quella di Hiroshima (15 kt) e Nagasaki 21 kt)
  • una capacità di devastare n’area specifica senza causare ricadute radioattive estese.

Una bomba nucleare tattica da 6 kilotoni (come quelle sperimentate dalla Corea del Nord nel 2009) causa:

  1. una ‘palla di fuoco’ (fireball) larga 120-150 metri
  2. radiazioni letali nel raggio di circa un chilometro
  3. ustioni di 3 grado, radiazioni e distruzione in un diametro di 3-4 chilometri

In caso di vento la ricaduta radioattiva si estenderebbe di 2-5 volte nella sua direzione. Facendole esplodere sul fondale di un porto o di una baia o un fiume, si scatenerebbe un mini-tsunami, distruggendo tutto nel raggio di circa un chilometro.

In altre parole, un’arma tattica nucleare è pensata per distruggere una fortezza o una colonna militare, come anche può devastare un porto o una diga o una centrale idroelettrica. In termini ‘difensivi’ può creare (con vento favorevole) una striscia lunga decine di chilometri di territorio radioattivo, pressoché inattraversabile.

Come esempio nelle due immagini che seguono è descritto l’effetto di una arma nucleare tattica russa da 6kt su un immaginario obiettivo militare ucraino a nord di Poltava.

La Russia ha un vantaggio di quasi 10:1 sugli Stati Uniti e sulla NATO nelle armi nucleari (NSNW) non strategiche (cioè a basso rendimento e a corto raggio).

Le valutazioni basate su fonti aperte stimano che la Russia abbia circa 2.000 NSNW.
Allo stesso modo si valuta che gli Stati Uniti e la NATO abbiano circa 200 NSNW nel loro arsenale. Si ipotizza che metà di queste armi USA si trovino in Europa come parte delle forze nucleari della NATO.

I trattati che hanno posto fine alla Guerra Fredda non ricomprendono le armi nucleari tattiche.

Nel 2011, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Belgio, Repubblica Ceca, Ungheria, Islanda, Lussemburgo e Slovenia hanno chiesto alla NATO “maggiore trasparenza e più sforzi volti a creare fiducia riguardo alle armi nucleari tattiche in Europa” a partire dallo “scambio di informazioni sulle armi nucleari tattiche statunitensi e russe, inclusi numeri, posizioni, stato operativo e disposizioni di comando, nonché livello di sicurezza dello stoccaggio delle testate”.

A.G.

Il testa a testa Macron – Lepen nei numeri dell’European Council on Foreign Relations

11 Apr

Macron vincerà se riuscirà ad attrarre il consenso degli elettori ‘antifascisti’, ma a quanto pare scettici o ‘divergenti’?

Infatti, il dibattito mediatico francese sulla guerra in Ucraina è stato ampio e aperto, vista la coincidenza con le elezioni presidenziali, e vede il Centrosinistra (LFI) su posizioni simili a quelle di Lepen e Zemmour.

L’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio ha inciso profondamente sulla corsa presidenziale francese, che, a differenza delle campagne precedenti, ha dato priorità alla politica estera, creando un chiaro divario tra i candidati. Con l’escalation del conflitto tutti i candidati condannano all’unanimità l’invasione, anche se sono in disaccordo su chi ne è responsabile e su quali siano le soluzioni.

In questo post, due dati a confronto: i risultati al primo turno elettorale dei vari candidati e le loro posizioni verso la guerra in Ucraina, rilevate dall’autorevole European Council on Foreign Relations (ecfr.eu). (LINK)

ECFR annovera tra i suoi presidenti ‘emeriti’ Emma Bonino, (ex Ministro degli Affari Esteri d’Italia), e Joschka Fischer (ex ministro degli affari esteri della Germania), quelli attuali sono Carl Bildt (ex primo ministro svedese) e Norbert Röttgen (Membro del Bundestag). Tra gli attuali Garanti, ci sono anche Franziska Brantner, Segretario di Stato parlamentare, Ministero federale tedesco dell’economia e dell’azione per il clima, Teresa Gouveia, ex ministro degli Esteri del Portogallo, Alexander Stubb, ex primo ministro finlandese.

Il dato che ne viene dalla integrazione tra le due tabelle mostra quale sia l’orientamento dei francesi a riguardo i candidati e le loro proposte verso la guerra russo-ucraina.

E il risultato è sorprendente.

Gli elettori di Melenchon (LFI) e della galassia antagonista potrebbero astenersi, vista la scelta tra liberali “pro-Nato” e nazionalisti “no-Nato”. E dove possa virare l’elettorato populista è puntualmente un mistero.

Probabilmente, Macron ce la farà a riconfermarsi presidente, ma il dato di questa prima tornata elettorale europea a guerra in corso indica un gap significativo per tutti i partiti europei: l’opinione pubblica.
Sopportare scandali, ruberie e incapaci in cambio di stabilità è accettabile, ma anche qualcosa che si infrange se il sistema perviene a una crisi o ad una guerra. Specialmente, se nell’immaginario collettivo l’Ucraina è il luogo dove furono annientati tutti gli eserciti europei, dai Greci fino ad oggi.

Infatti, in un articolo di un mese fa gli analisti dell’ECFR (LINK) sottolineavano come gli europei :

  • sono disillusi dal sistema globale di cooperazione internazionale
  • credono (71%) che il sistema non stia lavorando sui cambiamenti climatici
  • ritengono necessaria la cooperazione europea per garantire la sicurezza alle frontiere e della salute
  • sono a proprio agio con l’idea di una leadership francese
  • vogliono un’Unione Europea impegnata con russi e cinesi per rimodellare l’ordine internazionale.

Demata

Donbass, l’Ucraina scalda i muscoli?

26 Dic

(tempo di lettura 4-6 minuti)

Secondo quanto riportato dal magazine di geopolitica Atlante – Treccani “mercoledì 22 dicembre l’Ucraina ha effettuato un’esercitazione militare nel Donbass, utilizzando i missili anticarro Javelin, di fabbricazione statunitense; si tratta di un’arma che potrebbe essere impiegata nel caso di un attacco terrestre su larga scala.”

Ricordiamo che nel Donbass l’Ucraina ha un ampio spiegamento di forze paramilitari, tra cui la ‘legione straniera’ del Battaglione Azov che raccoglie neonazisti di mezza Europa (fonte Newsweek) e che il 1 dicembre scorso il presidente russo Vladimir Putin ha avvertito la NATO di non dispiegare truppe e armi in Ucraina, una linea rossa per Mosca che scatenerebbe una risposta forte.

Infatti, la NATO ha deciso di incrementare la disponibilità operativa della NATO Response Force (NRF), “allo scopo di garantire la protezione dei Paesi membri dell’alleanza in Europa orientale”, ma l’entrata Ucraina nel Patto Atlantico comprometterebbe ulteriormente la crisi internazionale, senza che questa abbia definito il suo conflitto territoriale con la Russia.
Inoltre, Italia, Francia e Germania tendono ad avere una relazione non ostile e sono per molte ragioni contrari a un confronto diretto con la Russia.
“Significative in questo senso le parole di Mario Draghi che ha sollecitato l’Unione Europea a «mantenere il suo ingaggio con il presidente Putin» di cui ha sottolineato «l’atteggiamento dialogante», mentre secondo Pascal Boniface, direttore dell’Institut des relations internationales et stratégiques, la Russia “non ha la minima intenzione di conquistare il Donbass”.

Quali siano le ragioni autonomistiche è presto detto da questa mappa antecedente al conflitto.

L’Ucraina è una repubblica semipresidenziale dove nel 2019 il presidente della Repubblica Volodymyr Zelens’kyj ha potuto sciogliere il Parlamento per ottenere, tramite elezioni, una maggioranza a lui favorevole, promettendo di raggiungere una crescita economica del 40% in 5 anni.
Infatti, a partire dagli anni ’90, il grande patrimonio ucraino di terreni agricoli è stato parcellizzato assegnando ai ceti medi e alle banche fondiarie governative per essere poi affittata agli agricoltori con divieto di vendita, per evitare “l’acquisto di terreni da parte di acquirenti stranieri”, come scrive il FT.

Il 17 gennaio 2020, neanche dopo sei mesi di governo, il primo ministro Oleksij Hončaruk ha affermato che Zelens’kyj “ha una comprensione molto primitiva dell’economia” ed ha presentato le proprie dimissioni: a parte le aree rurali in cui gli agricoltori diventerebbero braccianti, le privatizzazioni di Zelens’kyj prevedono la cessione a stranieri dei due principali beni statali del paese la compagnia elettrica Centerenergo, che ha due delle tre principali centrali in territorio separatista (Kharkiv e Donetsk), e l’impianto chimico Portside (Odessa).

Intanto, mentre proprio ieri più di 10.000 truppe russe sono tornate alle loro basi permanenti dopo un mese di esercitazioni vicino al confine, l’Ucraina in questi anni ha notevolmente incrementato il proprio potenziale bellico.
Infatti, l’esercito ucraino di terra vanta oltre 170.000 militari a cui vanno ad aggiungersi la Guardia Nazionale con i suoi 50.000 uomini, ed altri 10.000 miliziani stranieri del Battaglione Azov, che Denis Pushilin – leader politico della “Repubblica Popolare di Donetsk” – definisce come forze speciali, che possono anche essere coinvolte in vario modo e quindi preoccupano seriamente”.
Anche la forza aerea desta preoccupazione con le sue circa 300 unità, tra cui i droni turchi Bayraktar TB2 (inviati da Ankara per accordo bilaterale, non tramite la NATO), che sono già stati utilizzati contro postazioni separatiste.

Dunque, se i timori dei separatisti filo-russi (e della Russia) che l’Ucraina possa avviare un’offensiva confidando sull’implicito appoggio statunitense (militare e mediatico) non sono del tutto ingiustificati, si fa sempre più importante il ruolo dell’Unione Europea per estinguere questo focolaio bellico (e questa crisi energetica) ai propri confini prima possibile.

Demata

Pace in Afghanistan? Magari … Ecco quanto c’è da sapere

29 Gen

Oltre 5,5 i miliardi di euro spesi in dieci anni di guerra in Afghanistan solo dall’Italia, che è costata finora le vite di 53 nostri militari e ben 650 feriti.  
Ad oltre 5,5 miliardi ci si arriva con le spese dal 2010 al 2012 quando l’Italia ha destinato oltre 2,5 miliardi alla missione  e non sono solo spese militari. Attualmente, (dati del 2017) vengono spesi 193,7 milioni di euro principalmente per presidiare la provincia di Herat.

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Intanto, 17 anni dopo, gli Stati Uniti si ritrovano ad aver speso 1,07 trilioni di dollari ed il costo iniziale totale era di circa un miliardo di dollari secondo il Dipartimento della Difesa.

Secondo il recente rapporto “Cost of War” dell’Istituto Watson per gli affari internazionali e pubblici della Brown University, è  confermato che

  1. i militari USA  morti sono 2.372 di cui 1.856 in azione e di 20.320 feriti, con 3.937 contractors  e 1.141 soldati di altre nazionalità anch’essi uccisi
  2. i morti civili ammontano ad almeno 38.480 in Afganistan e 23.372 in Pakistan, con almeno altrettanti feriti
  3. le forze governative afgane hanno contato 58.596 caduti, quasi 500 operatori umanitari sono stati uccisi dai Talebani, i quali avrebbero subito non meno di 72.000 morti
  4. i rifugiati profughi di guerra sono 1,3 milioni in Pakistan e circa un milione in Iran. Il Rapporto indica testualmente “in Europa alcuni paesi hanno accettato molti rifugiati; altri, ad esempio l’Italia, hanno criminalizzato loro e chi li assiste“.

Poi, ci sono gli interessi italiani che sono ben chiariti dalla Legge 29 novembre 2012, n. 239, relativa all’Accordo sul partenariato e la cooperazione di lungo periodo tra la Repubblica italiana e la Repubblica islamica dell’Afghanistan:

  1. l’impegno italiano (nel 2012 aveva raggiunto i 570 milioni di Euro) per la promozione del  buon governo, del rispetto dei diritti umani, del ruolo e della partecipazione delle donne, della protezione dei minori e della lotta contro la droga, la corruzione e l’illegalità;
  2. la cooperazione italiana si concentra su: lo sviluppo economico e agricolo (includendo colture alternative come lo zafferano), la costruzione dell’autostrada nazionale Kabul-Bamyan, il Corridoio Est/Ovest (da Herat a Chest-i-Sharif), l’Aeroporto Internazionale di Herat (150 milioni di Euro), la rete stradale di Herat e della regione occidentale
  3. il proprio aiuto sostenendo i Programmi Prioritari Nazionali, in linea con la Strategia Afgana per lo Sviluppo (Afghan Development Strategy) e le Conclusioni della Conferenza di Kabul del luglio 2010
  4. le nuove opportunita’ per lo sviluppo nei settori del marmo, dell’agroalimentare, del tessile, delle infrastrutture,  risorse minerarie e idrocarburi; centrali di produzione energetica su piccola scala (fra cui le centrali fotovoltaiche) e pompe idrauliche; infrastrutture (fra cui l’Aeroporto di Herat e la strada fra Herat e Chest-i-Sharif),  agricoltura e industria agroalimentare; gioielli (pietre preziose e semi-preziose), cemento, sanità, eccetera.

Avete visto voi?

Dunque, ce ne sarebbero di motivi per l’Italia nel ritirarsi dall’Afganistan. E la ripresa ‘alla grande’ del traffico di eroina, le donne schiavizzate, i milioni di profughi, il ripristino di un pericoloso stato jihadista?

L’esodo degli USA crea una situazione del tutto nuova e visibilmente critica in Centro Asia. Infatti, l’Afghanistan confina

  1. a sud e a est c’è il Pakistan, nazione ‘amica’, ma che ha rapporti talmente amichevoli’ con l’Iran che questo ha ben pensato di costruire un ‘muro’ che taglia a metà il Belucistan, tra le proprie provincie e quelle pachistane
  2. a ovest c’è l’Iran, che con la diga di Helmad può azzerare l’acqua che rifornisce l’agricoltura afgana e che sostiene da quasi 30 anni 2,5 milioni di profughi afgani sciti, che pur vorrebbero/dovrebbero tornare a casa
  3. ad est c’è la Cina Popolare che, giusto per chiarire il ‘punto di vista’, ha spedito in Xinjiang nei “campi di ri-educazione” un milione di islamici e dal 2014 ad oggi oltre un milione di membri del partito comunista ed “impiegati statali” (prevalentemente polizia e militari) sono stati assegnati nella regione
  4. a nord ci sono le repubbliche ex sovietiche di religione islamica ismailita o scita del Turkmenistan (povero, ad economia rurale e legato alla Russia), del Tagikistan (ricco di petrolio e gas, ma povero e spesso privo di elettricità, gas e acqua per una sorta di embargo della Russia) e l’Uzbekistan, che è il quarto produttore mondiale di cotone, dove il fondamentalismo già da 15 anni è attivo 
  5. a nord ed est, poco oltre il confine di paesi più o meno ‘amici’, c’è la Russia che ha – tra le varie – il Tupolev Tu-160 che ad un’ora di volo può scaricare 40 tonnellate tra bombe e missili, mentre – con due ore di volo – potrebbe testare il neonato drone armato Okhotnik con bombe laser-guidate e paragonabile a un caccia F-15 Strike Eagle statunitense, ma senza pilota a bordo, come un solo Antonov è in grado di spostare in poche ore 250 tonnellate di militari e attrezzature.

La bozza di accordo prevede l’impegno dei talebani a non far diventare il Paese un santuario di terroristi e gli americani invece si impegnano a un ritiro totale delle truppe in cambio del cessate il fuoco e il coinvolgimento talebano in colloqui con il governo afghano.

Poca cosa senza un’autorità militare internazionale a far da garante ed è forte il timore che il ritiro preluderà a nuovi equilibri (che in Afghanistan solitamente vengono scritti con rovine e sangue): il Comando NATO ieri ribadiva che “siamo in Afghanistan per creare le condizioni di una soluzione pacifica negoziata: non lasceremo prima di avere una situazione che ci permetterà di ridurre il numero di truppe,il nostro obiettivo è quello di impedire che il Paese torni a essere un paradiso sicuro per il terrorismo internazionale“.
Niente paradisi, specialmente se i dati confermano che dal 2012, nonostante fosse noto che quelle afgane non fossero affidabili, gli USA decisero un drastico ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan ed, a seguire, c’è stato un drastico aumento mondiale del consumo di eroina e delle over-dose.
Ancora oggi, secondo l’Unodc, l’85% dell’eroina e della morfina prodotte nel mondo, è estratto dall’oppio afghano e si tratta di quasi 400 tonnellate (cioè circa un miliardo di dosi da strada), che viene trafficato in tutto il mondo attraverso i paesi confinanti. 

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foto da analisidifesa.it

Non è difficile indovinare come andrà a finire senza un forte presidio militare internazionale. Narcostato, integralismo che si espande nell’Asia Centrale, possibili collisioni tra nazioni già oggi ben armate, l’un altro ostili, salvo un sempre probabile intervento russo / iraniano e/o  del Pakistan, filo-statunitense.

L’impressione generale è che gli USA di Trump stiano delineando una nuova Yalta in semi-accordo con Putin non solo in Siria, ma anche in Asia, cioè ritirando personale ed investimenti in Medio Oriente e Afganistan, gli Stati Uniti confidano di ritornare alla Dottrina Monroe e ‘dedicarsi al giardino di casa’, le Americhe.

Non a caso la Brexit riporta il Commonwealth al suo “naturale” ruolo di controllore dell’Oceano Indiano e delle rotte da oriente a occidente, basta guardare una mappa e quali nazioni ne fanno parte, Pakistan incluso.

Finanza e industria ben sanno che il Cambiamento Climatico crea nuove e diverse prospettive commerciali date dalla navigazione artica per la Gran Bretagna, come per tutta la Scandinavia e il Canada, con corrispettivi Russia, Cina, Corea e Giappone.

Ed all’Europa restano i pasticci che ha combinato in Medio Oriente,  in Africa … ed in alcuni processi di unificazione nazionale con lo smantellamento dei regni governati da Borboni o Asburgo.

L’Italia è una questione a parte: non possiamo permetterci un contingente di 1000 uomini all’estero, talmente siamo indebitati:  Di Maio a Washington il 14 novembre 2017 (fonte ANSA) fu chiaro: “Sull’intervento in Afghanistan siamo sempre stati chiari. Per noi quello è un intervento che per la spesa pubblica italiana è insostenibile“.

Infatti, oggi Quotidiano.net riporta che “il ministro dell’economia e finanze Trenta ha dato disposizioni al Comando operativo di vertice interforze di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano. Le stesse fonti aggiungono che l’orizzonte temporale potrebbe essere quello di 12 mesi”.
Inoltre, “la richiesta di valutare una pianificazione del ritiro del contingente italiano avviata dal ministro Trenta sarebbe statacondivisa con la presidenza del consiglio“. Quindi, se Moavero (ndr. e la Lega) non era a conoscenza dei piani della Trenta, Conte non solo era stato informato, ma li ha anche avallati“. 

Demata

L’inferno in Libia raccontato a … chi ne ha bisogno

25 Gen

Secondo Alessandro Di Battista, ex deputato Cinque Stelle, la Libia oggi è “un inferno creato ad hoc dai francesi”. Purtroppo, la Libia come la intendiamo oggi un secolo fa non esisteva neanche e, purtroppo, è figlia del “sogno coloniale” italiano, come lo è il disastro somalo.

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Mappa francese del 1707

In realtà, fino all’ “inferno creato ad hoc dagli italiani” dal 1911 al 1931 con stupri, torture, massacri e armi chimiche, c’erano la provincia ottomana della Tripolitania,  che includeva parte di quella che da sempre è la Cirenaica, retta in realtà dalla  Confraternita islamica dei Senussi, e Gadames con il semi-indipendente  Fezzan, visto che parliamo del cuore poco abitato del Sahara.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il 24 dicembre 1951, la Libia dichiara l’indipendenza come Regno Unito di Libia, sotto re Idris al-Sanusi, che diciotto anni dopo viene deposto da Mu’ammar Gheddafi, con l’appoggio dell’Egitto di Gamāl ʿAbd al-Nāṣer, il prototipo dei vari raiss filo-russi come poi furono Gheddafi, Assad e Saddam.

E si andò avanti con gli orrori e le bizzarrie di Gheddafi fino al 27 febbraio 2011, quando a Bengasi (cioè in Cirenaica) si insediò il Consiglio Nazionale Libico, con quasi immediato riconoscimento italiano (28 febbraio) e solo a seguire della Francia e Gran Bretagna (5 marzo), quale “unico legittimo rappresentante della Repubblica libica”, e poi degli USA tramite Bill Clinton (10 marzo) e della Lega Araba (12 marzo).

Con Gheddafi che – anzichè negoziare – ormai bombardava a casaccio le città, il 19 marzo 2011 “alle 17,45 è stato colpito il primo obiettivo militare dai caccia francesia Bengasi dove le truppe governative minacciavano la sede del Consiglio.
Ed iniziava anche “una pioggia di bombe” dagli aerei inglesi, francesi e statunitensi, oltre a 110 missili Tomahawk lanciati dalle navi Usa e dai sottomarini inglesi, mentre il Pentagono annunciava l’avvio dell’operazione “Odissea all’alba”,  che oltre agli Usa vedeva coinvolti Gb, Francia, Italia e Canada. Infatti, oltre alle basi messe a disposizione e al supporto logistico per preparare l’attacco, la sera dopo, il 20 Marzo 2011, entravano in azione dalle nostre basi i Tornado ERC italiani e le aviazioni danese e spagnola. 

Dunque, tutt’altro che un “inferno creato ad hoc dai francesi” come sostiene Alessandro Di Battista e come credono non solo milioni di seguaci, ma anche quella parte dei media più attenta ai “like” che ai “lettori”.
Anzi, il “problema Libia” l’abbiamo creato noi italiani, prima dei quali la parola stessa non esisteva: riporta la Treccani che “il nome di Libia, derivato dalla geografia classica (v. appresso), venne dal geografo F. Minutilli rievocato con la sua Bibliografia della Libia (Torino 1903) e applicato alla regione allora costituente il pascialato turco della Tripolitania e Cirenaica“.

Più chiaro di così …

Eppure, oltre alla questione ‘inferno francese’ che ha causato un “quasi incidente” tra Francia e Italia, l’ex onorevole Di Battista non è nuovo ad una lettura molto soggettiva delle cose.
Ad esempio, solo pochi giorni fa, era “arrabbiatissimo per non essere riuscito a vaccinare il figlio” e denunciava che “dicono che vaccinano fino alle 11.15, ma in realtà ne fanno 20“, per ritrovarsi a stretto giro con la ASL RM1 che precisava come “il presidio di via Plinio ogni giorno mediamente vaccina 110 bambini e non 20 come erroneamente dichiarato. A conferma di questo, nella prima parte della mattina di oggi sono stati trattati 90 bambini“.

Oppure quasi un anno fa, nel salotto mediatico di Lilli Gruber, era proprio Alessandro Di Battista a rilanciare la bufala di un quotidiano, secondo cui a Pachino “al prezzo di 1 euro e 39 centesimi al kg è in vendita il pomodoro ‘datterino’ importato dal Camerun“, anche se prontamente smentita dai “documenti dell’Agenzia delle dogane che raccontano una realtà diversa: dai dati risulta che i pomodori importati dal Camerun sono pari a zero“.

Dunque, tenuto conto che il termine ‘follower’ si traduce ‘seguace’ che è cosa diversa da ‘sostenitore’, c’è da ricordare che le sue dichiarazioni sono quelle di un “opinion maker”, che è una cosa a sua volta differente da ‘leader politico’ con un ruolo – di solito – mediatico, cioè quello dell’ “anchor man”.
La Casaleggio & associati ha sufficienti professionisti per cogliere questa sottile differenza e prendiamo atto che Di Battista parla per se e non per i Cinque Stelle. Dovrebbero farlo anche i media, riportando le dichiarazioni di personaggi famosi: un conto sono gli opinion maker, i loro seguaci e le post-verità che preferiscono, un’altra i leader politici,  i lettori/elettori ed i fatti storici.

Demata

Sartre, la Sinistra, la Guerra e il Terrorismo

24 Mar

Dunque, siamo in guerra, ma lo siamo stati fino all’altro ieri, anche se l’abbiamo dimenticato: gli Anni di Piombo italiani finiti nel 1982, la miriade di attentati portati avanti dagli ‘informali’ da Action Directe e gli Squatters fino ai BlackBloc o gli anarco-insurrezionalisti odierni, la Guerra Fredda conclusasi  con la riunificazione tedesca nel 1990 più o meno quando iniziava la ‘madre di tutte le battaglie’, cioè la Guerra del Golfo … sembra che le nostre cattedre di lettere, storia e filosofia come le redazioni e gli editori si siano persi qualcosa … a usual.

E, dinanzi all’orrore di Parigi e Brusselles, la Sinistra europea si trova in enorme disagio tra l’avere il nemico in casa dopo aver depenalizzato di tutto e di più, il dover scegliere se ridurre il garantismo e/o la libertà di tutti o solo per alcuni, l’approssimarsi di una guerra “d’oltremare” dopo aver criminalizzato il colonialismo per due generazioni.

A tal punto, varrebbe la pena che la  Sinistra – dai Dem statunitensi fino agli anarchici nostrani – prendesse atto di trovarsi allo stesso ‘bivio esistenziale’ del ‘loro’ amato  J.P. Sartre, oggi poco ricordato a causa di frasi politically uncorrect come “la società rispettabile crede in Dio per evitare di doverne parlare” oppure “quando Dio tace, gli si può far dire quello che si vuole” o come “la pace non è né democratica né nazista: è la pace” … o anche come “a che serve arrotare un coltello tutti i giorni se non lo si usa mai per tagliare?” …

Jean Paul Sartre scrisse cose ben chiare sulla guerra e sulla responsabilità generale dei diversi ceti (o classi) di una nazione che si trova – volente o nolente – ad affrontarla.
Quanto segue è tratto da L’essere e il nulla, 1943, IV parte, cap. I.

  “Ogni persona è una scelta assoluta di sé sulla base di un mondo di conoscenze e di tecniche che questa scelta assume e chiarisce nello stesso tempo; ogni persona è un assoluto che fruisce di una data assoluta e del tutto impensabile in un’altra data. E dunque ozioso chiedersi ciò che io sarei stato se questa guerra non fosse scoppiata, perché io mi sono scelto come uno dei sensi possibili dell’epoca che conduceva insensibilmente alla guerra: io non mi distinguo da questa stessa epoca, non potrei essere trasportato in un’altra epoca senza contraddizione. Così sono io questa guerra che circoscrive, limita e fa comprendere il periodo che l’ha preceduta.

Tutto ciò che mi accade è mio: si deve intendere con questo, innanzitutto, che io sono sempre all’altezza di ciò che mi accade, in quanto uomo, perché ciò che accade a un uomo da parte di altri uomini e da parte di se stesso non potrebbe essere che umano.

Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture non creano una situazione inumana: non vi è situazione inumana; soltanto con la paura, la fuga e il ricorso a comportamenti magici io potrei decidere dell’inumano; ma questa decisione è umana e io ne porterei l’intera responsabilità. Ma la situazione è mia.

Non sono io a decidere del coefficiente d’avversità delle cose e perfino della loro imprevedibilità nel decidere di me stesso? Così, non vi sono accidenti in una vita; un evento sociale che scoppia improvvisamente e mi coinvolge non viene dal di fuori; se io vengo richiamalo in una guerra, questa guerra è la mia guerra, essa è a mia immagine e io la merito.

La merito innanzitutto perché potevo sempre sottrarmi ad essa, con il suicidio o la diserzione; queste possibilità estreme sono quelle che debbono sempre essere presenti, quando si tratta d’immaginare una situazione. Se ho mancato di sottrarmi ad essa, io l’ho scelta; e questo forse per ignavia, per vigliaccheria di fronte all’opinione pubblica, perché preferisco certi valori a quello del rifiuto stesso di fare la guerra (la stima dei mici vicini, l’onore della mia famiglia, ecc.). In ogni caso, si tratta di una scelta.

Questa scelta sarà reiterata in seguilo in maniera continua sino alla fine della guerra: è necessario, quindi, sottoscrivere le parole di J. Romains1: “In guerra non vi sono vittime innocenti”.

Non vi è stata alcuna costrizione, perché la costrizione non potrebbe avere alcuna presa su una libertà; io non ho avuto alcuna scusa, perché la caratteristica della realtà umana è che questa è senza scusa. Non mi resta, dunque, che rivendicare questa guerra.

In questo senso, alla formula che citavamo poco fa, “non vi sono vittime innocenti”, bisogna aggiungere, per definire più nettamente la responsabilità del per-sé, quest’altra: “Si ha la guerra che si merita”.

Ma, inoltre, essa è mia perché, per il solo fatto che essa sorge in una situazione che io pongo in essere, e perché non posso scoprirvela se non impegnandomi a favore o contro di essa, io non posso più distinguere ora la scelta che io faccio di me dalla scelta che io faccio di essa: vivere questa guerra significa scegliermi attraverso essa e sceglierla attraverso la mia scelta di me stesso.

Così, totalmente libero, indistinguibile dal periodo di cui io ho scelto di essere il senso, profondamente responsabile della guerra come se l’avessi dichiarata io stesso, non potendo affatto vivere senza integrarla nella mia situazione, senza impegnarmi completamente e segnarla con il mio sigillo, io debbo essere senza rimorsi e rimpianti come sono senza scusa, perché, dal momento del mio sbocciare all’essere, io porto il peso del mondo tutto da solo, senza che niente o nessuno possa alleggerirlo“.

J.P. Sartre si espresse anche sul Terrorismo definito come una “terribile arma, ma i poveri oppressi non ne hanno altre” e sulla Guerra civile rivoluzionaria scrisse che “se definiamo il progresso come l’aumento della gente che partecipa alle decisioni che riguardano la sua vita, non ci possono essere dubbi che, oltre ai massacri, ai genocidi, agli omicidi di massa che hanno abbondantemente segnato la storia dell’umanità, c’è stato un progresso.

Demata

Clandestini, perchè Renzi vuole depenalizzare

11 Gen

Mentre in tutta l’Europa gli Stati stanno progressivamente irrigidendo le norme sugli stranieri che violano le leggi, dopo i morti di Parigi e le aggressioni in branco contro le donne in molte città, Matteo Renzi si accinge a depenalizzare il reato di clandestinità “per far capire che gestiamo il fenomeno immigrazione con umanità ma anche con rigore”, ma soprattutto “perché intasa le procure”.

Un problema di ‘braccino corto’ del solito Ministero dell’Economia e delle Finanze, che evidentemente, intende ‘ricaricare’ le maggiori risorse necessarie alle forze dell’ordine per il terrorismo ‘sottraendole’ a quelle già necessarie per l’immigrazione e l’accoglienza ed, allo stesso modo, alleggerire le Procure dai carichi, piuttosto che snellirne i procedimenti con la separazione delle carriere.

Una follia, insomma.
Specialmente tenuto conto che, con la sospensione di Schengen o comunque con un forte irrigidimento dei paesi d’Oltralpe, gli stranieri che accogliamo ‘in transito’ rischiano davvero di restare tutti qui da noi …

Un atto d’imperio da parte di Matteo Renzi in Consiglio dei Ministri, senza consultare gli alleati di governo, necessario non solo alla cassa ed allo status quo, ma soprattutto al sottobosco del volontariato ‘fai da te’: può una onlus ricevere finanziamenti o commesse pubblici se accoglie stranieri ‘rei di clandestinità”?
Secondo i nostri partner europei, ne ‘favoriscono il transito’ verso altre nazioni … alla stregua degli scafisti …

Ebbene sì, anche se Francesco I ha proclamato l’Anno della Misericordia a casa ‘sua ma anche nostra’, gli ‘altri’ potrebbero anche contarcela così e vaglielo a dire che a ‘favorire il transito di irregolari’ c’è un mare di brava gente e pure qualche prete …

 

Demata

Iraq, l’Italia entra in guerra

21 Dic

Secondo Eugenio Scalfari e la Repubblica, “quattro punti definiscono l’intera politica dell’Ue, salvo il tema della guerra all’Is, che Renzi tende ad accantonare per la ragione che lui, cioè l’Italia, a quella guerra militare ha deciso di non partecipare.”

Speriamo che nel giro di pochi giorni il quotidiano più letto dagli italiani, il suo arcinoto ex direttore e, soprattutto, il nostro capo del governo scoprano quello che Analisi Difesa spiega con semplicità: “lo stesso Renzi ha sottolineato più volte la necessità di distruggere lo Stato Islamico.”

“Le truppe italiane in Iraq supereranno tra pochi mesi il migliaio di effettivi con l’arrivo di un battaglione destinato a presidiare la diga sul fiume Tigri a nord di Mosul, contesa aspramente nell’estate del 2014 dalle milizie dell’Isis”.

Per intenderci la diga di Mosul è una sorta di ‘fosso di Helm’ intorno al quale si è combattuto per quasi un anno con l’esercito iracheno in fuga e i terroristi dell’Isis contrastati solo dalle milizie scite e dai droni USA.
Da poco tempo, le milizie curde addestrate dagli italiani e – soprattutto – l’entrata in Iraq di almeno un battaglione meccanizzato turco hanno messo in difficoltà gli Jihadisti, ma la diga è nella migliore delle ipotesi la retrovia di una zona di guerra.

“In termini militari, la disponibilità di un battaglione di paracadutisti italiani (o di altri membri della Coalizione) avrebbe più senso per condurre azioni belliche contro il Califfato, puntando sulla potenza di fuoco e sulla mobilità del reparto, che per proteggere un’installazione fissa dove la presenza di una base dei “crociati” rischia di attirare tutti i kamikaze jihadisti dal Caucaso allo Yemen.”

“L’operazione suscita inoltre perplessità perché finora il governo iracheno ha mostrato ben poca disponibilità ad accogliere forze straniere da combattimento sul territorio nazionale” e “anche le potenti milizie scite irachene hanno reso noto che qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata come una forza occupante”.

Infatti, il controllo della diga è strategico – in termini politici – perchè fornisce acqua e corrente sia a Mosul che a Baghdad, oltre ad fungere da fortezza sul Tigri.

Come anche – riguardo l’appalto da oltre 2 miliardi di dollari affidato alla Trevi di Cesena – il Resto del Carlino scrive che “il gruppo Trevi ha mantenuto per molti anni i rapporti con il Governo dell’Iraq (in particolare con il Ministry of Water Resources), con il supporto del Governo italiano” rammentando che “la notizia era stata data in diretta televisiva dal premier Matteo Renzi sorprendendo in parte anche lo stesso cda del Gruppo Trevi che, a seguito della notizia ha visto schizzare in borsa il titolo del più 25%” …

E che si tratti di un ‘intervento militare’ e degli interessi ‘industriali’ dell’Italia –  non semplicemente ‘di protezione dell’azienda italiana che ha in appalto la ricostruzione della diga’ – è dimostrato dagli oneri per le casse dello Stato con “un costo stimabile in almeno 50 milioni annui senza contare le spese logistiche per schierare mezzi, armi ed elicotteri (finora non schierati in Iraq) necessari ad assicurare i collegamenti ed eventuali evacuazioni”. “Componenti e materiali che innalzeranno ulteriormente i costi dell’operazione Prima Parthica, che quest’anno ha richiesto finanziamenti per 200 milioni di euro”.

Poco male, siamo in guerra e del resto non l’abbiamo dichiarata noi, ma … non aspettiamo che attacchino i nostri reparti per informare la pubblica opinione e, soprattutto, per dare adeguate regole d’ingaggio e ‘reattività’ ai nostri soldati.

Demata

 

 

Balcanizzazione siriana

25 Nov

Hollande continua ad esser solo nella guerra al Daesh in Siria, se gli USA bombardano solo in Iraq per difendere Baghdad e se la Russia attacca solo per garantire a se e agli Alawiti uno spazio ‘vitale’ intorno a Lattakia.

Peggio ancora, per pace e serenità di tutti,  se dalla Turchia passa di tutto in direzione Aleppo ma si abbatte un jet per soli 17 secondi di violazione dello spazio aereo.
Oppure se i ribelli ‘buoni’ hanno appena ricevuto nuove armi e per prima cosa attaccano una troupe di giornalisti russi o se Israele lancia bombe sulle retrovie degli Hezbollah che combattono Isis grazie ai nuovi accordi USA-Iran.

Ci aiuta a comprendere James Dobbins, inviato speciale di Barack Obama: «i negoziati di Vienna devono puntare al cessate il fuoco in tempi stretti per dare modo alla diplomazia di lavorare su una soluzione per la Siria sul modella della Germania 1945» ovvero suddividendola in quattro Stati: curdo nel Nord, sunnita nel Centro, alawita sulla costa e quindi un’«area internazionale» dove ora si trovano i territori occupati da Isis.

Syrian Balkanization

Tenuto conto che gli Alawiti sono Sciti come i Drusi, come che da oltre cent’anni la Turchia ha mire su Aleppo e Lattakia, è facile comprendere che senza patti chiari tra Russia e USA e senza unione tra gli europei si rischia un’estensione delle tensioni ad altre aree di attrito, ad esempio l’Ucraina.

Demata

Guerra a Isis – FAQs

17 Nov

Sospendere Schenghen?
Se sospendono Schengen qui si ritorna TUTTI NOI EUROPEI a viaggiare come 30 anni fa: code interminabili alle dogane, scartoffie illimitate anche per un dottorato, polizia che può espellerti in qualunque momento anche se hai 70 anni e sei in visita dai nipoti … senza parlare del fatto che molti europei del Sud o dell’Est non sono molto distinguibili dai nordafricani e dai mediorientali …

C’è un complotto?
In Europa la guerra è un tabù dal 1944, in USA dai primi Anni ’70 e così fin dai tempi dei Russi in Afganistan molti di noi hanno preferito vedere le bombe sganciate ma non gli acquedotti e gli ospedali da noi creati e difesi. I milioni di profughi disperati ma non gli aguzzini che li mettevano in fuga. I traffici loschi delle nostre compagnie, ma non il denaro straniero che le corrompeva.
Probabilmente una mera questione di share televisivo a cui tutti abbiamo contribuito.

Quanto ad Al Baghdadi ed i suoi rapporti con gli USA … teniamo conto che quando si commette una vera dabbenaggine la tendenza di tutti è quella di dare la colpa a qualcosa o qualcuno?
Come anche potremmo tutti iniziare ad ammettere che da trent’anni e passa gli unici ad averci visto giusto con certi macellai sono stati i Russi.

E l’Europa?
Almeno qui da noi, pochi si sono premurati – da una 30ina d’anni a questa parte – di capire come poteva funzionare.
Ad esempio, come la mettiamo – visto che siamo ‘tutti francesi’ e pure marsigliesi – quì in Italia dove c’è una teocrazia? E chi l’ha detto che i Poveri – senza la Misericordia e senza la Carità – inevitabilmente finiscono ‘vittime /servi del Maligno’, cioè della Jihad (o delle mafie o del degrado)?
Quanto alle ‘regole comuni da rispettare’, siamo tutti d’accordo che basta il pentimento senza le buone azioni per ottenere il perdono?
Sarà difficile essere ‘unione’ se le nostre Accademie non smetteranno di discutere del sesso degli angeli con i turchi alle porte, come accadde a Bizanzio solo cinquecento anni fa.

C’è un Islam ‘mondiale’?
No, non c’è un Islam ‘mondiale’ come non c’è un Cristianesimo ‘mondiale’ o un Buddismo ‘mondiale’. E prendiamo atto che persino il Papa viene seguito alla lettera da forse un centinaio di milioni di persone, forse anche meno … più o meno tanti quanti i sunniti che ascoltano l’Imam di Mubai in India.

Dunque, è difficile parlare – per ora – di uno scontro ‘frontale’ tra religioni … a meno che da un lato non si voglia mettere Yul e Sparta e dall’altro Iside e Babilonia.

Arrivando ai sunniti europei, va rilevato che Francia e Belgio hanno offerto /preteso un’integrazione dei propri migranti molto rigida dal punto di vista culturale quanto disattenta per i diritti civili più elementari che ha notoriamente alimentato il disagio giovanile e l’infiltrazione dei jihadisti ed il reclutamento. Vent’anni fa l’Odio delle Banlieues in fiamme, oggi la Jihad nelle metropoli.
D’altra parte se, in nome della fratellanza e dell’uguaglianza, si tratta da troglodita chiunque non la veda allo stesso modo … non è che moderazione, dialogo ed integrazione ne beneficiano.

Diversa sembra essere la situazione in Gran Bretagna e nel nord dell’Europa, vuoi per la forte presenza di sciti vuoi perchè tanti sunniti non sono di origine araba o nordafricana vuoi anche perchè lì ognuno – nobile o bifolco che sia – ha il diritto – in privato e solo in privato – a campare come gli pare. Similmente dovrebbe esserlo anche l’Europa mediterranea, dove però i flussi migratori sono ormai insostenibili.

La Jihad?
Wahabismo arabo e Salafismo maghrebino sono due culti islamici che si sviluppano fuori dai contesti urbanizzati ‘contro’ la corruzione  e la decadenza dei costumi sopravvenute dopo la Golden Age dei Califfati, ma anche … con l’intento da parte dei ‘moralizzatori’ di razziare e/o impossessarsi dei flussi commerciali.
Da questi due culti nasce la Jihad moderna contro i ‘miscredenti’, a partire dai sunniti locali e finendo agli aborriti Sciti, passando per gli Occidentali e ‘lasciando in pace’ Israele che – dal loro punto di vista – è un ghetto perfetto.

La Scia ‘iraniana’ – viceversa – sorse subito dopo la morte di Maometto e prevedeva una teocrazia semitemporale non molto dissimile da quella cattolica romana con corrispettiva attenzione all’educazione e al sociale. E non è solo ‘iraniana’ se in 50 milioni di indiani sono sciti … come lo sono una parte dei curdi …
La Jihad scita – a differenza di quella ‘moderna’ dei terroristi – è rivolta verso il conflitto israelo-palestinese e verso i Sauditi che ruppero l’unità dell’Islam.

Esiste un mondo arabo ‘moderato’?
Esisteva … quando c’erano i vari Saddam, Assad, Bourghiba, Arafat … ma, oggi, molti sono gli stessi che fanno ottimi affari (per loro) nelle Borse occidentali, mentre qualche loro cugino invece di finanziare una squadra di calcio investe la propria parte di proventi in un miniconflitto locale …
Bene a sapersi che buona parte della Jihad ha poco o nulla a che vedere con gli Arabi: sono maghrebini, postsovietici, pakistani o pashtun, indonesiani, nigeriani, somali, egiziani ed … europei, come i giannizzeri e i ghazi di cui si parla tanto.

Inoltre, ogni credente risponde prima al dio in cui crede e solo dopo al rappresentante della sua fede.

Infine, ricordiamoci che il degrado sociale e il white trash non piace prima a noi, come non ci piacciono due generazioni di morti per droga, alcool e ‘vita al massimo’ oppure ettari ed ettari di discariche fumanti di plastica e tossine. Figuriamoci a loro …

La guerra?
Intervenire da terra significa … la mattanza di civili che ci sarà se attaccheremo Mossul, ovvero se faremo sul serio, e tutto quello che ci sarà dopo, visto che sia la città sia tutto quello che c’è fino ai confini turchi e iraniani è un territorio ricco quanto conteso. E senza Mossul e Kirkuk il Daesh resta semi-intatto.

La reazione che ci ritroveremo con gli attentati nelle nostre città?  … l’Europa è sopravvissuta a fenomeni terroristici ben più ampi e radicati. Il guaio vero sarà quando dovremmo sistemare le Borse ed i capitali arabi che ci girano.

Far la guerra per noi italiani significa anche intervenire in Libia (ai confini della Siria ci siamo già) e nelle retrovie di qualche stato limitrofo quando Isis si ridislocherà … in teoria fino all’Equatore. Meglio dopo il Giubileo, che è aperto anche ai Musulmani ‘in nome del dio unico’ …

Dunque, il vero problema (o la fortuna) è che per fare sul serio … c’è da attendere le elezioni presidenziali in USA e Francia … sempre confidando nel buon senso di tutti … visto che se Obama esita, c’è Hollande che vorrebbe capitanare di fretta e furia una rediviva Crociata proprio dove persino i russi e gli iraniani esitano ad intervenire in forze senza un progetto lungimirante …

Demata

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