Tag Archives: formazione professionale

Diseguaglianze e istruzione tra mito e realtà in Italia

1 Apr

Purtroppo, la povertà è una conseguenza, non una semplice condizione.

La causa generale della povertà – ben prima che inventassero l’agricoltura, le città e il denaro – è nell’educazione e nell’istruzione che riceviamo/accettiamo, la sua causa è nell’apprendimento: furono l’intelligenza e la capacità tecnica che distinsero Lucy e la sua gente dalle scimmie dell’albero accanto, tantissimo tempo fa. Così acquisimmo la libertà e la scelta.

Ed è bene a sapersi che proprio questo pone il problema etico che affrontarono i puritani prima e i liberali poi, inventando l’istruzione pubblica ‘contro’ chi non fa studiare i figli e/o con chi li diploma senza troppi sforzi, destinandoli a sudditanza e insuccesso, se non violenza e carcere.

Ma noi italiani abbiamo una bella contraddizione in testa: da un lato siamo con San Luca che addita i ricchi e i gaudenti come causa di povertà ed esclusione e dall’altro lato vogliamo tutti vivere da ricchi e famosi.
Quanto ai politici di cui ci lamentiamo con buone ragioni, dunque, il problema è sempre e solo chi li elegge, se vota quel che piace o vota quel che serve: nel primo caso un altro cambialone, nel secondo ‘lacrime e sangue’, cosa scegliereste voi?

Insomma, è andata che dagli anni ’80 abbiamo sperato di vivere tutti ricchi e famosi: c’era la propaganda commerciale e politica a dircelo, quando smantellarono le industrie perchè diventavamo un paese per turisti e cultura.

Viceversa, questo accadeva non per ‘lavorare meno, arricchirsi tutti’, ma perchè dalla crisi petrolifera e valutaria del 1974 sapevamo che non potevamo continuare con quel trend industriale per carenza di risorse energetiche.
Almeno quelli che hanno più di 65 anni dovrebbero ricordarlo che “l’Italia non ha petrolio e corrente elettrica”: si studiava a scuola alle elementari.
Questa è la diseguaglianza italiana e questo è il disagio ‘sociale’ che ci rende poveri e non esattamente ‘famosi’.

Una volta, per ‘superare queste diseguaglianze’ lo Stato dichiarava guerra a qualcuno o diventava vassallo di qualcun altro. Oggi, non va più così: la sovranità è sacra. Ma oggi, la situazione dei combustibili fossili mondiale torna a confermare che noi italiani viviamo al di sopra di quanto possiamo permetterci.

E, senza risorse energetiche, per quanto le ottenessimo a prezzi di favore, è accaduto che le eccellenze sono andate in buona parte via (non meno di 100.000 l’anno), dato che per loro non c’era lavoro, se gas e fotovoltaico nazionali restavano una chimera tecnologica … perchè tutte le politiche attuate dalla metà dei ’70 privilegiavano i meno istruiti, tanto sarà solo per una generazione … dissero.

Oggi, abbiamo tanti tanti poveri, ma la cosa che sbigottisce è la scarsissima qualificazione professionale di questi “poveri”, in un paese dove già i redditi medi (16mila e rotti annui) non arrivano a contribuire adeguatamente ai servizi pubblici: è questa la base del consenso della politica che firmerà l’ennesimo cambialone.

Ma non ci sarà verso di far risalire i redditi, se l’Italia non ritorna ad essere un popolo ‘ad alto valore aggiunto’ e per questo servirebbero il doppio dei laureati tecnici che abbiamo oltre a istituti superiori ben più meritocratici, cioè finanziati e sostenuti anche dalle imprese come accade in tutto il mondo.

Chi protegge le scuole se finisce l’era dei tutti promossi da 6 a 18 anni?
E come avrà un reddito per i prossimi 40-50 anni9 l’esercito delle terze medie e tot 5° elementare (1 lavoratore su 5), se infrastrutture e servizi diventassero da III Millennio come per magia?
Se volessimo insegnare le scienze e la tecnica che servono per aggiornare programmi e titoli di studio, dove troviamo i docenti laureati, che mancano già all’industria?

Un serpente che si morde la coda, quello delle diseguaglianze e quello della povertà salvo che la Politica – se esiste ancora – non decida di occuparsene sul serio: l’Italia non può rinunciare ad un’amministrazione pubblica “smart” e moderna, solo perchè sarebbe meno accessibile ad una parte della popolazione fino all’avvento di una generazione di adulti ‘moderna’.

Esiste un rischio di tenuta sociale, ma è anche vero che molti anziani usano apps e consultano siti istituzionali abbastanza agevolmente, quanto alla connettività sta ai sistemi informatici creare delle applicazioni che non richiedano troppa connettività.
Quel che è certo è che dilazionando ancora l’innovazione digitale italiana, il ‘digital divide’ ne verrà solo accentuato, come abbiamo accentuato la povertà finora: va assolutamente evitata la situazione sociale che sorgerebbe a breve da un’Italia ancor più declinante e indebitata.

A proposito, nel contrasto delle “diseguaglianze all’italiana” nell’Era Digitale, potrebbe tornarci utile se ritornassimo ad avere scuole che insegnano – tra primaria e medie – come si scrive una lettera commerciale, come si compila un modulo o un prospetto e come si legge un disegno tecnico o si compone una paginetta, dopo il ‘fai da te, liberi tutti’ affermatosi negli Anni ’70?

Demata

Disastro Italia: -14% sulla media UE dei giovani laureati. I dati. Quali responsabilità per la scuola italiana?

13 Mag

UNIVERSITÀIn Italia, solo il 22,4% dei giovani è laureato e nella classifica delle 28 nazioni europee il nostro paese si colloca inderogabilmente ultimo su una media generale al 37%.

In Gran Bretagna, la percentuale di 30/34enni in possesso della laurea è al 47%, in Francia al 44%, in Germania è del 33% (ndr. ma il livello dei titoli tecnici superiori è elevato).  Intorno al 25% – in vantaggio, cioè, sull’Italia – troviamo Romania, Malta, Repubblica Ceca, Slovacchia e Portogallo.

Un disastro ‘non annunciato’, stando ai prorompenti ed entusiastici dati che il MIUR ed il sistema universitario forniscono da due decenni, con apertura di nuove sedi ed incremento delle cattedre, accompagnata da tanti blablabla su turismo, cultura e tradizione italiana … quasi che l’Università fosse un percorso enogastronomico …

Quali le cause?

Di sicuro, al primo posto, annoveriamo l’atavica disaffezione culturale italiana per ciò che è scientifico (matematica, chimica, fisica) e per ciò che è tecnico, ovvero riguarda la ‘società di massa’ (economia, informatica, ingegneria, logistica, finanza, management, governance), con una particolare disattenzione generale verso agricoltura e navigazione, che dovrebbero essere, viceversa, parte del ‘genoma nazionale’.

Una carenza tecnico-scientifica del sistema di istruzione-formazione italiani che si manifesta a partire dagli Anni ’60, quando si videro i primi effetti di un sistema di istruzione finalizzato all’acculturamento generale e non all’avviamento al lavoro e agli studi universitari.
Due scopi diversi, due risultati ben differenti …

Con gli Anni ’70, la distorsione delle finalità della scuola pubblica iniziarono a ricadere sulle università, con l’enorme superfetazione delle lauree umanistiche – specie lettere, medicina e giurisprudenza, psicologia, sociologia – e con l’enorme crescita delle facoltà universitarie nelle due città dove la tradizione tecnico-scientifica, Bologna e Roma, aveva dimostrato nei secoli scarso radicamento.
Fu allora che Milano, Napoli, Ferrara, Pisa, Genova iniziarono ad essere ‘troppo selettive’, come iniziarono a collocarsi sedi universitarie in località diverse dai capoluoghi regionali – dove la concentrazione dei cervelli assicurava osmosi, competizione e meritocrazia – finendo per ‘delocalizzarsi’, ai giorni nostri, anche in sparuti/sperduti paesini di montagna con poche decine di allievi …

GrafDomOffLaureati2009

Dati 2009 – datagiovani.it

Al disastro strutturale si aggiunse la piaga del ‘sei politico’ seguita dai famigerati ‘corsi abilitanti’ e/o concorsi ‘riservati’, per non parlare delle poco legittime graduatorie ad esaurimento (ndr. ce ne sono ancora in giro …), tramite la quale venne ‘ampliata’ l’attuale schiatta di docenti e dirigenti italici.
Eh già, senza di loro forse saremmo al 15% di laureati in Italia, qualche ottuagenario ancora in politica ci racconterà che “l’Italia doveva upgradarsi” … ma i risultati (ndr. disastri) si vedono.

Dulcis in fundo, i percorsi formativi delle scuole superiori (che sempre meno sono finalizzati alle competenze necessarie a proseguire gli studi), la difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro se si è giovani laureati (ma ciò non dovrebbe essere per i titoli di studio tecnici postdiploma, che avremmo dovuto/potuto finanziare con fondi europei da 20 anni), la sempre maggiore disaffezione scolastica verso l’impegno ed il merito dei nostri alunni, a partire dai compiti a casa e dall’oggettività ed omogeneità nazionale dei test di valutazione.
Persino l’Esame di Stato si ridusse ad una mera formalità da disbrigarsi con i docenti della stessa classe … mentre prima – con i commissari provenienti da altre regioni – si garantiva, a piccolo costo, molto di più.
E, ancora oggi, continuiamo da dare il posto fisso a docenti che non hanno svolto 2-300 ore di formazione psico-pedagogica certificata da una Università e dirigenti che non possiedono gli analoghi requisiti (universitari o parauniversitari) per quanto riguarda management, gestione finanziaria e norme giuridiche. Lo stesso dicasi per i medici.

Ma il peggio non ha mai fine … e dovremmo parlare dei libri di testo scolastici ed universitari, che ormai dimostrano un serio e imbarazzante distacco dalle conoscenze ccomunemente recepite a livello internazionale.
Ad esempio, il paradosso di far studiare a 15 anni una ‘Storia della Filosofia’ europea (l’Italia non ha prodotto filosofi di rilievo mondiale) nel III Millennio senza alcun riferimento al pensiero del resto dell’Umanità, come se Lao Tze, Confucio, Budda non fossero stati antecedenti e ‘limitrofi’ ai Sofisti ed a Socrate, come a Platone o Aristotele.
Per non parlare della Biologia, di cui insegnamo ancora la versione ‘pre Cavalli Sforza’, mentre troppi giovani (non trovando risposte a scuola) si affidano alla disinformazione in rete. O della Matematica, mai utilizzata per statistiche, tabelle, prospetti, eccetera. Peggio ancora la Fisica, che si occupa della realtà delle cose, presentata a dei 13enni con un groviglio di formule anche se si tratta di una biglia che rotola su un piano.
Lasciamo perdere la lingua italiana (se volessimo insegnarla come in Germania /Francia / Gran Bretagna), che siamo un paese dove notoriamente ognuno compila/trascrive ‘a modo suo’ anche il più semplice dei modelli.

Peggio ancora i così detti ‘compiti a casa’ e le ‘esercitazioni in classe’ che non sono un dovere ‘generalmente riconosciuto da tutti’ se per gli alunni e per gli insegnanti abbiamo dovuto normare un Patto Formativo ad hoc per ogni scuola, per tentare che siano assegnati e svolti in modo omogeneo.
Fino all’abisso delle competenze per i laboratori delle scuole, specie quelle tecniche, per le quali non è chiaro chi debba provvedere da ben 15 anni, cioè da quando la Conferenza Stato-Regioni avrebbe dovuto/potuto occuparsene.

Così accade che, in fatto di lauree, tra dieci anni saremo alla stregua di un paese postcoloniale, visto che le iscrizioni scemano e le lauree anche, tra  crisi finanziaria e quel pizzico di selettività in più, che non inducono a ‘sogni di gloria’ chi non abbia basi solide per proseguire gli studi.
E di sicuro non possiamo abbassare il livello degli studi postdiploma, che tra l’altro dovrebbero corrispondere a standard internazionali.

situazione-laureati-italiani

C’è chi chiede di eliminare il numero chiuso per le lauree sanitarie e mediche, ma dimentica che l’Italia non ha certo bisogno di aumentare il numero degli addetti … visti i tagli che corrono, mentre la nostra medicina avrebbe di sicuro l’esigenza di internazionalizzare gli insegnamenti di queste facoltà e mentre la nostra Sanità dovvrebbe iniziare a parlare di costi standard …

Quello che serve all’Italia sono tanti laureati e postdiplomati in ambiti tecnici con compensi decenti. A partire dall’ingegneria e dalla cultura ingegneristica, visto lo stato di demanutenzione e deinfrastturizzazione del Belpaese. Passando da tutto ciò riguardi l’economia, in primis la gestione dei beni (logistica) e dei dati (analisi e progettazione informatica), le tecnologie Green (dov’è finita la grande tradizione elettronica italiana?), l’agroalimentare (che di diplomati periti agrari in Italia ce ne sono davvero troppi senza però studi corrispettivi).
E il turismo, per il quale qualcuno dovrebbe peritarsi di aprire scuole e di contrastare il lavoro nero, se vogliamo che i nostri giovani vadano a lavorare in grandi e solide aziende internazionali, piuttosto che tentare la sorte, prima come cameriere/commessa con la III media e poi … come ex gestore di pizzetteria/bar con procedimento fallimentare a carico …

Questa è l’Italia, ma a differenza degli altri casi,  quasi tutte le compenze del caso sono in capo al Ministero dell’istruzione, dell’università, della ricerca, che vennero accorpate proprio per ovviare a quanto raccontato, mentre quello che riguarda la formazione professionale ricade sulle singole territorialità e, dunque, sull’effimera Conferenza Stato-Regioni, una sorta di malfunzionante ‘terza camera parlamentare’ di cui ci siamo dotati, ma non si sa perchè …

Laureati Italia - Mondo

Altrove il ministero che si occupa di istruzione bada innazitutto che le scuole forniscano diplomati adeguatamente formati per il mondo del lavoro o per gli studi universitari e, spesso, le scuole tecniche sono gestite direttamente dai ministeri specifici (agricoltura, industria, infrastrutture e ricerca, eccetera).
Ed il reclutamento dei docenti è fortemente selettivo – dentro o fuori prima dei 30 anni: altro che graduatorie ad esaurimento e precari a vita – come lo sono le prove che gli alunni devono superare e che sono predisposte a livello statale ogni anno.

Riforme a costo zero, forse una manciata di miliardi per anticipare i pensionamenti.
Eppure, non c’è verso di farle: Luigi Berlinguer e Letizia Moratti ne sanno qualcosa …

originale postato su demata

Scuola italiana al crash?

27 Gen

Mentre Parlamento e Media si accapigliano per una riforma elettorale che cambierà tutto per non cambiare nulla, l’Italia va avanti. O, meglio, tenta.

Una marea di italiani ‘travolti da un insolito destino agostano’, quando – era il 2011 – il Governo Monti intervenne sulla spesa pubblica in base a conti rivelatisi poco affidabili, e rimasti in balia dei flutti – siamo ormai al 2014 – a causa dello stallo politico in cui viviamo.

Uno dei settori più vessati ‘ma invisibile’ è quello della scuola. Anzi, ad essere esatti, dell’istruzione e della formazione professionale, del diritto allo studio, delle tutele sociali verso le categorie svantaggiate. Una scuola che si arrangia senza che nessuno le dia il benchè minimo raggio di luce o filo di speranza, dato che – da Cinque Stelle a La Destra, passando per SEL o la Lega ed arrivando a PD, Scelta Civica, NCD e Forza Italia – non c’è programma o istanza ne faccia menzione.

scuola precariaA partire dagli stipendi e dallo status del personale, che vede una sequel di perequazioni a dir poco mostruose:

  1. le docenti di scuola elementare e materna (ndr. maestre) retribuite praticamente quanto un’ausiliaria, nonostante molte di loro abbiano una laurea;
  2. i docenti delle scuole medie e superiori (ndr. professori) , anch’essi con stipendi da fame, ma con un sistema di prestazioni talmente obsoleto e rabberciato che nessuno è finora riuscito a confrontarlo – nei tempi e nei compensi – con quelli stranieri;
  3. il personale amministrativo che dovrebbe essere diretto da laureati in economia (o legge), che dovrebbe rispondere a requisiti di qualità ed efficienza nazionali e che percepisce uno stipendio base in linea con quello del settore bancario;
  4. i dirigenti scolastici che sono equiparati alla dirigenza pubblica solo per le responsabilità connesse, ma senza benefit, progressioni di carriera, mobilità, tutele e, soprattutto, stipendi adeguati, dato che percepiscono 2/3 del compenso di un medico di base, pur essendo gli unici dirigenti pubblici a gestire direttamente un centinaio di lavoratori e servizi alla persona quotidiani;
  5. i tecnici (insegnanti e assistenti) nel limbo funzionale, tra contratti che non si aggiornano e, soprattutto, con finanziamenti per laboratori e innovazione che non arrivano;
  6. gli ausiliari ai quali, ridotti a mezza dozzina con il subentro delle ditte di pulizia, toccherebbe di vigilare su chilometri di corridoi o piazzali e decine di bagni, oltre a garantire aperture pomeridiane e domenicali;
  7. i precari che attendono anni prima di essere stabilizzati, dato che – con le norme pensionistiche introdotte nel corso del ventennio – a tutto si è pensato, fuorchè a gestire il turn over dei docenti nel settore scolastico e universitario, che è una nota e prevedibilissima esigenza del sistema;
  8. la formazione in servizio non esiste da almeno 15 anni e sarà un decennio che non si vedono ispettori. Nessuno verifica se si sia in grado di insegnare con lauree conseguite 40 anni fa e mai aggiornate, nessuna statistica ci racconta delle prevedibili anomalie amministrative (e finanziarie) delle scuole;
  9. gli anziani e gli invalidi che – da un tot d’anni – vedono sempre più allontanarsi la prospettiva di andare a riposo, rinviata con leggine e lacciuoli, mentre si erano ‘arruolati’ con la prospettiva di andar via dopo soli 20 anni, accettando una pensione da fame, che ancora oggi preferirebbero negoziare in vece di un ‘lauto’ TFR;
  10. sul fronte sindacale, non c’è che prendere atto che per gli statali c’è l’attestamento su benefit vecchi, datati, oblsoleti e probabilmente inutili o controproducenti, mentre il personale didattico delle scuole private, dei centri professionali e dei servizi esternalizzati è gestito con contratti di lavoro nazionali indecenti nell’indifferenza generale;
  11. i dati PISA-OCSE raccontano di un’inefficienza ed un’inefficacia del sistema di instruzione epocali (in certe aree), i dati di Confindustria e di Unioncamere sui neoassunti confermano, mentre nessuno interviene per migliorare meritocrazia e selezione in un Paese che vede ancora il 65% dei maschi adulti privo di un diploma ed ancora la metà delle donne (diplomate o laureate) a casa senza lavoro. Intanto, crescono i diplomati con il massimo dei voti (ndr. licei) e diminuiscono gli studenti non ammessi agli esami di maturità 2013 così come i bocciati;
  12. dopo la sentenza TAR del Lazio – che ha annullato la riforma dei programmi e delle cattedre degli istituti tecnici e professionali – si ritornerà a svolgere 36 ore settimanali anzichè 32 come oggi oppure arriverà in extremis la ‘soluzione’? Bello a sapersi. Intanto, le iscrizioni sono aperte e tra un po’ anche gli organici;
  13. l’ediliza scolastica la conosciamo tutti e rappresenta bene un popolo che non si preoccupa di offrire sicurezza, dignità e futuro ai propri figli, mentre le scuole pubbliche le finanziano de facto le famiglie e mentre le devastazioni di tante scuole denotano una certa illegalità diffusa e – nonostante l’esposizione di tanti ragazzi/e a modo – non hanno, finora, trovato particolare sanzione o prevenzione;
  14. scuole_precarie_bassasul fronte del ‘sociale’, basti dire che per mandare in gita un alunno indigente si va ancora avanti con le collette a scuola. Mica provvede il Comune di residenza …
  15. di status istituzionale per le scuole siamo al non sense, con la Costituzione (e qualche sentenza) che le definisce gestionalmente ‘autonome’ e il MEF che le considera meri ‘punti di erogazione del servizio’, mentre il MIUR ha risolto tutto con un decreto e gestisce tutto da un paio di uffici e poco più;
  16. per non parlare della spesa pubblica che registra almeno 100 miliardi annui (6-7% del PIL) per ‘istruzione’, ‘formazione professionale’ e ‘diritto allo studio’, di cui una quarantina vanno via in stipendi dei docenti statali, mentre il resto non si sa bene dove vada … e soprattutto a cosa serva.

In questi giorni, sta facendo scalpore la vicenda di 4.000 docenti che, pur avendo diritto alla pensione in base alla Legge Damiano, si vedono negare l’accesso per un cavillo burocratico e … per i soliti motivi di ‘cassa’. Persone che, comunque, hanno versato 35 anni di contribuzione assicurativa.
Niente paura, è solo un’avvisaglia. Dal 2015, chiunque volesse pensionarsi dovrà aver lavorato almeno 42 anni e tre mesi, ovvero non potrà avere meno di 61 anni, con buona pace degli invalidi e di quanti – vedendosi scippare l’agognata pensione a uno o due anni dalla meta – non potranno sentirsi particolarmente motivati. Per non parlare degli invalidi di una certa entità  che saranno forse 100.000, forse meno. Nessuno lo sa.

Gelmini Tremonti

Per risolvere questi problemi l’Italia non ha molto tempo, considerato che nel 2015 ci saranno le ‘annunciate’ elezioni anticipate, ma non servono chissà quanti soldi. Anzi, forse ne verrebbero anche delle economie.

Il problema è nella ‘concertazione’, ovvero portare ad un accordo ragionevole alcuni soggetti:

  1. la Conferenza Stato-Regioni ed i rapporti con l’ANCI, se si vuole razionalizzare il tesoretto di 100 mld che ‘andrebbe’ all’istruzione, formazione e diritto allo studio, trovando le risorse per l’edilizia ed il ‘welfare scolastico’ tenuto conto dei servizi ‘esternalizzati’, del ricalcolo dell’ISEE e/o il ‘così detto’ salario minimo;
  2. il tavolo di Governo che dovrebbe garantire i dovuti equilibri (ndr. ed il problema non è nè Carrozza nè fu Gelmini)  nei poteri dei diversi ministeri, visto lo strapotere del MEF – di tremontiana memoria –  come dimostrano i tanti casi di contenzioso, spesso a causa di semplici circolari che, ormai, superano l’effetto di decreti e bloccano norme e accordi, in nome di una competenza costituzionale che il Fiscal Compact, però, attribuisce al Governo e non ad un solo Ministero;
  3. i vertici sindacali (che non di rado hanno un’esperienza di lavoro effettivo di pochi anni, svolto nella scuola degli Anni ’70 /80) e la dirigenza del MIUR (tra cui non ve ne è uno che provenga dal comparto scuola), che da almeno un decennio non riescono a trovare parametri contrattuali moderni e univoci per un personale che ormai opera in un settore fortemente diversificato;
  4. il sistema assicurativo (pensionistico della scuola) – prima ENPAS, ENAM e KIRNER, ovvero semi-privatistico ed oggi meramente INPS – e l’esigenza che il Sistema di Istruzione Nazionale  che tenga conto dell’esigenza (per il tessuto produttivo, culturale e sociale) di ‘turn over’, ovvero di fornire personale con un’età media di 45 anni ed assunto subito dopo la laurea. Il contrario di un precariato decennale – da cui i migliori spesso fuggono andando all’estero – mentre si abroga la ‘Quota 96’, imponendo a tutti il pensionamento dopo 43 anni contributivi (ndr. ma non a chi ha ormai 65 anni e passa), lasciando i parametri e le pensioni da fame che abbiamo sulle invalidità e lesinando mobilità, part time o telelavoro, ma, soprattutto, impedendo ogni forma di negozialità per chi voglia optare per una pensione decurtata, ma anticipata.

laoro pensioniMissione impossibile? Di sicuro, ma iniziamo a renderci onto che è impossibile anche il contrario.

La Scuola è esausta, il suo personale non vede prospettive di riconoscimento del proprio lavoro o di completamento di una ‘eterna riforma’, i nostri alunni non sempre frequentano strutture sicure, i nostri diplomi spesso non valgono granchè e vengono conseguiti con un anno di ritardo (18 anni anzichè 17) rispetto all’estero, la questione ‘Quota 96’ e del suo blocco sta arrivando al capolinea del 2015.
Di edilizia, trasporti, formazione professionale e permanente, accessibilità per disabili e stranieri, contratti di lavoro, monitoraggio e valutazione, finanziamenti pubblici e politica locale, come dicevamo, meglio non parlarne.

scuola famigliaE sembrerebbe che tutti abbiano dimenticato che l’istruzione pubblica non fu solo istituita per ragioni di equità e solidarietà umana, ma anche e soprattutto per garantire pace e ricambio sociale, come competitività, meritocrazia e produttività, diffondendo conoscenze, competenze e regole di convivenza. Utile sapere anche che i dati comprovano come la dispersione scolastica si accompagni al bullismo e alla violenza negli stadi, alla microcriminalità e alla dipendenza da sostanze o da gioco, di disturbi comportamentali come depressione e anoressia, eccetera …

In Italia, anche quest’anno, si diplomerà circa mezzo milione di studenti, di cui circa il 20% ha ripetuto un anno (dati 2006) e quasi il 40% supererà l’esame con voti inferiori a 80/100 (dati 2011), mentre un altro 20% a scuola proprio non ci va.
Chissà perchè le agenzie di rating – che guardano al futuro oltre che al contingente – sono così restie da dar fiducia all’Italia …

originale postato su demata

Arriva un governicchio di larghe intese?

23 Apr

Giorgio Napolitano resterà in carica finché avrà forze e, poi, sferza i partiti: «Voi, sordi e sterili, non autoassolvetevi» ed i partiti, tutti, applaudono in piedi come se i rimproveri fossero per i rivali.

Stamane, su Omnibus di La7, giusto per far finta di nulla, Rosa Maria Di Giorgi (assessore PD a Firenze) continuava a parlare di ‘difficoltà di Bersani’, di ‘svolta del Capranica’, di ‘debacle orrenda’ del M5S nel Nordest, di ‘dirigenti’ che non devono farsi influenzare dalla Rete, di non confrontarsi con la base … che la fiducia è d’obbligo se il partito lo decide.

Intanto, Serracchiani vince per un pelo in Friuli Venezia Giulia, che non è una regione rappresentativa degli equilibri nazionali, Renzi è stracorteggiato, ma fino ad oggi ha amministrato solo una piccola città come Firenze, SEL appare fortemente egemone sull’ala sinistra del PD, ma in Parlamento sono tanti gli eletti che arrivano dalla nostra famigerata Malasanità, alla Camera siedono circa 100 democratici che arrivano dall’apparato di partito, alla faccia delle Primarie.

Inoltre, non sono solo Travaglio & Santoro a sospettare che PD e PdL non siano l’un l’altro opposti, ma semplicemente complementari, con la conseguenza che il Centrodestra liberale è incatenato dalla stagnante componente populista ed il Centrosinistra riformista non ha voce in un’eterna campagna elettorale che privilegia i consensi gauchisti e sindacal-azionisti.

Dunque, in questa situazione, va bene qualsiasi governo, con il rischio di vederlo impallinato al primo incrocio o bivio dal qualche fazione democratica? Oppure serve un governo di larghe intese che accetti la Rete come principale vettore di informazioni e di conformazione della pubblica opinione, ma, soprattutto, tenga in debito conto che l’azionista di maggiornza è il PD, ma anche che il controllante è il PdL?
Oppure vogliamo proporre ai cittadini un Giuliano Amato, sconosciuto a chi abbia meno di 40 anni, tesoriere di ‘quel Partito Socialista Italiano’, massacratore delle nostre pensioni e del Titolo V della nostra Costituzione, nonchè prelevatore patrimonaile dei nostri conti?

Il Patron del futuro governo è il Popolo della Libertà, il padrino è il Partito Democratico: non facciamoci abbagliare dal il fatto che una componente parlamentare sia più numerosa dell’altra, grazie agli artifici del Porcellum.

E smettiamola, a sinistra, di pensare che quanto detto in televisione sia ‘reale’ e che quanto circoli in Rete sia ‘passatempo’. Piuttosto, è il contrario. Inoltre, se il mezzo televisivo permette allo spettatore l’unica possibilità di cambiar canale – cosa del tutto inutile se andiamo avanti da anni con talk show partitici a reti unificate – va considerato che in Rete l’utilizzatore va puntualmente a cercarsi le notizie secondo l’approccio che ritiene più verosimile.
Se i talk show politici diventano intrattenimento partitico, il ‘passatempo’ è in TV, le notizie sono in Rete: è inevitabile che sia così.

Inoltre, l’idea fissa dei democratici ‘a confrontarsi con i sindacati’ appare piuttosto bizzarra -ai nostri giorni – se il persistere della Crisi è causato dall’over taxing che la sinistra pretende da anni, dal suo profondo legame con gli apparati pubblici, dalla diffidenza verso il mondo imprenditoriale e la libera iniziativa, dal basso o bassissimo livello di istruzione e di formazione professionale di tanti attuali inoccupati (manovali, camerieri, banconisti, padroncini, artigiani e operatori di basso livello, eccetera), dal limitato ruolo delle donne nella nostra società, dal famigerato Patto di Stabilità interno di centralistica e statalista memoria.

Difficile credere che la situazione attuale del Partito Democratico possa essere superata senza una chiara e profonda scissione tra la componente social-liberale delle elite metropolitane, quella cattolico-populista dei mille campanili di provincia e quella gauchista ondivaga ed il suo elettorato di lotta e di governo, attualmente ‘in carico’ a SEL ed M5S.

Far finta di nulla o, peggio, paventare ai cittadini un governicchio di ristrette intese servirebbe solo ad accentuare la sfiducia degli elettori e la rabbia dei cittadini.
A sentire i Democratici – in nome dell’emergenza, si badi bene – serve uno ‘scatto di responsabilità’ da parte del PdL e che per loro si tratta solo di ‘un cammino altanelante’, mentre i conti del governo Monti-Bersani iniziano a non tornare, serve una nuova manovra, c’è cenere sotto il tappeto, le politiche di Elsa Fornero sono palesemente un disastro, l’IMU e la TARES sono de facto delle patrimoniali.

Un governo Monti fortemente voluto da Eugenio Scalfari che, come ricorda Verderami del Corsera, si è rappresentato come un’anomalia fin dall’inizio, dal novembre 2011, quando, invece di sciogliere le Camere, Giorgio Napolitano nominò senatore a vita Mario Monti per poi indicarlo come premier di un ‘governo del presidente’ e per poi ritrovarselo come leader di partito.
Un semipresidenzialismo di cui non v’è traccia nella Costituzione, un dirigismo di cui non v’è traccia nella storia nazionale, salvo il primo gabinetto Mussolini indicato direttamente dal Re. Un errore ed un equivoco che persistono e che ‘il popolo bue’ percepisce ampiamente.

Intanto, il Financial Times scrive, oggi, di “Napolitano gigante di Roma tra i nani della farsa italiana”. Purtroppo, i nani non leggono l’inglese e la ‘base’, per loro, sono solo quelli che incontrano in piazzetta o nel salotto buono …

originale postato su demata

Province in rivolta, Italia sotto ricatto?

8 Nov

Nel 2011 le spese sostenute dalle Province sono state pari a circa 11,6 miliardi di euro (fonte Siope, 2011).
Queste le singole voci di spesa:

  1. trasporto pubblico extraurbano; gestione di circa 125 mila chilometri di strade nazionali extraurbane: 1 miliardo 430milioni di euro.
  2. difesa del suolo, prevenzione delle calamità, tutela delle risorse idriche ed energetiche; smaltimento dei rifiuti: 3 miliardi e 200 milioni di euro.
  3. gestione di oltre 5000 gli edifici scolastici: 2 miliardi 210 milioni di euro.
  4. gestione di 854 Centri per l’impiego; sostegno all’imprenditoria, all’agricoltura, alla pesca; promozione delle energie alternative e delle fonti rinnovabili: 1 miliardo 100 milioni di euro
  5. promozione della cultura: 190 milioni di euro
  6. promozione del turismo e dello sport: 210 milioni di euro
  7. servizi sociali: 180 milioni di euro
  8. costo del personale (61.000 unità): 2 miliardi 300 milioni.
  9. amministrazione e manutenzione del patrimonio: 750 milioni di euro
  10. indennità degli amministratori: 111 milioni di euro

E’ di questi giorni la notizia che la spending review tagli 500 milioni di spese alle Province e che i loro presidenti non ci stanno, anzi, propongono cose come “la chiusura dei riscaldamenti nelle scuole (superiori, ndr) e conseguentemente l’aumento delle vacanze per gli studenti”.
Oppure precisa il neo presidente dell’Unione Province Italiane, Antonio Saitta, “siamo pronti anche  ad interrompere i lavori di manutenzione nelle scuole. E quando qualche procuratore della Repubblica, come accade nella provincia di Torino con il bravo Guariniello, ci dirà che i lavori debbono essere terminati, noi opporremo un netto rifiuto, visto che le risorse non ci sono più”.

Ma le risorse ci sono o, meglio ci sarebbero, visto che la gestione degli edifici scolastici rappresenta solo un quarto dell’intero volume finanziario provinciale e che per i costi di personale si spende altrettanto, mentre per amministrazione e manutenzione del patrimonio vanno via ben 750 milioni di euro.

Ebbene si, le nostre indispensabili province per gestire poco più di 8 miliardi di servizi ne spendono circa tre per funzionare tra personale e patrimonio.
Ed, ovviamente, i loro consiglieri e presidenti non sono neanche sfiorati dall’idea che il taglio da 500 milioni che la Repubblica Italiana gli chiede sia da destinarsi principalmente a quel 25% di spese che le Province mettono a bilancio come ‘costi interni’.

Un anno fa, l’abolizione delle Province era sulla bocca di tutti e non c’era nessun ostacolo a trasformarle in distretti amministrativi, con costi sensibilmente inferiori. Mario Monti non ha voluto in alcun modo scontentare la Casta e, seppur con qualche taglio, tante Province sono rimaste in piedi.
Errore grave se non diabolico, visto che lor signori, avuta salva la poltrona, vogliono (come al solito?) scaricare i tagli sui servizi e non sulle prebende.

Vi sembra un esempio di senso civico e di responsabilità istituzionale minacciare di non mettere in sicurezza le scuole o lasciare gli studenti senza riscaldamento?

originale postato su demata

Spending review? No, manovra correttiva agostana …

3 Lug

Mario Monti rassicura i partiti: ‘è una spending review, non una manovra correttiva’. Eppure, se si trattasse di questo parleremmo di oltre 200 miliardi di Euro, come ha precisato pochi giorni fa proprio uno dei superconsulenti voluti da Mario Monti.
Qui parliamo – molto più prosaicamente – di un taglio delle spese di personale e di fornitura per ‘raccogliere’ quei 5,3 miliardi di euro che servono con urgenza, dato che i conti del decreto Salvaitalia si sono rivelati fin troppo ottimistici: i ‘professori’ avevano sottovalutato gli effetti negativi della ‘mancanza di speranza’, ovvero recessione, stagnazione, evasione fiscale, speculazione finanziaria.

Una ‘realtà’ che sembra non essere percepita nè dai media nè dal Partito Democratico, attestato dietro Bersani e D’Alema, che sembrano non aver imparato la ‘lezione della Seconda Repubblica’, ovvero che essere il maggior partito o la ‘fazione’ più coesa non comporta ‘ipso facto’ che si sia in condizione di governare e che, senza un pensiero economico, un programma economico, anche il maggior conglomerato di voti è in balia delle ‘correnti’. L’arroganza con cui è stato ‘censurato’ il buon Fassina ne è un eccezionale esempio e ci conferma che il ‘metodo’ non è cambiato da 50 anni a questa parte.

Uno scenario che si racchiude in quattro dichiarazioni, ben rappresentative ed inequivocabili.

«Se per decenni si indulge ad assecondare un superficiale ‘tiriamo a campare’ oppure si indulge nell’iniettare nei cittadini la sensazione che tanto il Paese può, per le sue risorse, non affrontare problemi seri che le altre nazioni affrontano, forse deve venire il momento in cui, anche a scapito di una temporanea perdita di speranza, bisogna affrontare i problemi seri» – Mario Monti a Palazzo Madama per la presentazione del libro del ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, Andrea Riccardi.

«È evidente che se il governo pensa di procedere al taglio degli organici e alla riduzione dei servizi getta benzina su una situazione molto difficile» – Susanna Camusso, segretario della Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori.

«Mentre Sagunto brucia, a Roma si succedono riunioni di congiurati per decidere come buttare giù il governo prima dell’estate e provocare così le elezioni anticipate a ottobre.La voglia di far saltare tutto, si sa, serpeggia da tempo in entrambi i maggiori partiti. Ma se nel Pd Bersani ha l’autorità per zittire un Fassina, nel Pdl pare che Alfano non ne abbia abbastanza per mettere a tacere una folta schiera di sediziosi, ex ministri berlusconiani ed ex colonnelli finiani» – Massimo Polito, editoriale del Corriere della Sera del 16 giugno 2012.

«A questa maggioranza dico da parte di tutti i giovani che avete rotto i coglioni!» – Franco Barbato (IdV), mentre stava illustrando un proprio emendamento alla spending review nell’dall’Aula di Montecitorio.

Intanto, l’unico ministro che sembra aver firmato la proposta di tagli delle piante organiche del 20% per i dirigenti e del 10% per gli altri dipendenti è l’Ammiraglio Giampaolo Di Paola, il cui ministero, la Difesa, ha già decurtato di un quinto il proprio personale, con un piano decennale di prepensionamenti e mobilità che ridurrà di circa 30.000 unità il numero dei dipendenti militari e civili.

Dunque, non sono solo il popolo bue, l’antipolitica che avanza od i congiurati romani a complottare contro il governo di Mario Monti. A quanto pare sono gli stessi ministri a non credere in questo spending review, “anzi, più di un ministero ha chiesto di lasciare quella regola fuori dai propri uffici” ci ricorda il Corriere della Sera.

E, d’altra parte, chi mai potrebbe crederci, se prendiamo atto che Monti ed i suoi superconsulenti vorrebbero fare a luglio ed agosto quello che non hanno fatto in sette mesi di ‘governo tecnico’ e non s’è fatto in 18 anni di Seconda Repubblica.

originale postato su demata

Spesa pubblica: due conti in croce

29 Giu

I dati forniti da SIOPE e diffusi mesi fa dall’Unione Province Italiane (link) descrivono la distribuzione della Spesa Pubblica italiana e forniscono – nell’estremo tentativo di salvare gli enti politici provinciali – un quadro alquanto desolante, per quanto relativo alla situazione generale, e fin troppo deludente per quanto inerente l’azione di governo esercitata da Mario Monti ed i suoi prescelti.

Infatti, mettendo in tabella i dati SIOPE-UPI sul 2011 insieme ai dati forniti dal Ministero dell’Interno e dal MIUR – riguardo le proprie spese (2010) – e dalle Regioni e Province – relativamente al numero dei consiglieri – ecco cosa ne viene fuori.

Dati che vanno letti considerando che un consigliere comunale del Comune di Sassari ci costa solo 13.338 Euro all’anno, trasferte e rimborsi inclusi. (leggi anche sui CdA, Lo scandalo degli Enti Strumentali)

Se questo è il costo dei cosiddetti ‘apparati’, ovvero dei consiglieri-parlamentari e dei rispettivi gruppi consiliari, non è che con la sommatoria – incompleta- della spesa pubblica si vada meglio.

Fatti salvi circa 11 miliardi di Euro spesi per il Ministero dell’Interno e palesemente insufficienti, non è chiaro per quali motivi l’Italia abbia una spesa per l’Amministrazione Centrale di quasi 200 miliardi a fronte di una spesa complessiva delle Amministrazioni locali di ‘soli’ 135 miliardi, in cui rientrano strade, porti, reti locali, ambiente eccetera.

Quanto ai due soli servizi (istruzione e sanità) dove Stato e Regioni hanno competenze condivise, i dati raccontano che per la scuola si spende troppo poco, mentre per la salute si spenda troppo e male.

Male non solo per i servizi scarsi o inutili che arrivano ai cittadini, ma soprattutto perchè, se le Regioni spendono tre volte tanto per ASL e ospedali di quanto spendano per tutto il resto, è presto spiegato il disastro italiano.

Infatti, con una sproporzione tale – in termini di volume finanziario e di bisogni dei cittadini da soddisfare – non è improbabile che non pochi consigli regionali siano ‘dominati’ da lobbies afferenti al settore sanitario, come non pochi scandali dimostrano, dalla Regione Puglia agli ospedali cattolici romani o milanesi.

D’altra parte, 116 miliardi di spesa sanitaria annui sono una cifra enorme che richiederebbe ben altro che una spending review, in questi tempi di crisi. Infatti, non saranno i 246.691 infermieri (10 mld di spesa annua?), i 46.510 medici di base ed 7.649 pediatri (altri 5-6 miliardi) coloro che inabissano la spesa del Servizio Sanitario Nazionale.

Dei restanti 100 miliardi va cercata e chiesta ragione ai medici ospedalieri ed ai consigli di amministrazione delle ASL, non ad altri.

Sarebbe interessante sapere anche perchè quei 300 miliardi di previdenza siano congelati nelle casse dello Stato, anzichè diventare denaro circolante, con un sistema di previdenza privata sotto controllo pubblico come in Germania.

Come anche, ritornando alle ‘spese dell’Amministrazione Centrale’ per 182 sonanti miliardi di euro, sarebbe bello sapere in cosa consistano, visto che i beni monumentali languono e le infrastrutture attendono.

Sarebbe importante sapere, anche e soprattutto nell’interesse di Roma Capitale, quanta parte di questi miliardi siano andati a costituire lo strabiliante PIL che per anni fu vanto di Walter Veltroni e delle sue giunte e di cui, da che c’è crisi, non sembra esserci più l’ombra. Ma questa è un’altra storia.

Leggi anche Tutti i numeri delle Province

originale postato su demata

Lo scandalo degli Enti Strumentali

29 Giu

Sfogliando un breve documento curato da SIOPE e diffuso mesi fa dall’Unione Province Italiane (link) ci si imbatte in una pagina semi-vuota (la sette) contenente solo un breve, quanto eloquente, testo.

In questo momento esistono oltre 7000 enti strumentali (Consorzi, Aziende, Società) che occupano circa 24 mila persone nei Consigli di Amministrazione.  Il costo dei compensi, le spese di rappresentanza, il funzionamento dei consigli di amministrazione, organi collegiali, delle Società pubbliche o partecipate nel 2010 è pari a 2,5 miliardi.

Dati eclatanti, specialmente se vengono aggregati in tabella con altri dati forniti dalla UIL nel 2008, ovvero nella stessa legislatura.

  • Totale spese (Reg, Prov, Com)    7.026.105.352 €
  • di cui spese a carico Regioni    5.217.319.061 €
  • Spesa Enti e Agenzie Regionali    3.684.447.564 €
  • Totale enti strumentali    7.000
  • CdA (n° membri)    24000
  • Compensi e spese CdA    2.500.000.000 €

.

A far due conti della serva, scopriamo l’esistenza di un piccolo esercito di fortunati (i 24mila consiglieri di CdA) che riscuotono in media 100.000 euro pro capite annui e che fanno il bello ed il cattivo tempo negli Enti Strumentali, ma, in particolare, in quegli Enti e Agenzie Regionali che spendono spandono in un anno 3.684.447.564 € di fondi regionali.

A questi vanno ad aggiungersi le spese per altri – e noti – Enti Strumentali, come le ARPA (Agenzie regionali per l’Ambiente)   che spendono in un anno   532.225.966 euro, le Comunità Montane che costano 565.402.035 euro e le Unioni di Comuni (perchè non farne uno solo?) che gravano di altri 243.289.662 euro.

Gli stessi Enti e Agenzie Regionali di cui spesso ci chiediamo come assumano, a cosa servano, eccetera. Specialmente nel Meridione e nelle Isole, visto che il ‘lauto banchetto’ non tocca le Autorità Portuali (42.735.459 euro di spese) e le Aziende di promozione turistica (57.999.451 euro).

Forse, visto che parliamo di 2-3 miliardi di euro di compensi dei CdA degli Enti Territoriali, sarebbe stato equo congelarli invece che bastonare lavoratori senior a due  metri dalla pensione o giovani in cerca di esperienza e futuro, facendo precipitare il paese nella recessione.

Fortunatamente, c’è ancora tempo per farlo e, non dimentichiamolo, dovrebbe essere un ‘atto dovuto’ se i bilanci dell’azienda o delle regioni fossero in deficit.

Leggi anche Tutti i numeri delle Province

Leggi anche Spesa pubblica: due conti in croce

originale postato su demata

Tutti i numeri delle Province

29 Giu

Un documento dell’Unione Province Italiane – presentato il 20 gennaio 2012 (link) – descrive per linee generali come e quanto spendano i nostri enti provinciali, permettendoci di comprendere nel dettaglio a cosa servano, in cosa siano indispensabili, per quali motivi vadano abrogate.

Partendo dal ‘costo della politica’, dobbiamo annotare che i 1774  consiglieri e presidenti provinciali costano 111.000.000   di euro annui, ovvero 62.570 euro a testa.
Sembra poco, se pensiamo che il costo pro capite di un parlamentare si aggira intorno al mezzo milione di euro. E’ davvero troppo, se consideriamo di quanto poco si occupino le Province e che un consigliere comunale a Sassari costa circa 13.350 euro annui.

Infatti, venendo alle ‘competenze attribuite’, i bilanci provinciali dimostrano come le funzioni effettive – quelle che vanno necessariamente delocalizzate e per le quali si spende circa metà dei bilanci provinciali, 5,5 mld di euro – si esplichino principalmente in:

  1. gestione trasporto pubblico extraurbano
  2. gestione 125.000 km chilometri di strade nazionali extraurbane
  3. edilizia scolastica dei 5000 edifici destinati agli istituti superiori
  4. istruzione e formazione professionale
  5. centri per l’impiego (854)

Dunque, basterebbero un amministratore dei lavori pubblici ed uno per il lavoro e la formazione professionale – senza scomodare un intero consiglio provinciale – come basterebbe un terzo delle province esistenti, visto che, ad esempio, Milano con 45 consiglieri riesce a gestire un territorio ad elevatissima complessità e centralità a fronte dei ben 56 consiglieri che sono indispensabili, a quanto pare, per gestire le Province di Lecco e Sondrio.

Dulcis in fundo, ‘l’efficacia e l’efficienza’ delle amministrazioni provinciali, riguardo le quali il dato è desolante anche non tenendo conto delle tante denunce e dei troppi scandali che hanno segnato i consigli provinciali in questi anni.

Infatti, come sorvolare su quei 3 miliardi e passa di ‘entrate da accensione prestiti ‘ iscritte nei bilanci 2008-2011, proprio mentre la Crisi era sempre più palese, la tregenda del debito pubblico greco era arcinota e l’allarme ‘prodotti finanziari’ era stato lanciato da Bankitalia? Specialmente se leggiamo che la spesa per interessi nel 2011 assomma a ben 624.214.126 euro.

E come commentare – dinanzi al regressivo quadro nazionale – quei 4 miliardi spesi in cultura, turismo e sport, che troppo spesso, evidentemente, sono consistiti in ‘festa, farina e forca’, ‘panem et circenses’, velleità provinciali e gigantismi metropolitani o, meglio, consenso e clientela?

O come non sapere per diretta esperienza in che condizioni sono gli edifici scolastici ed in quale caos è la tutela ambientale e la raccolta rifiuti in certe aree del paese.

Certo, quello che emerge dal documento dell’Unione Province Italiane è che non sono loro il male maggiore, ma di questo se ne parla altrove (Lo scandalo degli Enti Strumentali).

Quel che conta – e che non vogliono capire – è che ‘mal comune’ non equivale a ‘mezzo gaudio’ se ci si mette dal lato degli elettori: mal comune, mal-contento generale.

Saremmo all’A B C della politca, a dire il vero …

Leggi anche Spesa pubblica: due conti in croce

originale postato su demata

Enav, la nuova Tangentopoli

23 Nov

Ai tempi della Prima Repubblica, lo schema della corruttela era semplice: i partiti “offrivano servigi”, le aziende foraggiavano i partiti in cambio di commesse, una parte dei funzionari pubblici chiudeva un occhio in cambio di carriera o di moneta.

Lo schema di corruttela che emerge in questi giorni dallo scandalo Enav conferma che tutto è cambiato e che il “traffico” è tutto interno alla Funzione Pubblica ed al paraStato.

Partiamo dall’inchiesta Why Not calabrese, dove la formazione professionale veniva convenzionata con sigle di comodo, strettamente legate alla politica, che a loro volta provvedevano a girare una parte delle somme ai “benefattori”, oltre che a procacciare consenso, con buona pace dell’upgrade del territorio, dell’emancipazione femminile, dell’occupazione giovanile e dell’assistenza ad anziani e disabili.

Uno schema che ritroviamo scientificamente applicato nella devastazione dell’isola della Maddalena, che appare come un’opera realizzata al solo scopo di spendere denaro pubblico in favore di noti e meno noti personaggi “interni al sistema”, oltre che alla solita macchina del consenso.

E, siccome al peggio non c’è mai peggio, ce lo ritroviamo anche nel “caso Sesto”, che coinvolge il PD, dove, seppur perseguendo la giunta le finalità pubbliche prefissate, la sensazione è che tutto fosse funzionale ad alimentare un cartello transregionale di imprese del paraStato.

Arriviamo all’Enav (o meglio allo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze) e ci ritroviamo sulla stessa barca: attività gestionali e finanziarie fine a se stesse, finalizzate ad alimentare imprese del paraStato e partiti. Un’attività ricorrente, se parlassimo di fabbriche di armi come Finmeccanica.

Imprese del paraStato che non sono solo, però, Finmeccanica, Enav, Alitalia, AMA, ATM eccetera, ma anche le onlus dei “malati”, che non vediamo mai al capezzale di qualcuno, o come le cooperative del sociale, che vivono di politica e sono una fabbrica di precari, o come gli enti certificati, che in 10 anni hanno prodotto migliaia di giovani tecnici “superiori”, solitamente a spasso o sottoccupati.

Un enorme buco nel welfare e nelle infrastrutture del nostro paese. Cosa aspetta Monti (e l’Europa che finanzia questi settori) a cambiare tutto?

Ad ogni modo, l’affaire Enav, o meglio Finmeccanica, contiene un grande elemento di novità: è il primo scandalo della “grande” finanza pubblica italiana, dai tempi della Banca Romana, che emerge nella Capitale, a stretto contatto con i “palazzi” e con le centrali di partito. L’affaire Lockeed, che defenestrò Giovanni Leone e diversi ministri, chiudendo l’era del Pentapartito, è di gran lunga inferiore a quello che è chiuso nei forzieri di Finmeccanica (e non solo), che, naturalmente, nessuno ha interesse ad aprire, ma che inevitabilmente andranno a riaprirsi, visto il prevedibile passaggio di proprietà o,comunque, i profondi cambiamenti gestionali che dovranno arrivare.

Cosa aspettano i media televisivi a togliere la sordina sui troppi scandali eclatanti di cui si parla molto poco? Non è dell’attuale “concept di stabilità” che avranno bisogno i cittadini che, tra non molto, dovranno essere convinti a recarsi alle urne per eleggere un nuovo parlamento con nuove regole, oltre che votare per comuni ed europee.

Se l’astensionismo dovesse avere un peso rilevante, tra un anno, sarà evidente che silenziare gli scandali ripaga con una pessima moneta: diffidenza ed esclusione, instabilità.

Dieci anni di devastazione del paese possono anche chiudersi con un’amnistia ed una restituzione, in nome della pacificazione generale, ma l’entità del maltolto, la gravità dei danni e, soprattutto, la permanenza nel sistema di gran parte degli “orchetti della Seconda Repubblica” impongono che si conoscano fatti e nomi.

Ne va la stessa attendibilità del sistema di informazione della pubblica opinione e qui sì che parliamo di “stabilità” e “consenso”.

originale postato su demata