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L’Europa tra identitarismo e mondialismo

11 Mar

la Ricordando qualche mappa storica non è affatto difficile comprendere cosa stia accadendo in Europa in termini di cancellazione del frontismo destra-sinistra-centro che da un secolo e mezzo ci affligge.

Ad esempio, in termini di omogeneità linguistica e tecnologica, questa è l’Europa di 2000 anni fa

Europa di Tacito

… e questa quella di oggi.

Europa 2014

Se poi volessimo parlare di identitarismo odierno, visto che ci siamo improvvisamente accorti che senza produttività locale non si tira avanti, … questa è l’Europa nel 1500 quando le lobbies macchinofatturiere presero il sopravvento …

1500_europa

e questa è quella odierna in base al PIL.

002-RCI-2013-PIL

Praticamente identica, salvo il fatto che – come prevedibile – la Francia repubblicana sia ormai in miseria e che il Meridione d’Italia come i paesi ex comunisti o la Catalogna non riescano ad risollevarsi dal declassamento subito per mano straniera.

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Quel che (non) resta del Made in Italy: dati e riflessioni

29 Lug

Da quando è iniziata la Crisi, in soli tre anni, sono 363 le aziende italiane acquisite, per un controvalore di circa 47 miliardi di euro, da imprenditori/fondi d’investimento/fondi sovrani. Questi i risultati dello  studio realizzato dalla società di revisione Kmpg per il Corriere della Sera, sul periodo 2009-2013.
Parliamo del famoso Made in Italy, le cui esportazioni sorreggono quel poco che resta dell’Italia che fu.

Parliamo di Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, Acqua di Parma e Loro Piana ormai parte della LVMH Hennessy Louis Vuitton SA, come di Gucci, Prada, Bottega Veneta e Sergio Rossi, in mano alla Ppr di Francois-Henry Pinault, oppure di Moncler (The Carlyle group), Ferrè (Paris Group Dubai), Valentino (Mayhoola for Investment), come anche Coin (Bc Partners) e la Rinascente, di proprietà della tailandese Central Retail Corporation.

Nel settore agroalimentare, siamo messi davvero male, con la Parmalat, la Locatelli e la Galbani, entrate nel Groupe Lactalis SA, poi Lactalis Italia, la AR Industrie Alimentari SpA (leader settore inscatolamento), controllata da Princes Limited (Gruppo Mitsubishi), la Star, oggi della spagnola Galina Blanca, la Gancia, inglobata nell’impero finanziario dell’oligarca russo Rustam Tariko, proprietario della vodka Russki Standard, il Riso Scotti, il cui 25% è del colosso industriale spagnolo Ebro Foods, la Casanova – Ripintura Chianti Docg del Gallo Nero, rilevata da un privato di Hong Kong, la Pernigotti, acquisita dal gruppo turco Toksoz, l’Invernizzi, che andò al 100% alla Kraft, l’Orzo Bimbo, passata alla Nutrition&Santè di Novartis, la premiata ditta Cesare Fiorucci, andata alla Bongrain Europe Sas / Campofrio Food Holding,  la Findus Italy, rilevata al 100% da Birds Eye Iglo Group Ltd, il Gruppo Bertolli (Maya, Dante, and San Giorgio olive oil), acquistato da SOS Cuétara S.A. che controlla anche la Carapelli e l’Olio Sasso, come la Perugina, la San Pellegrino e la Buitoni, da molto tempo andate alla Nestlè, la Peroni, da dieci anni di proprietà della sudafricana Sabmiller, il gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni, acquisito al 27% dalla francese Bongrain Europe, le quote della Del Verde Industrie Alimentari finite al gruppo Molinos Rio de la Plata, la Stock, acquisita nel 2007 dalla Oaktree Capital Management e chiusa per trasferire la produzione nella Repubblica Ceca.

Praticamente buona parte del nostro export porta ricavi ed utili ad azionisti stranieri. Ottimo affare, a prima vista …

Nel settore finanziario, ci sono la banca Unicredit, il cui 11% è diviso tra Aabar Investments PJSC e PGFF Luxembourg S.A.R.L., il Marazzi Group, passata alla Mohawk Industries,  la N&W Global Vending S.p.A., acquisita da Barclays Private Equity Limited.

Andando all’energia, reti ed infrastrutture, vediamo il passaggio in mano straniera di Terna, al 65% della Companhia Energetica de Minas Gerais,  di SAECO, acquisita da Koninklijke Philips Electronics N.V., di Ansaldo Energia, al 45% di First Reserve Corporation, di Gruppo Tenaris, finito alla General Electric Co, di Transalpina, andata alla EDF Electricity de France SA, Investcorp SA, del Gruppo Telecom Italia S.p.A., finito alla Iliad S.A. e alla Telefonica Deutschland Gmbh, del Gruppo Enel S.p.A. (assets), finito alla E.On AG, di Impregilo, passata alla Primav Construçoes e Commercio S.A. e BTG Pactual.

Nel campo della meccanica, abbiamo perso Ducati (Audi-Volkwagen),  Mv Agusta (Harley-Davidson) e Ferretti Yacht (SHIG-Gruppo Weichai). La FIAT è gruppo con la Chrysler, l’Alitalia è controllata dal Air France-KLM e, riguardo Finmeccanica, il 42% del capitale fa capo ad investitori istituzionali esteri.

Addirittura, il Gruppo Atlantia SpA, che controlla Autostrade S.p.A., è stato acquisito da un fondo pensionistico estero, il Canada Pension Plan Investment Board, quasi mentre Mario Monti ed Elsa Fornero falcidiavano le pensioni di chi oggi è al lavoro. Oppure, andando alla Sisal, che opera anche nel settore dei Servizi di pagamento alle P.A., ricordiamo che, nell’autunno del 2006, la Direzione Generale della Concorrenza della Commissione Europea evidenziò la sussistenza di un controllo congiunto sul Gruppo da parte dei fondi Apax, Permira e Clessidra.

Detto questo, non restano che poche e schiette riflessioni, visto che – a ben vedere – anche nell’andamento dell’import-export c’è qualcosa che andrebbe valutato meglio, a partire dalla quota di produzione che gli stessi imprenditori italiani hanno trasferito all’estero a causa di una fiscalità esosa, di servizi carenti e costosi, di una tristemente famosa complessità amministrativa e contrattuale. Specialmente, se nonostante tutto le cose non andassero affatto male …

Infatti, è evidente che una certa parte dell’Italia è ancora un buon investimento, che gli stranieri accorrono e che diventa davvero difficile comprendere la continua emissione di titoli di Stato da parte della Repubblica Italiana, mentre aumentano dubbi e perplessità sull’autorevolezza che possiamo ancora concedere a tanti guru della nostra finanza pubblica – sempre dediti alla ‘caccia agli evasori’, al taglio delle spese e al finanziamento (sprecone) di salvataggi impossibili e di apparati inutili – se accade che i pensionati canadesi verranno sostenuti anche (soprattutto?) dai pedaggi autostradali degli italiani. Interessante anche sapere se i capitali derivanti dalla vendita di tali aziende siano entrati e, soprattutto, rimasti in Italia.

Come anche dovremmo prendere atto che il ‘sistema’ su cui si è retto finora il Bel Paese – quello immortalato nei film di Sordi, Proietti, Verdone e Mastroianni – ha fino trasformato il Welfare in ‘volemose bene’ e ‘salti chi può’, mentre il Futuro, trascorrendo gli anni, si confermava essere Degrado e Corruzione. La ‘strana’ vicenda kazaka ha portato in luce, come pubblicato da Der Spiegel, un nesso profondo tra alcuni padri fondatori dell’Europa, nonchè ex leader di partito, e certi ‘benzinai’ oltreuralici, oligarchi di professione.

Ed, ormai, esistono anche degli indicatori affidabili e la lancetta è sul rosso.

Naturalmente, se i capitali derivanti dalla vendita di tante belle aziende fossero rimasti in Italia e fossero stati reinvestiti in fondi pensione, crescita ed occupazione, potremmo evitare di porci parte delle presenti questioni … e se la Germania – di cui attendiamo le prossime elezioni – non avesse intrapreso una escalation finanziaria e commerciale (incalzando il nostro export) non staremmo parlando, forse, neanche del resto.

Un trend avviatosi dal 2010, quando la Germania di Angela Merkel perfezionò una politica finalizzata a trattenere il turismo giovanile (con le note ricadute su Grecia e Spagna), poi seguita dalla svendita dei titoli di Stato italiani da parte delle Deutsche Bank di Josef Ackermann.
Una Germania al bivio, come rilevano gli analisti, ma anche un’Europa ed un Euro al pit stop, se gli indicatori di potenziale concorrenza qualitativa di segnalano che, nonostante quanto importi dall’Italia, sia Berlino – e ben distaccata Pechino – ad attuare politiche finanziarie e commerciali che ostacolano il nostro export e, di riflesso, le nostre capacità produttive, occupazionali e di leva previdenziale e fiscale.

Oggi, a due mesi circa dall’esito delle elezioni tedesche e con la sentenza di Cassazione per Silvio Berlusconi passata in giudicato, almeno una parte della Destra italiana dovrebbe chiedersi se continuare a far capo dai cristiano-popolari targati Deutschland od iniziare a rapportarsi con i laici conservatori di base a Londra. Allo stesso modo, una parte della Sinistra – mentre si prepara al congresso di novembre del PD – potrebbe provare a chiedersi se non sia il caso di passare dallo stato sociale del FSE, modellato sull’impronta francese e comprovata fonte di ampia corruttela, ad un più standardizzato (sobrio ed equo) welfare di stile anglo-germanico.

Questioni che sono sottointese nei “mal di pancia” delle monarchie costituzionali nordeuropee che hanno ben presente l’eccesso di ‘nazionalismo’ insito nel modello di socialcapitalismo, che un certo cristianesimo europeo (bavarese) ha recentemente ispirato, e l’importanza di uno stato laico e liberale, che altro cristianesimo europeo preferì, dopo aver constatato nei secoli che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’Inferno.
Un tema meritevole di un’enciclica, forse, visto anche il New Deal che Papa Francesco ha pre-annunciato al suo gregge romano.

Un tema ‘europeo’ che coinvolge anche e soprattutto il Movimento Cinque Stelle di Grillo & Casaleggio – guardando oltre gli schemi tradizionali di destra-sinistra – che dovrà pur iniziare a raccogliere e canalizzare su candidati di qualità il prevedibile consenso che raccoglierà anche alle possibili ri-elezioni nazionali ed alle già previste europee.
Un M5S che dovrà fornire volti, programmi e risposte a chi fa impresa ed amministrazione, se vuole essere credibile come partito di governo per le riforme strutturali che servono.

Intanto, su gran parte di quello che si produce Made in Italy, da quache tempo c’è un’option, ovvero un ‘valore’, che va all’estero e questo ci fa sempre più somigliare ad uno dei tanti paesi ispanici d’oltre oceano. Loro in crescita e noi in calo, ma per sempre lavoratori dipendenti di qualche holding mondiale anche se cervello, prodotto e risultato sono tutti made in Italy.

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Ipsos MORI, default USA, indignados europei: specchi diversi di un tempo che cambia

14 Lug

Ipsos MORI, eminente ente di ricerca del Regno Unito, ha pubblicato uno studio  molto accurato sulla globalizzazione, che analizza nel dettaglio alcuni aspetti relativi alla soddisfazione dei cittadini ed ai relativi aspetti etici (link).

Innanzitutto, emerge che quasi nessuno “è contento della globalizzazione”: pressoche nessuno tra gli europei (ad eccezione dei polacchi), gli statunitensi e giapponensi è favorevole, mentre tra i paesi “entusiasti” solo l’India e la Cina Popolare raggiungono o superano il 30%.

La maggiore preoccupazione, che la globalizzazione induce nei cittadini, è la “disoccupazione” (50% delle persone), seguita dall’incubo della “povertà” (40%) e da una significativa attenzione a “crimini” e “corruzione” (oltre il 30%).

Nella sostanza, potremmo affermare che esiste una diffusa percezione di vivere in una società ingiusta e, probabilmente, illegale.

Non a caso oltre la metà degli intervistati, ad eccezione di Francia, Belgio ed Ungheria, è convinta che “lo Stato debba esercitare un controllo verso le Big Companies, pubbliche o private che siano”. Si va da un’adesione del 50% (USA e Italia) ad un exploit anche superiore all’80% per i paesi emergenti come India, Brasile e Cina Popolare.

La percentuale rasenta il plebiscito  se la domanda diventa “se il governo dovrebbe diventare più aggressivo nel regolamentare l’attività delle Big Companies nazionali o multinazionali“, con il 75% dei favorevoli in Europa, USA e G8.

Piuttosto ambiguo l’esito di un’altra coppia di indicatori, visto che tantissimi sembrano consapevoli che “gli investimenti delle Big Companies sono essenziali per lo sviluppo del paese”, oltre l’80%, ma le percentuali crollano al 42% nel Nordamerica ed al 31% in Europa, se gli si chiede se temono “eventuali ricadute occupazionali in conseguenza di restrizioni per le grandi aziende”.

Probabilmente, i cittadini dei “paesi avanzati”, europei e americani, vedono nelle “proprie” Big Companies un valore aggiunto di egemonia internazionale, ma, a differenza dei paesi emergenti, sono disposti a modificare il proprio stile di vita o le relazioni sociali, in cambio di maggiori garanzie verso corrotti e speculatori.

La battaglia del default statunitense, tra Obama ed i Reps del Congresso, è una delle tappe di questa istanza che dai cittadini si rivolge alla politica, alla finanza, al clero, all’impresa. L’impasse dell’euro-moneta, la fragilità dell’euro-politica, la coincidenza tra lobbies e partiti saranno un’altra tappa di questa lunga partita.

L’unica cosa certa è che adesso abbiamo una pietra miliare per indirizzare il rapporto tra politica, aziende e cittadini e questa è proprio  il documento dell’Ipsos MORI, che esce quasi in simultanea con l’emergere di “indignados liberali”, un po’ in tutta Europa, e con la “svolta” che, entro venti giorni, dovrà necessariamente imboccare l’America con tutto quello che ne conseguirà per l’area Euro e non solo.

Ipsos MORI, fede e globalizzazione

14 Lug

Ipsos MORI, eminente ente di ricerca del Regno Unito, ha pubblicato uno studio  molto accurato sul rapporto tra fede/religione e globalizzazione (link).

A riguardo, Tony Blair, ex primo ministro inglese convertitosi recentemente al cattolicesimo, ha tenuto a dichiarare che: «questo sondaggio dimostra quanto conti, ancora oggi, la religione e come nessuna visione del mondo contemporaneo, politica o sociale, possa ritenenrsi completa senza la comprensione del rapporto tra fede e globalizzazione»

Ho letto il documento britannico e riporta cose molto diverse da quelle di cui Tony Blair parla.

Innanzitutto, alla domanda se la religione contribuisce a creare dei valori comuni e dei fondamenti etici necessari ad affrontare il 21esimo secolo, i paesi cristiani rispondono sostanzialmente NO, con una media di “credenti” intorno al 30%, che Messico e Italia raggiungono un risicato 50% mentre in Turchia non superano il 44%. Solo in USA e Brasile i “favorevoli” si attestano al 65%.

A contraltare, salta fuori che solo il 15% dei cristiani europei ed il 30% degli statunitensi crede che la fede sia l’unica via che porta alla “salvezza”.
Il 66% dei cristiani considera sì importante la fede, ma in Europa, ad eccezione dell’Italia, la media è inferiore al 45%.

E’ impressionante il dato per cui solo il 52%, a prescindere dalla religione, considera l’impegno sociale, la Charity, come un fatto personale. La percentuale crolla sotto il 25% se parliamo di paesi cristiani a fronte del 61% dei mussulmani.
I cristiani, inoltre, hanno amici o conoscenti di religione diversa nella misura del 5%, gli islamici del 10% (sic!).

Il quadro che emerge dallo studio di Ipsos MORI è piuttosto chiaro: la religiosità è recessiva in Europa (Turchia inclusa), la Charity (solidarietà sociale) non è un aspetto etico prettamente religioso, l’Islam mostra, per ora, una maggiore adattabilità e tenuta verso la cultura sincretica e materialista che avanza con la globalizzazione.