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Tagli alla Rai, Grillo contro Renzi. Ma c’è qualcosa da sapere

19 Mag

Consultando la Guida Rai scopriamo che ha 15 canali televisivi in chiaro e sei radiofonici.
Sono Rai1, Rai2, Rai3, Rai4, Rai5, RaiMovie, RaiPremium, RaiGulp, RaiYoYo, RaiStoria, RaiScuola, RaiNews24, RaiSport1, RaiSport2, Rairadio1, Rairadio2, Rairadio3, Rai Isoradio, Rai GR Parlamento, Raiweradio6, Raiwebradio7, Raiwebradio8.

Ma quella che tutti credono essere la televisione commerciale di Stato italiana è una società per azioni, concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo in Italia, i cui rapporti sono regolati da una convenzione triennale che scadrà il 6 maggio 2016. È una delle più grandi aziende di comunicazione d’Europa, il quinto gruppo televisivo del continente a corrispettivo di ampia fascia  della popolazione italiana che vede quasi solo Rai e non ha mai navigato su internet.

Sulla piattaforma digitale terrestre in chiaro, i canali del gruppo Rai ottengono il 6,78% di share, mentre i canali del gruppo Mediaset il 6,51%; nella piattaforma satellitare, invece, Rai quasi ‘scompare’ e i gruppi preferiti sono Discovery (5,43% nelle 24 ore), Sky (4,99%), Fox (1,64%).
Semimonopolista a casa propria, un nano in termini internazionali.

Lo sperato accesso al ‘mondo’ tramite l’upgrade satellitare è venuto meno, in questi vent’anni, per la carenza di una produzione autonoma di cartoon, di documentari, di serie televisive avvincenti, di un reale supporto alla musica italiana, che anche su Youtube ha una presenza ‘povera’.

Radio Televisione Italiana Spa è un’azienda prettamente romana, con sedi in ogni capoluogo di regione e provincia autonoma e un vasto numero di sedi di corrispondenza dall’estero dove lavorano stabilmente diversi giornalisti , ma gran parte dei Centri di produzione televisiva sono nella capitale italiana con le sedi di via Teulada (8 studi) e Saxa Rubra  (14 studi), più i sei Studi Dear, il Teatro delle Vittorie, l’Auditorium del Foro Italico. Società controllate sono Rai Pubblicità, RaiNet, Rai Way, Rai World, Rai Cinema, 01 Distribution; società collegate risultano San Marino RTV, Tivù, Auditel, Euronews.

La corresponsione di una quota del canone televisivo (imposta)  alla Rai Spa da parte del governo in carica dovrebbe essere determinato dal rispetto del Contratto di servizio, che prevede:

  • Articolo 2.3 “La concessionaria è tenuta a realizzare un’offerta complessiva di qualità, rispettosa dell’identità, dei valori e degli ideali diffusi nel Paese, della sensibilità dei telespettatori e della tutela dei minori, rispettosa della figura femminile e della dignità umana, culturale e professionale della donna, caratterizzata da una ampia gamma di contenuti e da una efficienza produttiva”
  • Articolo 3.1 La Rai riconosce come fine strategico e tratto distintivo della missione del servizio pubblico la qualità dell’offerta ed é tenuta a … improntare, nel rispetto della dignità della persona, i contenuti della propria programmazione a criteri di decoro, buon gusto, assenza di volgarità, anche di natura espressiva”
  • Articolo 12.4 “La Rai si impegna affinché la programmazione dedicata ai minori … proponga valori positivi umani e civili, ed assicuri il rispetto della dignità della persona e promuova modelli di riferimento, femminili e maschili, egualitari e non stereotipati”
  • Articolo 13.6 La Rai si impegna a collaborare, con le istituzioni preposte, alla ideazione, realizzazione e diffusione di programmi specifici diretti al contrasto e alla prevenzione della pedofilia, della violenza sui minori e alla  prevenzione delle tossicodipendenze”

Da quello che vediamo da anni in televisione, parlare di pieno rispetto del contratto da parte di Rai spa è davvero difficile.

Ovvio che vada a finire che il bilancio di Radio Televisione Italiana  è una frana, tra inandempienze al contratto e cittadini che si rifiutano dal pagare il canone e tra le folli spese (senza dimenticare lo strabordante organico ed i super-compensi) di quella che è una televisione commerciale con vip, star e tanti lustrini.
Il dato per il 2014 è di 350 milioni di debiti che saranno ripianati con le tasse degli italiani, onde  – soprattutto – evitare all’elefantico apparato radiotelevisivo romano di subire tagli occupazionali e qualche dismissione.

E’ evidente che chiunque voglia un’Italia diversa dall’attuale, voglia anche una televisione pubblica con meno sprechi e meno pubblicità, con programmi adatti ai bambini e a chi voglia apprendere od informarsi, che non trasformi le donne in soubrette sboccate e gli uomini in machos tracotanti, che è non ‘talmente pubblica’ da dover usare troupe esterne persino per le partite di calcio che si giocano a Roma.

Detto questo, sarebbe da capire perchè, se il governo vuol mettere mano a questa annosa e vergognosa questione, arriva Beppe Grillo e ci annuncia che “continua il saccheggio di un bene comune e adesso tocca alle infrastrutture della tv pubblica. … Tutti restano sul vago…”cominceremo solo col vendere un 40% di quote di Raiway…” e poi “faremo un nuovo piano industriale…” e ancora: “anche negli altri paesi si privatizza”, con l’immancabile citazione finale della BBC.”

Bene comune?
Ma se lo stesso Grillo, due mesi fa, strillava all’Ariston di Sanremo che «la Rai è la responsabile del disastro di questo Paese», «La Rai è un servizio pubblico? Vi sembra un servizio pubblico un’azienda che perde 7,8 milioni nel 2010, 7,5 nel 2011 e quasi 5 milioni nel 2012. Adesso la Corte dei Conti ha detto state spendendo troppo, dovete abbassare i costi».

E, poi, sul proprio portale, sotto il titolo #BeppeaSanremo2014, precisava: «Il bilancio della RAI al 31 dicembre 2012 si è chiuso con una perdita di 250 milioni di euro. Il bilancio del 2013 dovrebbe chiudersi con una perdita che sfiora i 400 milioni di euro». «Per il festival di Sanremo in tre edizioni (2010/2011/2012) la Rai ha perso circa 20 milioni di euro».  «In sintesi l’andamento dei costi, risulta ancora nettamente superiore ai ricavi pubblicitari con negativi riflessi sul Mol (margine operativo lordo) aziendale; è necessario pertanto che vengano adottate adeguate iniziative volte a conseguire una più significativa razionalizzazione dei costi».

E quali iniziative se non l’afflusso di nuovi capitali, privatizzando una quota di minoranza di Raiway, e un piano industriale che concentri risorse e potenzialità?

Intanto, prendiamo atto che Beppe Grillo in meno di tre mesi è passato dal considerare la Rai ‘responsabile del disastro di questo paese’ a ‘bene comune’ e … che – anche per quest’anno – la cara tivù ‘italiana’ ci costerà qualche soldo in più del dovuto.

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Fuori dall’Europa, c’è solo l’Italia del declino

19 Mag

L’Italia, nel 2010, era calata all’8° posto per import-export nel mondo, con una quota del 3% a livello globale.
Una potenza mondiale, dirà qualcuno, che ha un peso commerciale tale da potersi permettere una valuta autonoma, una moneta nazionale.

Il punto è che dalla Germania importiamo quasi il 16%, ma esportiamo solo il nostro 11% (pari ad un mero 5,5% se visto come import tedesco), a beneficio delle regioni del Norditalia, ovvero il 13,1% dell’export veneto, il 23,6% dell’export del Piemonte, e il 14% di quello lombardo.
Un export tedesco che è passato, dal 2000 al 2011, dal 33,4 al 50,1% del Pil, grazie alla crescita dell’export verso la Cina Popolare dall’1 a oltre il 6% tra 2000 e 2011, specialmente a discapito dell’Italia.

Aggiungiamo che l’Italia esporta l’11% verso la Francia da cui importa l’8% dei prodotti, cioè è il secondo fornitore commerciale dei francesi, mentre risulta quarto come cliente.
I flussi verso/da gli altri paesi europei dell’Eurozona sono poco rilevanti (entro il 3% del prodotto movimentato dall’Italia, salvo la Spagna al 5-6% di import-export), più interessanti i flussi mercantili verso Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti, ma messi insieme non vanno oltre il 20% del totale del nostro import-export.

In parole povere, per la Germania siamo commercialmente ininfluenti, ma i loro mercati sono determinanti per il Norditalia, mentre la Francia tutto può permettersi fuorchè un’Italia che vada ad incrementare l’inflazione o la disoccupazione dei francesi.
Per Gran Bretagna e Svizzera, viceversa, un’Italia fuori dall’Eurozona potrebbe non dispiacere affatto, visto che parliamo ancora del secondo paese manifatturiero d’Europa, ma, se Piazza Affari è ormai almeno al 36% di fondi stranieri, c’è davvero da andare cauti.

E’ evidente che uscendo dall’Euro le ripercussioni da parte di Francia e Germania sarebbero significative, come lo sarebbe la fuga dai nostri bond che esploderebbero negli interessi provocando il crollo del nostro debito, mentre sarebbe davvero da capire quanto la Gran Bretagna e altri cointeressati ci attendano a braccia aperte.

La causa dei nostri mali?
Innanzitutto, il rapporto lira-euro che si è rivelato troppo favorevole, cioè ottimo all’inizio e pessimo dopo. Un errore di valutazione di Romano Prodi che ci è costato molto caro.

Poi, c’è il federalismo mai attuato a livello di fiscalità e di servizi, come anche la ristrutturazione del ‘capitalismo di Stato’ (a partire dall’Inps e da Cassa Depositi e Prestiti) e l’innovazione e semplificazione dell’apparato pubblico.  E qui, se la sinistra ha delle resposabilità gravissime, è anche vero che Berlusconi non ha affatto tentatodi fare le riforme che aveva promesso.

Infine, l’insano impulso alla decrescita, al downgrade, che gli italiani dimostrano ogni qual volta ci sia da crescere, da far vanto della propria nazione, di mettersi in gioco con gli altri paesi.
Ad esempio, voler uscire dall’Europa proprio mentre arrivano le ‘moral suasions’ che potrebbero aiutare gli italiani onesti a riportare l’Italia sul binario del futuro.

Pareggiare un bilancio, pagare le pensioni quando promesso, tenere le tasse al minimo possibile, permettere alle comunità locali di organizzare scuola e sanità entro parametri nazionali/europei, avere dei servizi che sostengano e non intralcino le aziende sane, treni e bus puntuali, strade sicure … l’Europa è questo.
Fuori dall’Europa, c’è solo l’Italia che già conosciamo.

Meglio un uovo oggi che una gallina domani? E dopodomani chi farà l’uovo?

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