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M5S: parole e fatti

3 Giu

Che piaccia o meno, il Movimento Cinque Stelle rappresenta circa un italiano su dieci, ha evitato un astensionismo iperbolico alle elezioni politiche, la base del suo consenso è composta da elettori che, dinanzi allo sfascio, si sono in qualche modo rimboccati le maniche e stanno cercando di ‘capire’.
Un elettorato probabilmente molto più moderato – ma anche esasperato – di quanto pensino i sondaggisti, che, per altro, ancora non sono riusciti a scrutare il buco nero degli astenuti, ormai oltre il 40% e non attratti nè dai partiti tradizionali nè dal sorgente M5S o dall’ultra Destra.

Purtroppo, quello che è accaduto finora appare come un secco rifiuto a considerare una forza politica comunque rappresentativa di una parte del popolo italiano, nonostante l’inesperienza politica, dopo il tentativo di ghettizzarli tra i fenomeni da baraccone e da intrattenimento, come ottusamente si fece ‘a sinistra’ durante la campagna elettorale, non intravedendo dietro il ‘comico’ Grillo l’addensarsi del proprio elettorato scontento.

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In realtà, molti sono i distinguo che andrebbero fatti.

Innanzitutto, la figura di Beppe Grillo, demiurgo nelle piazze, anche grazie ad una collaudata professionalità come attore che interpetra il ruolo di sboccato fustigatore del malcostume. Il ‘super-demagogo’ di cui la dottrina politica congettura e scrive da oltre un secolo?
Forse si, ma cosa dire allora del ‘super-venditore’ Berlusconi, del ‘super-affabulatore’ Vendola, del ‘super-buono’ Veltroni, del ‘super-trasformista’ Casini?

Non possiamo stigmatizzare Beppe Grillo – e va fatto – se le sue urla, le sue invettive, il suo fondersi con il pubblico (pardon, popolo) fanno parte del corredo di bassa macelleria politica che i tribuni usano da quando esiste Roma.
Non possiamo, non sarebbe corretto farlo, se non a patto di imporre a Silvio Berlusconi quel confronto pubblico che è necessario a trasformare uno spot pubblicitario in un’opinione e in un conseguente dibattito. O di pretendere un traduttore che trasformi quanto dice Nichi Vendola in cose semplici da fare e attuare od uno storico che spieghi a Walter Veltroni che fine hanno fatto le sue ‘buone intenzioni’ oppure un cartografo che ci informi costantemente di Pier Ferdinando Casini e di quale sia la sua posizione.

E, comunque, l’ululare grillino ‘piove, governo ladro’ avrebbe sortito un così ampio effetto, se il giorno dopo qualcuno fosse andato a lì a dimostrare che la politica non è ladra e si preoccupa della gente?
Probabilmente, no.

Quanto alla pochezza delle proposte dei parlamentari M5S – fatto ahimé conclamato – va constatato che anche Berlusconi è costretto a fermarsi agli spot – anche se nei dibattiti se la cava benissimo – perchè il suo partito sembra ormai un confuso arcipelago di lobbies, per non parlare degli arcipelaghi e dei ‘ma anche’ di cui la storia della Sinistra è una sorta di manuale o del constatare che più ‘piuma al vento’ dei nostri cattolici e/o moderati non sembra esserci nessuno.
Basti dire che sono quattro mesi che abbiamo votato e, con l’urgenza che c’era, non sono riusciti a scrivere un rigo di legge in Parlamento per cambiare una regola una.

Dunque, le chiacchiere stanno a zero ed è di questo che i nostri media dovrebbero parlare, ma non possono farlo perchè – dopo i pareri di (in)costituzionalità – non c’è una legge elettorale che permetta di tornare alle urne, dopo aver svelato l’insostenibile leggerezza dell’essere, intrinseca nel Governo Letta. Oggi, domani e per i prossimi 18 mesi.

Attaccare tutto il sistema politico sarebbe, dunque, un suicidio collettivo, visto che non ci sono exit strategies e non siamo una repubblica presidenziale, come in Francia, o federale, come in Germania, od una monarchia costituzionale come in mezza Europa.
Attaccare solo Beppe Grillo potrebbe rivelarsi, viceversa, un disastro, se si ragiona su un arco di tempo lungo due anni. Una campagna così massiva avrebbe l’effetto di delegittimare ulteriormente i media, già ingessati tra par condicio, manuali Cencelli, lobby e comitati, editori e sponsor vari.

Trasformare l’opinione pubblica (di cui fa parte anche e soprattutto la Rete) in un campo di battaglia, incrementerebbe un ‘iter comunicandi’ del sistema mediatico che, finora, ha generato astensionismo e voto di protesta. Specialmente se anche i bambini sanno che la RAI è lottizzata, Mediaset è del Presidente del PdL, tanta stampa fa capo al Gruppo Messaggero L’Espresso, cioè La Repubblica.

Tra l’altro, litigare con Stefano Rodotà – ‘vicino’ a SEL e CGIL – ci può stare, se nei termini del reciproco rispetto, ma con la Gabanelli no.
Proprio non ci siamo; già l’infrastruttura telematica del blog di Beppe Grillo non brilla nè per sicurezza della privacy degli iscritti nè per la democraticità del dibattito: una sbirciatina ai conti ed alle infrastrutture societarie era dovuta.

Un gioco al massacro in cui Beppe Grillo va a nozze, però, visto che gli permette di mantenere il controllo su un elettorato che crede nel ‘movimento’ ma diffida per natura dei ‘padri putativi’ e di attendere, speranzoso, l’arrivo di un personale politico all’altezza della situazione.
Infatti, è evidente anche agli occhi dei leader del M5S che buona parte degli eletti non è all’altezza del compito e della situazione, a partire dal veto a rilasciare interviste o partecipare a trasmissioni, dopo che, ai primi outing, s’era capito che ognuno parlava per se e non a nome del movimento e che la conoscenza delle (vituperate) istituzioni era poca ed imbarazzante.

Una pochezza della compagine eletta che è dimostrata da un banale dato politico: bastano dieci onorevoli o senatori per creare un – più o meno opportunistico – gruppo parlamentare ed ancora meno per sommergere Camera e Senato di proposte di legge ed emendamenti.
Dunque, tocca a Beppe sparare alzo zero ed ottenere pan per focaccia dai media, dato che è davvero incredibile che non ci siano, sul tavolo di Grillo e Casaleggio come su quello di Boldrini e Grasso, le proposte di riforma, le bozze di legge che il Movimento intende attuare.

Nulla di nuovo sotto il cielo, lo stesso toccò e tocca fare a Silvio con le sue spot-proposte, visto che la sua (ex) maggioranza ed il suo (ex) ministro Giulio Tremonti non riuscivano a tessere accordi che andassero oltre il puzzle indecifrabile, tant’erano spinte e pressioni. Cosa non diversa accadde a Romano Prodi e Tommaso Padoa Schioppa con quell’origami chiamato Ulivo ed un governo che andava dal centro liberale e cattolico ai nostalgici del comunismo.

Nel caso del Movimento Cinque Stelle, però, non si tratta di interessi reconditi o incofessabili, ma solo di un patch work, finora incompleto, che una generazione di under quaranta (tali sono gli eletti del M5S) sta tentando di ricomporre solitariamente da zero.
Una generazione cresciuta con una televisione ‘all’americana’, che ha assimilato sistemi e soluzioni anglosassoni, ma non ha una costituzione emendabile, un sistema giudiziario celere e, soprattutto, contiguo alla politica, una Common Law ed un sistema federale.

Un fenomeno ormai radicato che viene alimentato dagli stessi media che ‘attaccano’ Beppe Grillo. Un’Italia che è connessa, che spende negli ipermercati, che canta con il karaoke, che vede film e serie americani in TV.

Dunque, esiste una sola soluzione a questo stato di cose: che Beppe Grillo faccia un passo indietro e che lo ‘stratega’ Gianroberto Casaleggio ne faccia uno avanti, mentre i media iniziano a prendere sul serio un movimento che inizi a darsi una gerarchia comunicativa ed una immagine propositiva almeno verso la pubblica opinione.
Che il movimento diventi partito: non è solo una questione di (in)elegibilità di Beppe Grillo. Non commettiamo di nuovo l’errore del movimento Italia dei Valori, ormai al lumicino e pochissimo tempo fa stimato oltre l’8%.

In caso contrario, comunque resteremmo nello stallo attuale, con una parte di noi che sogna l’America, un’altra inderogabilmente giacobina e un’altra ancora profondamente rurale e che non disdegnerebbe un peronismo od una teocrazia.

Non è una questione astratta, anche se rinviata al prossimo anno: l’Italia deve riformare le proprie istituzioni e ristrutturare la propria spesa pubblica.
Il Movimento Cinque Stelle dovrà pur dire la sua e dovrà scegliere se aggiungersi a coloro che non vogliono il cambiamento oppure farsi opposizione propositiva e costruttiva.

Alla prova dei fatti, all’appuntamento con i passaggi legislativi, non ci si può arrivare lanciando parole al vento.

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Arriva un governicchio di larghe intese?

23 Apr

Giorgio Napolitano resterà in carica finché avrà forze e, poi, sferza i partiti: «Voi, sordi e sterili, non autoassolvetevi» ed i partiti, tutti, applaudono in piedi come se i rimproveri fossero per i rivali.

Stamane, su Omnibus di La7, giusto per far finta di nulla, Rosa Maria Di Giorgi (assessore PD a Firenze) continuava a parlare di ‘difficoltà di Bersani’, di ‘svolta del Capranica’, di ‘debacle orrenda’ del M5S nel Nordest, di ‘dirigenti’ che non devono farsi influenzare dalla Rete, di non confrontarsi con la base … che la fiducia è d’obbligo se il partito lo decide.

Intanto, Serracchiani vince per un pelo in Friuli Venezia Giulia, che non è una regione rappresentativa degli equilibri nazionali, Renzi è stracorteggiato, ma fino ad oggi ha amministrato solo una piccola città come Firenze, SEL appare fortemente egemone sull’ala sinistra del PD, ma in Parlamento sono tanti gli eletti che arrivano dalla nostra famigerata Malasanità, alla Camera siedono circa 100 democratici che arrivano dall’apparato di partito, alla faccia delle Primarie.

Inoltre, non sono solo Travaglio & Santoro a sospettare che PD e PdL non siano l’un l’altro opposti, ma semplicemente complementari, con la conseguenza che il Centrodestra liberale è incatenato dalla stagnante componente populista ed il Centrosinistra riformista non ha voce in un’eterna campagna elettorale che privilegia i consensi gauchisti e sindacal-azionisti.

Dunque, in questa situazione, va bene qualsiasi governo, con il rischio di vederlo impallinato al primo incrocio o bivio dal qualche fazione democratica? Oppure serve un governo di larghe intese che accetti la Rete come principale vettore di informazioni e di conformazione della pubblica opinione, ma, soprattutto, tenga in debito conto che l’azionista di maggiornza è il PD, ma anche che il controllante è il PdL?
Oppure vogliamo proporre ai cittadini un Giuliano Amato, sconosciuto a chi abbia meno di 40 anni, tesoriere di ‘quel Partito Socialista Italiano’, massacratore delle nostre pensioni e del Titolo V della nostra Costituzione, nonchè prelevatore patrimonaile dei nostri conti?

Il Patron del futuro governo è il Popolo della Libertà, il padrino è il Partito Democratico: non facciamoci abbagliare dal il fatto che una componente parlamentare sia più numerosa dell’altra, grazie agli artifici del Porcellum.

E smettiamola, a sinistra, di pensare che quanto detto in televisione sia ‘reale’ e che quanto circoli in Rete sia ‘passatempo’. Piuttosto, è il contrario. Inoltre, se il mezzo televisivo permette allo spettatore l’unica possibilità di cambiar canale – cosa del tutto inutile se andiamo avanti da anni con talk show partitici a reti unificate – va considerato che in Rete l’utilizzatore va puntualmente a cercarsi le notizie secondo l’approccio che ritiene più verosimile.
Se i talk show politici diventano intrattenimento partitico, il ‘passatempo’ è in TV, le notizie sono in Rete: è inevitabile che sia così.

Inoltre, l’idea fissa dei democratici ‘a confrontarsi con i sindacati’ appare piuttosto bizzarra -ai nostri giorni – se il persistere della Crisi è causato dall’over taxing che la sinistra pretende da anni, dal suo profondo legame con gli apparati pubblici, dalla diffidenza verso il mondo imprenditoriale e la libera iniziativa, dal basso o bassissimo livello di istruzione e di formazione professionale di tanti attuali inoccupati (manovali, camerieri, banconisti, padroncini, artigiani e operatori di basso livello, eccetera), dal limitato ruolo delle donne nella nostra società, dal famigerato Patto di Stabilità interno di centralistica e statalista memoria.

Difficile credere che la situazione attuale del Partito Democratico possa essere superata senza una chiara e profonda scissione tra la componente social-liberale delle elite metropolitane, quella cattolico-populista dei mille campanili di provincia e quella gauchista ondivaga ed il suo elettorato di lotta e di governo, attualmente ‘in carico’ a SEL ed M5S.

Far finta di nulla o, peggio, paventare ai cittadini un governicchio di ristrette intese servirebbe solo ad accentuare la sfiducia degli elettori e la rabbia dei cittadini.
A sentire i Democratici – in nome dell’emergenza, si badi bene – serve uno ‘scatto di responsabilità’ da parte del PdL e che per loro si tratta solo di ‘un cammino altanelante’, mentre i conti del governo Monti-Bersani iniziano a non tornare, serve una nuova manovra, c’è cenere sotto il tappeto, le politiche di Elsa Fornero sono palesemente un disastro, l’IMU e la TARES sono de facto delle patrimoniali.

Un governo Monti fortemente voluto da Eugenio Scalfari che, come ricorda Verderami del Corsera, si è rappresentato come un’anomalia fin dall’inizio, dal novembre 2011, quando, invece di sciogliere le Camere, Giorgio Napolitano nominò senatore a vita Mario Monti per poi indicarlo come premier di un ‘governo del presidente’ e per poi ritrovarselo come leader di partito.
Un semipresidenzialismo di cui non v’è traccia nella Costituzione, un dirigismo di cui non v’è traccia nella storia nazionale, salvo il primo gabinetto Mussolini indicato direttamente dal Re. Un errore ed un equivoco che persistono e che ‘il popolo bue’ percepisce ampiamente.

Intanto, il Financial Times scrive, oggi, di “Napolitano gigante di Roma tra i nani della farsa italiana”. Purtroppo, i nani non leggono l’inglese e la ‘base’, per loro, sono solo quelli che incontrano in piazzetta o nel salotto buono …

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Il governo del Presidente, ma anche di Grillo e Berlusconi

22 Apr

Riconfermare Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica era ormai l’unico sistema per evitare l’automatico passaggio all’opposizione del centrodestra e, soprattutto, dei moderati liberali o popolari o democratici che fossero.
Il motivo è semplice: l’aver lasciato al M5S la candidatura di Stefano Rodotà, anzichè avanzarla per primi e giocare in contropiede con ambedue le opposizioni, comportava il ritorno ‘automatico’ di Bersani alla strategia di co-governo con il movimento guidato da Beppe Grillo con un Matteo Renzi probabile premier.

Una contraddizione in termini. Come quella di riciclare nel patto per il bene comune’ con il PdL due noti nomi (Marini e Prodi) pur di evitare il Quirinale a Massimo D’Alema, che era con il PCI dall’inizio, che ha voluto la svolta centrista e che non era sgradito al Centrodestra.
In tutto questo, non c’è due senza tre, aggiungiamo la follia degli Otto Punti inderogabili, sui quali convergevano abbondantemente i programmi di Grillo e di Berlusconi, rimesti precisamente nel cassetto.

Peccato per Stefano Rodotà, che questo blog aveva già segnalato un mese fa. Troppo innovativo per una concezione dell’apparato amministrativo e contabile pubblico, che risale ad oltre 100 anni fa, e per una generazione che è passata con grande facilità dal Fascismo alla DC ed al PCI, tanto INPS, Corporazioni e IRI erano ancora tutti lì.

Dunque, il Parlamento che Napolitano – ed il Premier da lui scelto e si spera votato – dovranno gestire sarà dei più etereogenei possibili, con un centrodestra forte e compatto, quasi determinante al Senato, e con un M5S che potrebbe fare la differenza, nel bene e nel male, se i suoi eletti dimostreranno di avere la metà della capacità politica di cui dovranno aver bisogno.

Infatti, vista la situazione di ‘pericolo di crollo’ del PD, è più che opportuno che il Presidente eviti di scegliere personalità di quel gruppo parlamentare o ad esso collegate, onde non vincolare il governo a polemiche interne al Partito Democratico. Come anche, vista la situazione del sistema partitico e parlamentare, sarebbe opportuno scegliere dei profondi conoscitori di quel mondo con provate capacità di mediazione ed un comprovato senso dello Stato. Ad esempio, Gianni Letta o Emma Bonino.

Una premiership da affidare in fretta e senza incappare in ‘sorprese’, come ci ha abituati Mario Monti, dato che Scilla e Cariddi si profilano all’orizzonte.
Da un lato, l’imminente rischio di spacchettamento del centrosinistra in cristianosociali, cristianoliberali, socialisti, comunisti, post comunisti, verdi, ambientalisti, demoliberali, socialdemocratici, popolari.
Dall’altro, l’evidente necessità che servano sia i voti di Grillo sia quelli di Alfano, se vorremo una legislatura di almeno un annetto e delle buone riforme, nonché un tot di fiducia dall’estero e di ossigeno per il paese. Il rischio che qualcuno pensi di avvantaggiarsi dalle urne è elevato.

Riuscirà il Presidente Reloaded di questa strana Matrix all’amatriciana, l’ancora nostro Giorgio Napolitano, a scegliere la carta fortunata, anzichè l’asso di picche?

Speriamo di si, il lavoro dei dieci saggi si rivela, oggi, un fattore accelerante e migliorativo.
Un altro fattore “accelerante e migliorativo”, probabilmente del tutto inderogabile, è la nomina di senatori a vita di Berlusconi, Prodi, Marini, Pannella e Rodotà (come anche Bonino se non avrà incarichi di governo). I primi tre per evitare che in un modo o nell’altro continuino a condizionare, fosse solo con il oro passato carisma, la vita dei partiti e del parlamento; gli altri tre per iniziare a pacificare il paese, riconoscendo a quel partito radical-liberale di Mario Pannunzio il dono dell’onestà morale e della lungimiranza, come per tutti i minority report alla prova del tempo.

Adesso, serve un governo del Presidente, un governo di larghe intese, di unità nazionale e finalizzato ad un programma, in cui un contesto generale in cui il PdL eviti l’abbraccio fatale con il Partito Democratico, aprendo sui punti di convergenza comune al M5S, che dovrà abbandonare certe formule populiste, visto che ormai il Movimento di Beppe Grillo è determinante per le istituzioni di cui l’Italia ha febbrile bisogno.

continua in -> Partito Democratico, pericolo di crollo

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Il PD non c’è più, pericolo di crollo

22 Apr

Se Eugenio Scalfari riesce ancora a parlare di ‘motore imballato’ dinanzi a quell’ammasso di ferraglia, gomma e vetro che il Partito Democratico è riuscito ad esibire in un mese di follia, l’esigenza di rottamazione annunciata da Matteo Renzi appare più come una presa d’atto che come una proposta.

Nessuno “prevedeva che il Partito democratico crollasse su se stesso affiancando la propria ingovernabilità a quella addirittura strutturale del nuovo Parlamento”, scrive nel suo domenicale il fondatore di la Repubblica, ma i segnali c’erano tutti a volerli vedere.

A partire dalle esitazioni ad intraprendere scelte difficili quando la Sinistra era nel governo e nel fare vera opposizione quando non lo era. Parliamo di un’enormità di leggi, che il Partito Democratico non ha mai portato avanti, come il conflitto di interessi, la durata dei processi, le leggi sui sindacati, i servizi pubblici esternalizzati o convenzionati, il welfare tutto, le coppie di fatto, le carceri, la depenalizzazione, gli immigrati, gli sgravi e le premialità aziendali, un piano infrastrutturale, la Casta, i super stipendiati e pensionati, i trasporti, le mafie, la legge elettorale.

Tutte esigenze dei cittadini  che a vario titolo il PD ha escluso dalla propria agenda e dalla propria fattività.

Difficile, dunque, parlare di un partito a base popolare, specialmente se lo sanno anche i bambini che alle Primarie c’è sempre un ‘candidato del partito’ e che erano già sicuri di avere la maggioranza alla Camera con il 30%, mentre si tentava di cambiare il Porcellum in extremis.
Eh già, il Porcellum. Cosa dire adesso che è sotto gli occhi di tutti che il suo mantenimento non era vitale per il Centrodestra, che sapeva già di non vincere le elezioni e che il super premio sarebbe andato al Partito Democratico.

Una riforma elettorale che non conveniva al Partito Democratico per troppi e tanti motivi.
Come la concomitante abrogazione dei comuni con meno di 10.000 abitanti e delle province con meno di 3-400.000 abitanti, dove si può contare un’ampia presenza di ‘democratici’.
Come l’istituzione di uno sbarramento serio e del ballottaggio che avrebbe provocato la definitiva frantumazione delle correnti ‘democratiche’.
Come l’eliminazione delle liste bloccate ed il rischio che tanti big e capibastone non ritornassero in Parlamento, oltre a delle Primarie effettive se da Partito unico si diventa variegata Coalizione.

La blindatura a nido d’aquila del Partito Democratico, dei suoi vertici e del suo apparato dovevano e potevano suggerire, a chi la politica la segue da tanti anni, l’esistenza di crepe e fraintendimenti ormai irreversibili.

Un manifesta percepibilità della scollatura ‘democratica’ che il ventre del ‘popolo bue’, a differenza di tanti saggi, aveva già ampiamente percepito. Un problema che, se percepito, avrebbe dovuto far temere una vittoria ‘eccessiva’ che avrebbe comportato il pervenimento alla Camera di circa 200 neoparlamentari democratici, del tutto disorientati tra una Rete che spesso usano davvero male e ancor meno comprendono, un Partito che decide le cose ‘a prescindere’ e secondo imperscrutabili strategie, la propria ambizione e la relativa competenza che mal si conciliano con i sacrifici e le professionalità che l’Italia reale riesce ancora a garantire.

Questi sono solo alcuni dei segnali che potevano lasciar presagire la situazione di incapacità politica che il PD ha mostrato finora.
Adesso, il Partito Democratico non c’è più, il segretario Bersani è dimissionario, il Congresso da convocare a giorni non è stato ancora annunciato, la Presidente Rosy Bindi che lo doveva convocare è dimissionaria dal 10 apirle.

Motore imballato, tutto quì, dottor Scalfari?

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Perchè Rodotà al Quirinale?

18 Apr

Esattamente un mese fa, in questo post passato inosservato, si spiegava quali fossero le ragioni per un’ampia convergenza sul nome di Stefano Rodotà come presidente della Repubblica.

“Il Partito Democratico, se proprio volesse dimostrare di aver chiuso con il proprio passato comunista – che ricordiamo essere un anelito totalitario ed illiberale – non dovrebbe fare altro che ricordarsi che Stefano Rodotà potrebbe essere la persona giusta al momento (storico) giusto.

Un personaggio figlio della minoranza etnica arbëreshë, che nasce politicamente nel Partito radicale di Mario Pannunzio, sempre indipendente, che per lungo tempo ha fatto parte della Commissione Affari Costituzionali.
Tra l’altro, se proprio volessimo parlare di modernità e di nuovi diritti, Rodotà è stato il primo Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, mentre dal 1998 al 2002 ha presieduto il Gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell’Unione Europea.
Inoltre, il 29 novembre 2010 ha presentato all’Internet Governance Forum una proposta per aggiornare la Costituzione Italiana, inserendo: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”.

Un personaggio stimato nel mondo e noto per equilibrio e lungimiranza, sul quale potrebbero arrivare, senza particolari sforzi, i voti dei Montiani e del M5S.
Un uomo che rappresenterebbe non il fantasma di “un’Italia giusta”, ma il futuro di “un’Italia diversa”, l’Italia 2.0, che esiste già.
Stefano Rodotà compie 80 anni a maggio, questo l’unico limite, ma, anche se ‘durasse’ 3-4 anni e volesse ritirarsi prima, difficile immaginare una soluzione migliore. Ci facciamo un pensierino?”

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L’Italia perde tempo

2 Apr

Si perde tempo, l’ha detto Angelino Alfano, in un dichiarazione che suona come una presa d’atto a nome di tutti gli italiani, piuttosto che un’opinione personale.

Si perde tempo e se ne perde tanto, tantissimo, se, ad esempio, la giunta PD-SEL-M5S della Regione Sicilia blocca i lavori nella base militare di contrada Ulmo, pilastro del nascente Mobile User Objective System, il sistema di difesa satellitare USA – proprio mentre Obama porta a casa un accordo tra Israele e Turchia, sostanziale per l’assetto del Mediterraneo.

Come ne stiamo perdendo davvero tanto, in Europa, se l’India pretende di processare soldati italiani e tedeschi, proprio mentre assolve largamente un contingente di propri militari, resosi colpevole di stupri, violenze ed omicidi in missione di peacekeeping in Africa.

Si perde tempo se, rifiutandosi di formare un governo (il Pd con il PdL ed il M5S con il PD), i nostri destini sono procastinati a luglio prossimo, con un governo dubbiamente prorogabile – quello di Mario Monti – che è limitato all’ordinaria amministrazione, ma dovrà far fronte ad una situazione eccezionale.

E nel Governo Monti sta la chiave di volta della strategia del Partito Democratico, obnubilato dai 200 parlamentari ‘che non sarebbero lì’ se non esistesse un premio di maggioranza spropositato, mentre tra gli altri almeno cento sono parte dell’apparato.

Andare al governo con il Popolo della Libertà comporterebbe diverse conseguenze ‘sgradite’, che sarebbe meglio lasciar fare ad un governo transitorio ed un presidente che accondiscenda a qualche strappo alle regole, visto che non si tratta di amministrazione ordinaria:

  1. una legge elettorale che recepisca sia il ballottaggio, sia il senato federale, sia il presidenzialismo, sancendo la fine del bipolarismo e del parlamentarismo;
  2. una riforma della Autonomie Locali, sopprimendo province e comuni sotto i 10.000 abitanti, azzerando un’infrastruttura partitica (ed una tradizione di polemisti da bar dello sport) che ci portiamo dietro dal Dopoguerra;
  3. la riforma della pubblica amministrazione, alla quale, per ovvi motivi, dovrebbe conicidere una serie di leggi sui sindacati, sulla separazione delle carriere, sull’introduzione di un sistema di bilancio ‘europeo’, sui servizi che il Servizo Sanitario Nazionale va a garantire ‘comunque’;
  4. una riduzione della leva fiscale e l’introduzione dei diritti di cittadinanza.

Tutte leggi che il Partito Democratico preferirebbe facesse qualcun altro, ma ponendo i suoi veti,  che il  Movimento Cinque Stelle sosterrebbe anche volentieri, ma che il protagonismo di Grillo impedisce, che il Popolo della Libertà voterebbe, se non fosse per i guai giudiziari di Silvio Berlusconi.

Nessuno che prenda nota del detto anglosassone per il quale se non si è un vincitore, allora non resta che prendere atto di essere un perdente.

Intanto, i dati congiunturali sconfessano la manovra elettorale del Partito Democratico, iniziata da mesi sotto la spinta di SEL e della CGIL, in nome dell’emergenza sociale: la disoccupazione registra, sddirittura, un lieve calo. Sono i giovani a preoccupare con un congruo numero di senza lavoro (37,8%), principalmente donne.

E, se parliamo di giovani e di occupazione, la soluzione non è certo prolungare l’età pensionabile, mantenere una pubblica amministrazione elefantiaca, senza investire in infrastrutture, formazione e produttività. Come il ‘modello’ non può essere di certo quello di Romano Prodi, additato -in Italia come all’estero – come uno dei padri del disastro Eurozona ed eternamente in batteria per un posto al Quirinale.

Siamo sicuri che i circa 200 deputati del Partito Democratico, che sono lì grazie al Porcellum, vogliano davvero tornare a casa con un flop del genere per sperare in una riconferma delle urne?
E cosa staranno pensando quelli del Movimento Cinque Stelle, che potrebbero non contare, alle prossime elezioni politiche, di quei 5-6 milioni di voti arrivati per protesta?
O, parlando di stabilità ed Europa, che qualcuno si sia accorto che, se PdL+Lega+Scelta Civica avessero corso coalizzati, non staremmo neanche a discutere di governi e governicchi?

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Basta liti, iniziamo a dialogare

30 Mar

Il Corsera di oggi scrive che “rigido si è rivelato il centrosinistra, con un Sel fermo a insistere su un mandato pieno a Bersani, per una sfida in Senato su una incertissima fiducia. Ma sulla stessa linea era anche il gran corpaccione del Partito democratico, con eccezioni ancora piuttosto timide”.

“Con tutti i partiti ostaggio di interdizioni reciproche, provocazioni, bluff, rimpalli di responsabilità e, insomma, prigionieri di quelle pregiudiziali e quei «troppi no»”, … se Napolitano “dovesse decidere di lasciare, fino a quando non sarà eletto e insediato il dodicesimo capo dello Stato”, i suoi poteri passeranno nelle mani del «supplente», il presidente del Senato Pietro Grasso.”

Ci presentiamo alla riapertura delle Borse con Pietro Grasso, presidente facente funzioni, e Mario Monti premier in proroga per l’ordinaria amministrazione? Con l’intenzione di restarci per mesi, mentre si litiga prima per chi sarà il futuro presidente della Repubblica e dopo per chi governerà, eventualmente, per un annetto e basta, in modo da riformare la politica ed andare a votare di nuovo?

Tra l’altro, le eventuali dimissioni di Giorgio Napolitano – dopo le sue esitazioni a sciogliere le Camere quando i Finiani tolsero la fiducia al Governo Berlusconi e lo smaccato errore nell’individuare Mario Monti come premier ‘salva Italia’ – rappresentano esattamente il ‘segnale che non va dato’ all’estero come in homeland: l’inizio di una crisi politica di lungo termine per una delle prime economie mondiali.

E per quale motivo i 7 miliardi e rotti di cittadini ‘esteri – con le loro banche, aziende, pubbliche amministrazioni, eccetera – dovrebbero star lì, gentimente, a guardare, aspettando che qualche nuovo trasformismo o qualche conduttore ripristinino le funzioni essenziali del sistema Italia, momentanemente affidate ad un ex magistrato ed un ‘banchiere’?

E’ finita l’epoca dei ‘ma anche’: è l’ora degli uomini di ‘buona volontà’. Questa la Via Crucis di Giorgio Napolitano.
C’è un Paese da rifondare, basta liti, iniziamo a dialogare.

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Bersani – PdL, un accordo (im)possibile?

28 Mar

In questo scorcio di XVII Legislatura – chi diceva che il numero 17 porta male? – sono tanti e troppi i dati, accertati o stimati, che ci raccontano un’Italia molto diversa da quello che ci era stato descritto da sondaggi, statistiche, slogan di partito, giornali e televisioni, chiacchiere da forum o da bar.

Ad esempio, il dato – sorprendente per gli elettori di sinistra – di un Partito Democratico, che vede tra gli eletti molti ex-democristiani e (molto) pochi ex comunisti, socialisti, verdi, radicali e tutto quanto abbia anche marginalmente aderito al modello socialdemocratico.
E’ ovvio che l’elettorato di sinistra, sempre più marginalizzato, oggi si comporti come una mandria impazzita o come un mulo impuntato, cercando altrove soluzioni che non esistono.

Altra singolarità del PD è che almeno un terzo, forse la metà, dei sui eletti sono professionisti della politica.
Che essi debbano esistere è sano e fisologico, dato che ‘strateghi e logisti’ specializzati in regolamenti, bilanci e leggi son sempre necessari. E’ abnorme che siano così tanti – un centinaio almeno solo in Parlamento con tutto il codazzo di sub-professionisti della politica, ovvero sherpa, consulenti, portavoce eccetera.
E’ assurdo che un partito ‘popolare’ che fa le primarie, addirittura, si ritrovi con un apparato così invasivo ed onnipresente.

Dal lato opposto – o meglio, semplicemente complementare – c’è il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi, che al turn over è sempre stato attento.
Purtroppo, il permanere di Silvio Berlusconi ha bloccato il ricambio, anche a causa degli interessi divergenti ‘di certi fedelissimi’, ormai fuori dai gioci per problemi giudiziari o migrati altrove nell’attuale parlamento.

Un Centrodestra che – ad averci un leader vero ed un programma verosimile – avrebbe dalla sua almeno il 35-40% dei consensi, se consideriamo anche i voti raccolti dai Montiani e da FARE.
Anche in questo caso, è ovvio che l’elettorato di destra o moderato, sempre più disorientato, oggi si comporti come una mandria impazzita o come un mulo impuntato, cercando altrove soluzioni che non esistono.

Ed ‘in mezzo’ c’è la Conferenza Episcopale Italiana, un alto clero che non sta mostrando nè sufficiente distacco dal potere e dalla finanza (Mammona) nè capacità di esistere nel sociale, al di là di un (proficuo) ruolo di sussidiarietà allo Stato. Vediamo troppi vescovi al fianco di pessimi politici nelle foto ufficiali, parliamo di una mafiosità e di una corruttela sulle quali non si sono sentiti i tonanti anatemi né gli appelli sociali.

Anche in questo caso, è ovvio che l’elettorato cattolico sia sempre più disorientato –  mentre si reclama il diritto alla vita ma non altrettanto quello alla giustizia, se non anche il dovere all’onestà ed all’equità – e vada cercando ondivago soluzioni che non trova.

Dunque, il problema è che la maggioranza del Paese non trova voce nell’attuale Parlamento, dato che il Movimento Cinque Stelle di proposte fattibili ed alternative a quella di Bersani premier non ne ha fatte.

Una situazione che difficilmente potrà essere risolta con una nuova legge elettorale e con la discesa in campo di Matteo Renzi, ma che neanche i cittadini del movimento di Beppe Grillo avranno grandi chances di gestire o risolvere.

Un governo di tecnici veri ed indipendenti – invece che sui forum, iniziamo a leggere i blog o la stampa estera – ed una maggioranza ‘giovane’ che in un anno e mezzo riformi per bene non solo i quattro spiccioli che Bersani ha messo sul tavolo, ma anche quello che è possibile per giustizia, sindacati, pensioni, sanità ed enti locali.

Beppe Grillo avrebbe dovuto riflettere di più su questa chance: ‘perdere’ qualcosa per vincere tutto e divenire una sorta di De Gaulle italiano. Infatti, molti, moltissimi voti sono arrivati al Movimento Cinque Stelle per il solo motivo che non c’era altro da votare e c’era una chance da dare a qualcuno che voleva ‘cambiare’.

E’ anche e soprattutto dal Movimento Cinque Stelle che gli italiani si attendono le ‘prove’ di una capacità di governo, di proposta e di concertazione, che finora non si è vista.
In attesa di un cambiamento che, per gli italiani, significa anche – forse soprattutto – che non se ne può più della Politica che litiga, mentre il Palazzo crolla.

Come anche, ci si aspetta(va) da un vero partito alternativo che guardasse sia a sinistra ma anche a destra con un occhio al centro: le buone idee e la brava gente non sono mai di un colore solo.

Finita la missione suicida di Pierluigi Bersani, al Partito Democratico non resta che cogovernare con il PdL – che, però, chiede prima la sua testa – oppure è arrivata l’ora che Il Movimento Cinque Stelle dica a chiare lettere quali siano gli elementi di programma vincolanti e quali i nomi o le poltrone. Oppure tutte e due …

Intanto, l’unica proposta sensata di queste due settimane, arriva dal Popolo della Libertà: Gianni Letta presidente della Repubblica, Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi.
Il tutto con l’appoggio della Lega, dato che Maroni ha voluto sottolineare che “è verosimile che il Pdl e la Lega non si oppongono alla nascita del governo Bersani? E’ possibile, non so quanto probabile, ma è possibile. Lo abbiamo detto ieri, è possibile a determinate condizioni”.

Il paese deve uscire da questo stallo, che rischia di prolungarsi fino ad estate inoltrata: Bersani ed il Partito Democratico – avendo la maggioranza alla Camera – facciano quello che va fatto per dare un governo decente all’Italia.

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Bersani al Piano B

27 Mar

Il giorno dopo le elezioni, Pierluigi Bersani sapeva di avere il 22% dei consensi, il 33% dei voti, il 55% dei seggi alla Camera, il 33% di quelli del Senato.
Sapeva anche di non avere tempo, a causa della situazione economica, del forte malcontento popolare e del Presidente della Repubblica con il mandato agli sgoccioli.
Un paio di settimane dall’insediamento dei Presidenti delle due assemblee parlamentari, Camera e Senato, ed, eventualmente, la settimana di Pasqua a seguire, in cui le Borse sono assopite.

E Pierluigi Bersani sapeva molto bene – come ne erano ben consapevoli i suoi colleghi di partito – che si potesse andare al voto di nuovo solo e comunque con il Porcellum, ma, soprattutto, non prima del 25 giugno, a causa della necessità di eleggere il Presidente della Repubblica e del semestre bianco, mettendo i tempi necessari a scioglere le Camere e quelli dovuti alla campagna elettorale,
Chiaro a tutti che il mondo e l’Eurozona non possono attendere l’Italia che prova e riprova a formare un nuovo governo.
Meno evidente l’idea che, senza un governo, Mario Monti continuerà ad oltranza con la sua azione ‘recessiva’ e la Cassa Depositi e Prestiti arrivi al baratro, con l’Italia che segue Cipro, dopo la Grecia, nel downgrade dell’area mediterranea.

Dunque, non c’era davvero un motivo valido per giustificare la prova di forza imperniata da Bersani e la leadership del suo partito.
Se ci si arrocca, non si apre un dialogo in quattro e quattr’otto, ma soprattutto, se il tempo è poco, ci si mette da soli in una condizione di svantaggio.

Un arrocco che si poteva evitare, ad esempio, votando la presidenza della Camera (dove il PD ha maggioranza assoluta) dopo il voto al Senato e, garantitisi la presidenza di Pietro Grasso, lasciare il posto di Laura Boldrini alla candidata del M5S.
Od evitando di portare le bandiere dell’antiberlusconismo anche in Parlamento, a campagna elettorale finita, sbattendo la porta in faccia non solo a lui, Silvio Berlusconi, ma a tutto il PdL.
Un’opportunità che il PdL aveva calcolato, non presentando un proprio candidato e sperando che il PD imboccasse – come avvenuto – la via della forza e non quella del confronto.
Un arrocco, ma anche un doppio errore, visto che stiamo assistendo ad una regina (Bersani) isolata in mezzo alla scacchiera, mentre tutta la squadra sta intabarrata in difesa.

Una situazione disastrosa in cui si è ficcata l’intellighentzia del Partito Democratico (D’alema, Bindi, Marino, Fioroni, Letta, Franceschini, Epifani, eccetera) non concedendo a  Pierluigi Bersani deleghe concrete e complete a trattare alcuni ‘temi caldi’: il finanziamento dei partiti, la legge elettorale, il conflitto di interessi negli enti locali, il taglio delle province e dei piccoli comuni, i costi della politica, la legge sui sindacati.
Urgenze alle quali andrebbero affiancate norme urgentissime per la finanza pubblica, su cui qualcuno doveva già iniziafe a tessere accordi, come quelle necessaria al rilancio di Cassa Depositi e Prestiti, la depenalizzazione per le sostanze stupefacenti e lo svuotamento delle carceri, i servizi pubblici esternalizzati ed il Terzo Settore, le pensioni d’annata ed i sussidi per chi non lavora, la Sanità e le responsabilità erariali connesse.

Purtroppo, Bersani, D’alema, Bindi, Fioroni, Letta, Franceschini, Epifani, eccetera sono riusciti anche a perdere l’ultimo treno prima del calar delle tenebre.

The last train – Evaldas

E così, da qualche giorno, in casa PD si sente parlare di «governo a bassa intensità politica» con un programma molto limitato: riforma elettorale, riforma del finanziamento pubblico dei partiti, riduzione dell’Imu per determinate fasce di cittadini e approvazione della legge di stabilità.

Il tutto per evitare che il M5S di Grillo e Casaleggio vinca smaccatamente delle elezioni attuate con il sistema del Porcellum e per consentire a Matteo Renzi di candidarsi alle primarie nel tardo autunno, quando un po’ di ripresa e qualche pannicello caldo potrebbero aver rabbonito gli italiani, oltre a tante attese sentenze che riguardano Silvio Berlusconi e che metterebbero fuori gioco il temuto Giaguaro.

Ovviamente, il tutto funzionerà se gli avversari politici dovessero stare lì tutti ben fermi e/o prevedibili …
Intanto, mentre si svlgono le utime trattative febbrili e dopo un’arroventata riunione degli eletti, Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera, annuncia «Neanche se si butta ai miei piedi e mi implora di dargli un lavoro… Il gruppo è compatto e lo è anche al Senato».
Compatto lo vedremo … spaccare il Movimento Cinque Stelle era – ed è ancora – il Piano A di Bersani e del Partito Democratico.

Ovviamente chi divide impera, ma seminando vento raccoglie tempesta.

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Camera dei Deputati, quali prospettive?

25 Mar

Arrivano dal sistema sanitario ben cinque degli otto senatori che dal PdL si sono ‘resi disponibili’ fondando il Gruppo Grandi Autonomie e Libertà.
Una coincidenza che, a vedere i pochi dati forniti da Camera e Senato, meriterebbe maggiori approfondimenti.
Fosse solo perchè è la Sanità uno dei luoghi critici del debito italiano, del malaffare pubblico, della riduzione in sudditi dei liberi cittadini, dove saranno da attuare dei tagli, del riordino e delle tutele che la Casta proprio non vuole, se non a patto di privatizzare.

Da quel poco che si evince dai dati della Camera, però, qualche riflessione è possibile.

Innanzitutto, più di un terzo dei deputati ha superato i cinquanta anni d’età (239), altri 159 sono tra i 40 ed i 49 anni, 184 va dai 30 ai 39,  solo 48 hanno meno di 30 anni.
Tutto normale con la curva che l’Italia si ritrova?
Mica tanto. Dei 398 deputati (2/3 del totale) ultra quarantenni, nessuno è del M5S, mentre lo sono ben 109 dei 232 under quarantenni, praticamente la metà.

Più scontro generazionale di così … con i cinquantenni – i ragazzi degli Anni ’80, estromessi ab origine dalle scelte decisionali – più attenti al futuro dei propri figli che ai benifit da incassare dilazionando il cambiamento, a differenza da chi li ha preceduti.

Riguardo le professioni, i dati, che la Camera dei Depuati fornisce, sono al momento incompleti, ma almeno 40 deputati rieletti nel Partito Democratico sono dirigenti, funzionari o impiegati di partito. Uno addirittura si dichiara amministratore locale ‘di professione’.
Quaranta e passa voti che tenderanno, prevedibilmente, a condizionare il voto sui tagli ai partiti ed alla Casta.

Inoltre, sempre riguardo le professioni rappresentate in Parlamento, sembra scarseggino gli ingegneri e gli economisti, che si contano sulla punta delle dita: un atto di gravissima irresponsabilità da parte dei partiti, che avrebbero dovuto e potuto inserire in lista persone capaci di comprendere a fondo e di gestire la crisi infrastrutturale e finanziaria del Paese.

Un altro dato interessante è quello dei rieletti che abbiano superato 50 anni. Ovvero, quanti eletti debbano attendere (e restare occupati) per un tot di anni ancora, prima dell’avito vitalizio.
Il Partito Democratico annovera ben 47 over50 e 13 over60, cioè ben 60 deputati che se dovessero votare ‘secondo coscienza’ certe norme urgenti su Pubblica Amministrazione e Sistema Pensionistico si ritroverebbero con un personalissimo ‘conflitto di interessi’. Per non parlare del finanziamento ai partiti …
Il PdL ne conta quaranta in tutto e tra i pochi montiani sono ben quattro gli ultrasessantenni rieletti.

Poi, ci sono i neo eletti. E tra questi sappiamo già che non è irrilevante il numero di amministratori di enti locali ‘promossi’ prima della cancellazione di comuni e province, che, in vista di una breve legislatura, difficilmente voterebbero tagli a prebende locali e di campanile.

Questi alcuni dei fattori, tra quelli resi noti dai dati, che condizioneranno la legislatura ‘old school’ che Pierluigi Bersani – con un Giorgio Napolitano palesemente scontento – si accinge a ‘tentare’. Considerati alcuni fattori (anagrafici e professionali) non è improbabile che anche al Senato esistano aggregabilità simili.

Probabilmente, un PD guidato da Matteo Renzi poteva dare la scossa a questo Parlamento. Possibilissimo che se Mario Monti non si fosse intestardito contro il PdL, staremmo discutendo di una Grosse Koalition con M5S e SEL, ben vigili – come di dovere – all’opposizione, pronti a sostenere leggi ‘difficili da digerire’.

E se Silvio Berlusconi non avesse dato seguito a Tremonti e Bossi, ma avesse seguito Brunetta e Cicchitto, forse sarebbe arrivato anche il turn over. Come era meglio un incarico di Napolitano, anzichè a Bersani, ad una figura non iperpolemica e più carismatica – interna alla politica (es. Anna Finocchiaro) o parallela ad essa (es. Massimo Rodotà, Gianni Letta).

Non è andata così.

Oggi, circolano i nomi di coloro che, secondo Pierluigi Bersani, dovrebbero affascinare Grillini, Liberali e Leghisti e, soprattutto, guidare il cambiamento: Franco Marini (ex CISL, ex DC, 80 anni), Sergio Mattarella (ex DC e giudice costituzionale, 72 anni) e Pierluigi Castagnetti (ex DC, 68 anni), Guglielmo Epifani (ex CGIL, 63 anni), Giampaolo Galli (ex Confindustria, 61 anni), Giuseppe De Rita (ex CENSIS, 80 anni).
Ed, intanto, a guardare due numeri, l’impressione è che, in questi ultimi 20 anni, il numero di ex democristiani candidati ed eletti nelle fila del Partito Democratico è enorme, praticamente maggioritario, mentre, guarda caso, il suo elettorato chiede – giusto appunto da 20 anni – ‘qualcosa di sinistra’.
Tenuto conto che nel PdL le cose non vanno molto meglio, ecco spiegato sia perchè l’Italia è allo stallo – da un ventennio – sia perchè i mali che la Seconda Repubblica doveva curare si sono, viceversa, incrementati.

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