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L’Emilia, il Fascismo Agrario e … Yogananda

11 Nov

Alla data del 31 dicembre 1919 i Fasci in Italia erano 31 con solo 870 iscritti; ebbe vita breve persino il primo fascio di combattimento ‘emiliano’ fondato da Dino Grandi a Bologna il 10 aprile 1919.
Ma a partire dal 1920, al culmine del Biennio Rosso, le occupazioni di terreni agricoli convinsero molti latifondisti liberali, principalmente in Emilia, nell’alta Toscana e nella bassa Lombardia, a negoziare la svendita cascine e fattorie a ex-mezzadri, fattori o piccoli coltivatori diretti socialisti.

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Fu questa la nuova categoria di proprietari terrieri, ben più decisa a difendere i propri beni dalle occupazioni rispetto ai precedenti latifondisti, alla quale Mussolini si rivolse per dare consistenza al movimento fascista, sposandone appieno le necessità.
Così, allarmati dalle occupazioni e dai disordini dei braccianti agricoli (diritto di sciopero, aumenti retributivi, suffragio universale, libertà associative e tassazione delle eredità patrimoniali), i nuovi appartenenti alla piccola borghesia agraria, artigiana o del commercio confluirono nel movimento guidato da Mussolini.
In pochi mesi si costituirono oltre 800 nuovi Fasci, con circa 250.000 iscritti, i quali diedero vita alle squadre d’azione, dette spregiativamente “squadracce”, che contrastarono le leghe rosse e bianche durante gli scioperi o le azioni di occupazione, accentuando il già diffuso clima di violenza politica.

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Il 21 novembre 1920, mentre era in atto l’insediamento della giunta comunale socialista a palazzo d’Accursio, alcune squadre fasciste compivano un attacco all’allora sede del comune di Bologna e nella ressa generale morivano dieci sostenitori socialisti e un consigliere comunale liberale, oltre al ferimento di altre 58 persone.
Prefetto e questore, consci da tempo dei piani fascisti, non si preoccuparono di evitare lo scontro. Allo stesso modo gli Organi di informazione che riuscirono a derubricare il massacro a comune fatto di cronaca.

Questo fatto è passato alla storia con il nome di “eccidio di palazzo d’Accursio” a Bologna e viene considerato come la data effettiva di nascita del Fascismo.

Un mese dopo, il 20 dicembre, al Castello Estense di Ferrara i fascisti manifestavano in commemorazione del liberale Giulio Giordani, quando furono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco dalla terrazza, dalla loggia e dalla veranda dei locali della Deputazione Provinciale socialista, lasciando a terra quattro fascisti morti e una sessantina di feriti.

Secondo la questura l’eccidio risultò “preparato da molto tempo e con molta cura” da parte dei socialisti, come rappresaglia per i fatti bolognesi. Il corteo funebre che si svolse a Ferrara rese evidente a tutti il seguito del quale godevano i fascisti, dimostrato dalla partecipazione di migliaia di persone, senza incidenti.

La prova che i fascisti a Ferrara si attenevano agli ordini senza degenerare in scontri e devastazioni facilitò la definitiva affermazione del fascismo presso la corte reale e gli apparati di governo.

Intanto, vale la pena di ricordarlo, proprio nel 1920 a Boston di svolgeva il primo Congresso Internazionale dei Liberali Religiosi, dove Yogananda tenne il suo primo discorso in America.

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L’allora ministro della Guerra Ivanoe Bonomi, nel suo libro  “La politica italiana dopo Vittorio Veneto”, pubblicato postumo nel 1953, così sintetizza l’improvvisa ascesa del fascismo agrario emiliano: “D’improvviso, dopo la tragedia di Bologna, i ceti agrari si muovono, si adunano, si organizzano. Nei borghi della valle padana giovani ufficiali reduci di guerra chiamano a raccolta i loro amici e parenti agricoltori e dicono loro che bisogna difendersi contro quelli che incitano alle violenze violenze e al disordine, contro le correnti che vogliono instaurare la dittatura del proletariato“.

Chissà come sarebbe l’Italia se invece di inviare “guai ai ricchi” e esaltare i “beati poveri di spirito” si comprendesse ed insegnasse che “la libertà dell’uomo è definitiva ed immediata se così egli vuole; essa non dipende da vittorie esterne ma interne.” (Paramahansa Yogananda)

Demata

Autonomia legislativa e fiscale in arrivo. E Roma?

6 Feb

Mentre la Quota 100, il Reddito di Cittadinanza e le liti con l’Unione Europea attiravano l’attenzione della pubblica opinione, il 21 Dicembre 2018 è arrivata in Consiglio dei Ministri la legge sull’autonomia legislativa e fiscale regionale ed a breve sarà pronta, come annunciava il Premier Conte  che “vogliamo trovarci, verso il 15 febbraio, a incontrare i presidenti delle regioni interessate e sottoscrivere con loro un’intesa“.

Le regioni interessate sono Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, mentre l’autonomia da Roma che otterranno riguarda di tutto: rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; professioni; ricerca scientifica e tecnologica; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; finanza pubblica e sistema tributario; beni culturali e ambientali; casse di risparmio e rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Naturalmente, parliamo di soldi. Non soltanto le tasse raccolte sul territorio, ma anche la gestione dei fondi per le imprese, gli incentivi per lo sviluppo economico, per l’occupazione, le garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari, gli aiuti all’agricoltura. Centinaia di miliardi di euro che vorrebbero sottratti ai ministeri e alla Cassa Depositi e Prestiti, cioè a Roma e … il suo PIL. 

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Scrive Il Messaggero: “il Veneto ha chiesto che una quota dei 6 miliardi di euro del Fondo rotativo a sostegno delle imprese gestito dalla Cdp, passi sotto il controllo regionale. Siccome le imprese in Veneto sono quasi il 10% di quelle italiane, significherebbe che circa 600 milioni dovrebbero uscire dalla gestione della Cassa per trasferirsi in quella di qualche finanziaria pubblica veneta. Se la stessa idea fosse sposata da Lombardia ed Emilia Romagna, lascerebbero Roma oltre 2 miliardi di euro di risorse“.

O quella dell’istruzione – a dirlo è  Enrico Panini, assessore al Bilancio, al Lavoro e alle Attività Produttive del Comune di Napoli e segretario ‘storico’ della CGIL Scuola intervistato da Orizzonte Scuola – con la previsione che “programmi scolastici, organizzazione, assunzioni e trasferimenti saranno solo locali”, cioè con stipendi diversi e insegnanti regionali per quasi 200mila cattedre, un quarto del totale del Paese. 

Il “criterio è sempre lo stesso: il numero delle imprese presenti sul territorio. Solo nel Veneto, come detto, è circa il 9 per cento del totale di quelle italiane, che sale al 36 per cento se si aggiungono le altre due Regioni.
Ad esempio, ci sono  le decine di miliardi di euro dei Fondi di garanzia per le opere pubbliche e  per le piccole e medie imprese, quelli dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura o dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare. E poi ci sono porti e aeroporti civili, produzione e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa, sistema tributario, cioè molti più soldi e posti di lavoro delle scuole e dell’agricoltura.

Ricorda Il Messaggero che “se ad una struttura ministeriale viene sottratto oltre un terzo del suo lavoro, è evidente che quella stessa struttura è destinata a disarticolarsi. Diventa inefficiente, ridondante. Con tutte le conseguenze del caso su occupazione e indotto“.

Grandi nubi all’orizzonte per la Capitale, che dovrà inventarsi attività diverse dal gestire denari e servizi altrui, come fa da 150 anni, se persino i romanissimi Gianni Alemanno e Francesco Storace del Movimento per la sovranità devono riconoscere che «il vero rischio per l’unità nazionale, e anche per il suo sviluppo economico, è continuare a disconoscere l’enorme residuo fiscale che viene versato da queste regioni allo Stato centrale».

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Dunque, l’autonomia differenziata NON si qualifica come un razzismo territoriale nell’accesso a servizi di cui tutti gli italiani hanno diritto allo stesso modo.
Accadrà ‘solo’ che il gap di servizi (asili, scuole, sanità, ambiente, commercio, produttività, trasporti) diventerà “legittimo”, cioè ‘quantificabile’ e ‘rivendicabile’ dai cittadini come da parte delle regioni più povere.

E cosa  sarà di Roma nel trovarsi a fronteggiare l’inefficienza e il degrado che ha costruito ostinatamente, senza meritocrazia e innovazione per rendersi attrattiva, privata del potere sui flussi finanziari creati dall’enorme residuo fiscale del Settentrione e costretta a garantire la perequazione tributaria destinata alle regioni meridionali ?

Demata

Perchè l’affluenza alle urne è un problema primario proprio in Italia

24 Nov

Secondo Renzi “l’affluenza è problema secondario” e per Bersani è “sbagliato litigare con Cgil”, ma è nei fatti che in Emilia Romagna  il PD raccoglie il consenso ‘minimo garantito’, il 17,8% dei votanti, la Destra (FI + Lega) arriva sotto l’11%, il ‘nuovo’ 5S raccatta quasi il 5%, NCD e UDC semiestinti al di sotto dell’1%, la Sinistra ‘sinistra’ men dell’1,5%.
E alle urne mancano i voti  di ben 2.214.657 emilian-romagnoli su un totale di 3,5 milioni di aventi diritto al voto.

Dunque, NON è affatto “sbagliato litigare con Cgil”, se il  PD bene o male racimola – in tempi di vacche magre – il ‘suo’ quasi 20% effettivo.

“L’affluenza  è problema secondario” se, però, qualcuno dimostrasse che ad ‘esserci’ è sempre lo ‘zoccolo duro’ del PD, quello delle Coop e delle AssoCult, mentre gli elettori in fuga sono i pensionati con tessera sindacale ‘a vita’, che vedono in qualunque riforma il rischio di ritrovarsi le proprie  pensioni ridimensionate in favore di chi più giovane di loro.
L’affluenza resta un problema primario se insieme al PD c’è solo la Lega e la Destra, tenuto conto che sono – a differenza del centrosinistra – in crescita anzichè in calo. Salvini ormai è sicuro: “Siamo la vera alternativa al Pd. Renzi dovrebbe preoccuparsi, stiamo arrivando”. E come non dargli torto se NCD e UDC sono al lumicino?
Affluenza che affonda duramente le  5S, se in quattro anni son cresciuti solo di 23.000 voti in tutto su 3,5 milioni totali, ed ha voglia Grillo a dire che: “l’astensionismo non ha colpito il M5S”.
Morale della favola le elezioni  sono andate davvero male: non c’è solo l’Emilia Romagna con il suo astensionismo generalizzato. C’è anche la Calabria, una regione notoriamente ‘difficile’, dove PD  e Sinistra ottengono un risultato plebiscitario (61%) ma in realtà potranno contare sul consenso effettivo di un solo cittadino su quattro …

E che le elezioni siano andate davvero male si vede anche dalla scomparsa delle forze centriste, che preannunciano un oligopolio della sinistra nel medio periodo e delle debacle alla Obama o alla Hollande nel lungo (dieci anni).
Forse in tempi anche più brevi, se Matteo Renzi  non dimostrerà rapidamente di voler dare una risposta ai milioni di lavoratori (e contribuenti Inps ed ex Inpdap) danneggiati dalla Riforma Fornero.

Tra poche settimane lo ‘scudo’ del mandato europeo si  esaurirà e la fragilità del governo (come dei 5S) verrà tutta in luce: praticamente tutti i dirigenti pubblici  con ruoli esecutivi sono nati tra il 1950 e il  1962, proprio la fascia d’età che è esclusa ‘da sempre’ dal dibattito politico nel nostro  Paese.
Il vuoto di consensi che si sta allargando a macchia d’olio in Italia deriva anche e soprattutto dall’esclusione di un’intera generazione dai  ruoli direttivi della società, pur dirigendola come esecutivi, cioè garantendone quel poco di  servizi e di  produttività che restano. Una generazione che il sessantenne Grillo ed il quarantenne Renzi escludono a priori, dimenticando  che finchè non convincono (o coinvolgono) proprio questi  opinion maker – ovvero i padri dei ventenni e i figli  dei settantenni – non convinceranno gli altri …

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L’Italia perde tempo

2 Apr

Si perde tempo, l’ha detto Angelino Alfano, in un dichiarazione che suona come una presa d’atto a nome di tutti gli italiani, piuttosto che un’opinione personale.

Si perde tempo e se ne perde tanto, tantissimo, se, ad esempio, la giunta PD-SEL-M5S della Regione Sicilia blocca i lavori nella base militare di contrada Ulmo, pilastro del nascente Mobile User Objective System, il sistema di difesa satellitare USA – proprio mentre Obama porta a casa un accordo tra Israele e Turchia, sostanziale per l’assetto del Mediterraneo.

Come ne stiamo perdendo davvero tanto, in Europa, se l’India pretende di processare soldati italiani e tedeschi, proprio mentre assolve largamente un contingente di propri militari, resosi colpevole di stupri, violenze ed omicidi in missione di peacekeeping in Africa.

Si perde tempo se, rifiutandosi di formare un governo (il Pd con il PdL ed il M5S con il PD), i nostri destini sono procastinati a luglio prossimo, con un governo dubbiamente prorogabile – quello di Mario Monti – che è limitato all’ordinaria amministrazione, ma dovrà far fronte ad una situazione eccezionale.

E nel Governo Monti sta la chiave di volta della strategia del Partito Democratico, obnubilato dai 200 parlamentari ‘che non sarebbero lì’ se non esistesse un premio di maggioranza spropositato, mentre tra gli altri almeno cento sono parte dell’apparato.

Andare al governo con il Popolo della Libertà comporterebbe diverse conseguenze ‘sgradite’, che sarebbe meglio lasciar fare ad un governo transitorio ed un presidente che accondiscenda a qualche strappo alle regole, visto che non si tratta di amministrazione ordinaria:

  1. una legge elettorale che recepisca sia il ballottaggio, sia il senato federale, sia il presidenzialismo, sancendo la fine del bipolarismo e del parlamentarismo;
  2. una riforma della Autonomie Locali, sopprimendo province e comuni sotto i 10.000 abitanti, azzerando un’infrastruttura partitica (ed una tradizione di polemisti da bar dello sport) che ci portiamo dietro dal Dopoguerra;
  3. la riforma della pubblica amministrazione, alla quale, per ovvi motivi, dovrebbe conicidere una serie di leggi sui sindacati, sulla separazione delle carriere, sull’introduzione di un sistema di bilancio ‘europeo’, sui servizi che il Servizo Sanitario Nazionale va a garantire ‘comunque’;
  4. una riduzione della leva fiscale e l’introduzione dei diritti di cittadinanza.

Tutte leggi che il Partito Democratico preferirebbe facesse qualcun altro, ma ponendo i suoi veti,  che il  Movimento Cinque Stelle sosterrebbe anche volentieri, ma che il protagonismo di Grillo impedisce, che il Popolo della Libertà voterebbe, se non fosse per i guai giudiziari di Silvio Berlusconi.

Nessuno che prenda nota del detto anglosassone per il quale se non si è un vincitore, allora non resta che prendere atto di essere un perdente.

Intanto, i dati congiunturali sconfessano la manovra elettorale del Partito Democratico, iniziata da mesi sotto la spinta di SEL e della CGIL, in nome dell’emergenza sociale: la disoccupazione registra, sddirittura, un lieve calo. Sono i giovani a preoccupare con un congruo numero di senza lavoro (37,8%), principalmente donne.

E, se parliamo di giovani e di occupazione, la soluzione non è certo prolungare l’età pensionabile, mantenere una pubblica amministrazione elefantiaca, senza investire in infrastrutture, formazione e produttività. Come il ‘modello’ non può essere di certo quello di Romano Prodi, additato -in Italia come all’estero – come uno dei padri del disastro Eurozona ed eternamente in batteria per un posto al Quirinale.

Siamo sicuri che i circa 200 deputati del Partito Democratico, che sono lì grazie al Porcellum, vogliano davvero tornare a casa con un flop del genere per sperare in una riconferma delle urne?
E cosa staranno pensando quelli del Movimento Cinque Stelle, che potrebbero non contare, alle prossime elezioni politiche, di quei 5-6 milioni di voti arrivati per protesta?
O, parlando di stabilità ed Europa, che qualcuno si sia accorto che, se PdL+Lega+Scelta Civica avessero corso coalizzati, non staremmo neanche a discutere di governi e governicchi?

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Basta liti, iniziamo a dialogare

30 Mar

Il Corsera di oggi scrive che “rigido si è rivelato il centrosinistra, con un Sel fermo a insistere su un mandato pieno a Bersani, per una sfida in Senato su una incertissima fiducia. Ma sulla stessa linea era anche il gran corpaccione del Partito democratico, con eccezioni ancora piuttosto timide”.

“Con tutti i partiti ostaggio di interdizioni reciproche, provocazioni, bluff, rimpalli di responsabilità e, insomma, prigionieri di quelle pregiudiziali e quei «troppi no»”, … se Napolitano “dovesse decidere di lasciare, fino a quando non sarà eletto e insediato il dodicesimo capo dello Stato”, i suoi poteri passeranno nelle mani del «supplente», il presidente del Senato Pietro Grasso.”

Ci presentiamo alla riapertura delle Borse con Pietro Grasso, presidente facente funzioni, e Mario Monti premier in proroga per l’ordinaria amministrazione? Con l’intenzione di restarci per mesi, mentre si litiga prima per chi sarà il futuro presidente della Repubblica e dopo per chi governerà, eventualmente, per un annetto e basta, in modo da riformare la politica ed andare a votare di nuovo?

Tra l’altro, le eventuali dimissioni di Giorgio Napolitano – dopo le sue esitazioni a sciogliere le Camere quando i Finiani tolsero la fiducia al Governo Berlusconi e lo smaccato errore nell’individuare Mario Monti come premier ‘salva Italia’ – rappresentano esattamente il ‘segnale che non va dato’ all’estero come in homeland: l’inizio di una crisi politica di lungo termine per una delle prime economie mondiali.

E per quale motivo i 7 miliardi e rotti di cittadini ‘esteri – con le loro banche, aziende, pubbliche amministrazioni, eccetera – dovrebbero star lì, gentimente, a guardare, aspettando che qualche nuovo trasformismo o qualche conduttore ripristinino le funzioni essenziali del sistema Italia, momentanemente affidate ad un ex magistrato ed un ‘banchiere’?

E’ finita l’epoca dei ‘ma anche’: è l’ora degli uomini di ‘buona volontà’. Questa la Via Crucis di Giorgio Napolitano.
C’è un Paese da rifondare, basta liti, iniziamo a dialogare.

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Bersani – PdL, un accordo (im)possibile?

28 Mar

In questo scorcio di XVII Legislatura – chi diceva che il numero 17 porta male? – sono tanti e troppi i dati, accertati o stimati, che ci raccontano un’Italia molto diversa da quello che ci era stato descritto da sondaggi, statistiche, slogan di partito, giornali e televisioni, chiacchiere da forum o da bar.

Ad esempio, il dato – sorprendente per gli elettori di sinistra – di un Partito Democratico, che vede tra gli eletti molti ex-democristiani e (molto) pochi ex comunisti, socialisti, verdi, radicali e tutto quanto abbia anche marginalmente aderito al modello socialdemocratico.
E’ ovvio che l’elettorato di sinistra, sempre più marginalizzato, oggi si comporti come una mandria impazzita o come un mulo impuntato, cercando altrove soluzioni che non esistono.

Altra singolarità del PD è che almeno un terzo, forse la metà, dei sui eletti sono professionisti della politica.
Che essi debbano esistere è sano e fisologico, dato che ‘strateghi e logisti’ specializzati in regolamenti, bilanci e leggi son sempre necessari. E’ abnorme che siano così tanti – un centinaio almeno solo in Parlamento con tutto il codazzo di sub-professionisti della politica, ovvero sherpa, consulenti, portavoce eccetera.
E’ assurdo che un partito ‘popolare’ che fa le primarie, addirittura, si ritrovi con un apparato così invasivo ed onnipresente.

Dal lato opposto – o meglio, semplicemente complementare – c’è il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi, che al turn over è sempre stato attento.
Purtroppo, il permanere di Silvio Berlusconi ha bloccato il ricambio, anche a causa degli interessi divergenti ‘di certi fedelissimi’, ormai fuori dai gioci per problemi giudiziari o migrati altrove nell’attuale parlamento.

Un Centrodestra che – ad averci un leader vero ed un programma verosimile – avrebbe dalla sua almeno il 35-40% dei consensi, se consideriamo anche i voti raccolti dai Montiani e da FARE.
Anche in questo caso, è ovvio che l’elettorato di destra o moderato, sempre più disorientato, oggi si comporti come una mandria impazzita o come un mulo impuntato, cercando altrove soluzioni che non esistono.

Ed ‘in mezzo’ c’è la Conferenza Episcopale Italiana, un alto clero che non sta mostrando nè sufficiente distacco dal potere e dalla finanza (Mammona) nè capacità di esistere nel sociale, al di là di un (proficuo) ruolo di sussidiarietà allo Stato. Vediamo troppi vescovi al fianco di pessimi politici nelle foto ufficiali, parliamo di una mafiosità e di una corruttela sulle quali non si sono sentiti i tonanti anatemi né gli appelli sociali.

Anche in questo caso, è ovvio che l’elettorato cattolico sia sempre più disorientato –  mentre si reclama il diritto alla vita ma non altrettanto quello alla giustizia, se non anche il dovere all’onestà ed all’equità – e vada cercando ondivago soluzioni che non trova.

Dunque, il problema è che la maggioranza del Paese non trova voce nell’attuale Parlamento, dato che il Movimento Cinque Stelle di proposte fattibili ed alternative a quella di Bersani premier non ne ha fatte.

Una situazione che difficilmente potrà essere risolta con una nuova legge elettorale e con la discesa in campo di Matteo Renzi, ma che neanche i cittadini del movimento di Beppe Grillo avranno grandi chances di gestire o risolvere.

Un governo di tecnici veri ed indipendenti – invece che sui forum, iniziamo a leggere i blog o la stampa estera – ed una maggioranza ‘giovane’ che in un anno e mezzo riformi per bene non solo i quattro spiccioli che Bersani ha messo sul tavolo, ma anche quello che è possibile per giustizia, sindacati, pensioni, sanità ed enti locali.

Beppe Grillo avrebbe dovuto riflettere di più su questa chance: ‘perdere’ qualcosa per vincere tutto e divenire una sorta di De Gaulle italiano. Infatti, molti, moltissimi voti sono arrivati al Movimento Cinque Stelle per il solo motivo che non c’era altro da votare e c’era una chance da dare a qualcuno che voleva ‘cambiare’.

E’ anche e soprattutto dal Movimento Cinque Stelle che gli italiani si attendono le ‘prove’ di una capacità di governo, di proposta e di concertazione, che finora non si è vista.
In attesa di un cambiamento che, per gli italiani, significa anche – forse soprattutto – che non se ne può più della Politica che litiga, mentre il Palazzo crolla.

Come anche, ci si aspetta(va) da un vero partito alternativo che guardasse sia a sinistra ma anche a destra con un occhio al centro: le buone idee e la brava gente non sono mai di un colore solo.

Finita la missione suicida di Pierluigi Bersani, al Partito Democratico non resta che cogovernare con il PdL – che, però, chiede prima la sua testa – oppure è arrivata l’ora che Il Movimento Cinque Stelle dica a chiare lettere quali siano gli elementi di programma vincolanti e quali i nomi o le poltrone. Oppure tutte e due …

Intanto, l’unica proposta sensata di queste due settimane, arriva dal Popolo della Libertà: Gianni Letta presidente della Repubblica, Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi.
Il tutto con l’appoggio della Lega, dato che Maroni ha voluto sottolineare che “è verosimile che il Pdl e la Lega non si oppongono alla nascita del governo Bersani? E’ possibile, non so quanto probabile, ma è possibile. Lo abbiamo detto ieri, è possibile a determinate condizioni”.

Il paese deve uscire da questo stallo, che rischia di prolungarsi fino ad estate inoltrata: Bersani ed il Partito Democratico – avendo la maggioranza alla Camera – facciano quello che va fatto per dare un governo decente all’Italia.

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Bersani al Piano B

27 Mar

Il giorno dopo le elezioni, Pierluigi Bersani sapeva di avere il 22% dei consensi, il 33% dei voti, il 55% dei seggi alla Camera, il 33% di quelli del Senato.
Sapeva anche di non avere tempo, a causa della situazione economica, del forte malcontento popolare e del Presidente della Repubblica con il mandato agli sgoccioli.
Un paio di settimane dall’insediamento dei Presidenti delle due assemblee parlamentari, Camera e Senato, ed, eventualmente, la settimana di Pasqua a seguire, in cui le Borse sono assopite.

E Pierluigi Bersani sapeva molto bene – come ne erano ben consapevoli i suoi colleghi di partito – che si potesse andare al voto di nuovo solo e comunque con il Porcellum, ma, soprattutto, non prima del 25 giugno, a causa della necessità di eleggere il Presidente della Repubblica e del semestre bianco, mettendo i tempi necessari a scioglere le Camere e quelli dovuti alla campagna elettorale,
Chiaro a tutti che il mondo e l’Eurozona non possono attendere l’Italia che prova e riprova a formare un nuovo governo.
Meno evidente l’idea che, senza un governo, Mario Monti continuerà ad oltranza con la sua azione ‘recessiva’ e la Cassa Depositi e Prestiti arrivi al baratro, con l’Italia che segue Cipro, dopo la Grecia, nel downgrade dell’area mediterranea.

Dunque, non c’era davvero un motivo valido per giustificare la prova di forza imperniata da Bersani e la leadership del suo partito.
Se ci si arrocca, non si apre un dialogo in quattro e quattr’otto, ma soprattutto, se il tempo è poco, ci si mette da soli in una condizione di svantaggio.

Un arrocco che si poteva evitare, ad esempio, votando la presidenza della Camera (dove il PD ha maggioranza assoluta) dopo il voto al Senato e, garantitisi la presidenza di Pietro Grasso, lasciare il posto di Laura Boldrini alla candidata del M5S.
Od evitando di portare le bandiere dell’antiberlusconismo anche in Parlamento, a campagna elettorale finita, sbattendo la porta in faccia non solo a lui, Silvio Berlusconi, ma a tutto il PdL.
Un’opportunità che il PdL aveva calcolato, non presentando un proprio candidato e sperando che il PD imboccasse – come avvenuto – la via della forza e non quella del confronto.
Un arrocco, ma anche un doppio errore, visto che stiamo assistendo ad una regina (Bersani) isolata in mezzo alla scacchiera, mentre tutta la squadra sta intabarrata in difesa.

Una situazione disastrosa in cui si è ficcata l’intellighentzia del Partito Democratico (D’alema, Bindi, Marino, Fioroni, Letta, Franceschini, Epifani, eccetera) non concedendo a  Pierluigi Bersani deleghe concrete e complete a trattare alcuni ‘temi caldi’: il finanziamento dei partiti, la legge elettorale, il conflitto di interessi negli enti locali, il taglio delle province e dei piccoli comuni, i costi della politica, la legge sui sindacati.
Urgenze alle quali andrebbero affiancate norme urgentissime per la finanza pubblica, su cui qualcuno doveva già iniziafe a tessere accordi, come quelle necessaria al rilancio di Cassa Depositi e Prestiti, la depenalizzazione per le sostanze stupefacenti e lo svuotamento delle carceri, i servizi pubblici esternalizzati ed il Terzo Settore, le pensioni d’annata ed i sussidi per chi non lavora, la Sanità e le responsabilità erariali connesse.

Purtroppo, Bersani, D’alema, Bindi, Fioroni, Letta, Franceschini, Epifani, eccetera sono riusciti anche a perdere l’ultimo treno prima del calar delle tenebre.

The last train – Evaldas

E così, da qualche giorno, in casa PD si sente parlare di «governo a bassa intensità politica» con un programma molto limitato: riforma elettorale, riforma del finanziamento pubblico dei partiti, riduzione dell’Imu per determinate fasce di cittadini e approvazione della legge di stabilità.

Il tutto per evitare che il M5S di Grillo e Casaleggio vinca smaccatamente delle elezioni attuate con il sistema del Porcellum e per consentire a Matteo Renzi di candidarsi alle primarie nel tardo autunno, quando un po’ di ripresa e qualche pannicello caldo potrebbero aver rabbonito gli italiani, oltre a tante attese sentenze che riguardano Silvio Berlusconi e che metterebbero fuori gioco il temuto Giaguaro.

Ovviamente, il tutto funzionerà se gli avversari politici dovessero stare lì tutti ben fermi e/o prevedibili …
Intanto, mentre si svlgono le utime trattative febbrili e dopo un’arroventata riunione degli eletti, Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera, annuncia «Neanche se si butta ai miei piedi e mi implora di dargli un lavoro… Il gruppo è compatto e lo è anche al Senato».
Compatto lo vedremo … spaccare il Movimento Cinque Stelle era – ed è ancora – il Piano A di Bersani e del Partito Democratico.

Ovviamente chi divide impera, ma seminando vento raccoglie tempesta.

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Camera dei Deputati, quali prospettive?

25 Mar

Arrivano dal sistema sanitario ben cinque degli otto senatori che dal PdL si sono ‘resi disponibili’ fondando il Gruppo Grandi Autonomie e Libertà.
Una coincidenza che, a vedere i pochi dati forniti da Camera e Senato, meriterebbe maggiori approfondimenti.
Fosse solo perchè è la Sanità uno dei luoghi critici del debito italiano, del malaffare pubblico, della riduzione in sudditi dei liberi cittadini, dove saranno da attuare dei tagli, del riordino e delle tutele che la Casta proprio non vuole, se non a patto di privatizzare.

Da quel poco che si evince dai dati della Camera, però, qualche riflessione è possibile.

Innanzitutto, più di un terzo dei deputati ha superato i cinquanta anni d’età (239), altri 159 sono tra i 40 ed i 49 anni, 184 va dai 30 ai 39,  solo 48 hanno meno di 30 anni.
Tutto normale con la curva che l’Italia si ritrova?
Mica tanto. Dei 398 deputati (2/3 del totale) ultra quarantenni, nessuno è del M5S, mentre lo sono ben 109 dei 232 under quarantenni, praticamente la metà.

Più scontro generazionale di così … con i cinquantenni – i ragazzi degli Anni ’80, estromessi ab origine dalle scelte decisionali – più attenti al futuro dei propri figli che ai benifit da incassare dilazionando il cambiamento, a differenza da chi li ha preceduti.

Riguardo le professioni, i dati, che la Camera dei Depuati fornisce, sono al momento incompleti, ma almeno 40 deputati rieletti nel Partito Democratico sono dirigenti, funzionari o impiegati di partito. Uno addirittura si dichiara amministratore locale ‘di professione’.
Quaranta e passa voti che tenderanno, prevedibilmente, a condizionare il voto sui tagli ai partiti ed alla Casta.

Inoltre, sempre riguardo le professioni rappresentate in Parlamento, sembra scarseggino gli ingegneri e gli economisti, che si contano sulla punta delle dita: un atto di gravissima irresponsabilità da parte dei partiti, che avrebbero dovuto e potuto inserire in lista persone capaci di comprendere a fondo e di gestire la crisi infrastrutturale e finanziaria del Paese.

Un altro dato interessante è quello dei rieletti che abbiano superato 50 anni. Ovvero, quanti eletti debbano attendere (e restare occupati) per un tot di anni ancora, prima dell’avito vitalizio.
Il Partito Democratico annovera ben 47 over50 e 13 over60, cioè ben 60 deputati che se dovessero votare ‘secondo coscienza’ certe norme urgenti su Pubblica Amministrazione e Sistema Pensionistico si ritroverebbero con un personalissimo ‘conflitto di interessi’. Per non parlare del finanziamento ai partiti …
Il PdL ne conta quaranta in tutto e tra i pochi montiani sono ben quattro gli ultrasessantenni rieletti.

Poi, ci sono i neo eletti. E tra questi sappiamo già che non è irrilevante il numero di amministratori di enti locali ‘promossi’ prima della cancellazione di comuni e province, che, in vista di una breve legislatura, difficilmente voterebbero tagli a prebende locali e di campanile.

Questi alcuni dei fattori, tra quelli resi noti dai dati, che condizioneranno la legislatura ‘old school’ che Pierluigi Bersani – con un Giorgio Napolitano palesemente scontento – si accinge a ‘tentare’. Considerati alcuni fattori (anagrafici e professionali) non è improbabile che anche al Senato esistano aggregabilità simili.

Probabilmente, un PD guidato da Matteo Renzi poteva dare la scossa a questo Parlamento. Possibilissimo che se Mario Monti non si fosse intestardito contro il PdL, staremmo discutendo di una Grosse Koalition con M5S e SEL, ben vigili – come di dovere – all’opposizione, pronti a sostenere leggi ‘difficili da digerire’.

E se Silvio Berlusconi non avesse dato seguito a Tremonti e Bossi, ma avesse seguito Brunetta e Cicchitto, forse sarebbe arrivato anche il turn over. Come era meglio un incarico di Napolitano, anzichè a Bersani, ad una figura non iperpolemica e più carismatica – interna alla politica (es. Anna Finocchiaro) o parallela ad essa (es. Massimo Rodotà, Gianni Letta).

Non è andata così.

Oggi, circolano i nomi di coloro che, secondo Pierluigi Bersani, dovrebbero affascinare Grillini, Liberali e Leghisti e, soprattutto, guidare il cambiamento: Franco Marini (ex CISL, ex DC, 80 anni), Sergio Mattarella (ex DC e giudice costituzionale, 72 anni) e Pierluigi Castagnetti (ex DC, 68 anni), Guglielmo Epifani (ex CGIL, 63 anni), Giampaolo Galli (ex Confindustria, 61 anni), Giuseppe De Rita (ex CENSIS, 80 anni).
Ed, intanto, a guardare due numeri, l’impressione è che, in questi ultimi 20 anni, il numero di ex democristiani candidati ed eletti nelle fila del Partito Democratico è enorme, praticamente maggioritario, mentre, guarda caso, il suo elettorato chiede – giusto appunto da 20 anni – ‘qualcosa di sinistra’.
Tenuto conto che nel PdL le cose non vanno molto meglio, ecco spiegato sia perchè l’Italia è allo stallo – da un ventennio – sia perchè i mali che la Seconda Repubblica doveva curare si sono, viceversa, incrementati.

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Il governo che non c’è

23 Mar

A quanto si legge, i senatori a vita Carlo Azeglio Ciampi (Gruppo Misto) e Giulio Andreotti (Autonomie) sono in condizioni fisiche tali da non consentire loro di essere presenti al voto di fiducia, ammesso che si arriverà a questo. Allo stesso modo, non potrà votare la fiducia al nuovo governo il presidente Pietro Grasso, per prassi consolidata al Senato.

Iniziamo, così, col dire che Pierluigi Bersani inizia la sua ‘conta dei consensi’ con tre voti in meno rispetto a quanti si potesse prevedere, fermo restante che l’asticella resta a 160.

Senato seggi fiducia

Dunque, ammesso e non concesso che i Montiani aderiscano in toto ad un governo multipartizan con le urne in vista, a Pierluigi Bersani servono ancora quattro voti, oggi, e, prevedibilmente, altri sei dopodomani, visto che SEL in questa Grosse Koalition proprio non si capisce cosa starebbe a fare.

Da dove possono arrivare questi voti?
Dal PdL alla spicciolata, innanzitutto, visto che bastano forse solo quattro voti e che le mele avvelenate sono parte dello strumentario basic della politica.
Dalla Lega, in toto o parte, vista l’eloquente allusione di Bersani (beato chi ci crede) ad ambiziose ‘riforme costituzionali’ e che le mele avvelenate sono parte dello strumentario basic della politica.
Da qualche costola del M5S, entusiastica e buonista, che, forse, non aspetta altro che esser fagocitata dalla Casta o, comunque, si sta solo ora rendendo conto che le mele avvelenate sono parte dello strumentario basic della politica.

Da nessuna parte, visto che più che una mission impossible per Bersani, la formazione di un governo su tali basi appare come una ‘missione suicida’, tanti e tali saranno i balzelli e gli inciuci che una maggioranza così eterocomposita dovrebbe praticare: le mele avvelenate sono parte dello strumentario basic della politica.

Oppure, mentre si mostrano i muscoli in televisione, dato che per Bersani “non c’è altra strada” all’infuori del suo tentativo, il PD lavora sotto traccia, seguendo le chiarissime indicazioni del Presidente Giorgio Napolitano: «le difficoltà a procedere verso la grande coalizione sono apparse rilevanti a causa di profonde divisioni riesplose con la rottura di fine 2012. Insisto sulla necessità di larghe intese a complemento della formazione del governo, il quale potrebbe concludersi anche in ambiti più ristretti».

Un concetto, quello delle ‘larghe intese’, che viene chiarito da Silvio Berlusconi – ‘senza Pdl non c’è maggioranza’ – cui fa eco Maroni della Lega – riguardo gli ‘ambiti più ristretti’ – con “siamo in coalizione con il Pdl, ma serve un governo. Non faremo nulla che sia contro la coalizione, concorderemo tutto”.

Intanto, mentre dal centrodestra arrivano ampie disponibilità ad intese, la road map bersaniana  riparte da Beppe Grillo, forse nella speranza di incassare in un colpo solo i 30-40 senatori che mancano al PD+SEL per governare.

E così siamo al “governo civico”, con nomi tutti da scoprire, tra cui i più accreditati, secondo Repubblica, sarebbero Oscar Farinetti (Eataly), Milena Gabanelli (RAI),  Giampaolo Galli (Confindustria), Fabrizio Saccomani (Bankitalia).

Un ‘governo civico’ del tutto ‘scollato’ dai partiti e dai gruppi parlamentari, ovvero in balia di essi …

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Chi sono i 10 senatori di Grandi Autonomie e Libertà

22 Mar

Il Gruppo Grandi Autonomie e Libertà è nato ufficialmente questa notte, dopo che tutti avevano capito che Bersani non avrebbe ceduto il passo ed a chi mai, vista la telefonata poco opportuna di Pietro Grasso a Santoro e Travaglio.
Così accade che dieci senatori decidano – improvvisamente e dopo anni e decenni di fedeltà alla causa del Centrodestra – di rendersi ‘disponibili’, affrancadosi da Berlusconi e dalla Lega.

Sperando che non sia il ‘mercato delle vacche’ profetizzato da Beppe Grillo, vediamo chi sono, giusto per curiosità e per capire l’affidabilità del futuro governo, nel caso il neonato Gruppo Grandi Autonomie e Libertà si rivelerà la ‘stampella’ che Bersani ed il ‘vecchio PD’ cercano.

Mario Ferrara, che è anche il presidente del GAL, è un ingegnere, senatore e segretario del gruppo di Forza Italia al Senato dal 2001 al 2006. Noto per uno degli emendamenti che hanno evitato la riduzione dei benefit dei parlamentari proposta da Giulio Tremonti nella finanziaria 2011.

Di pianificazione urbana si occupa Jonny Crosio, nato a Zurigo ed iscritto nel Registro Svizzero degli Ingegneri e degli Architetti. Quasi sempre presente ai lavori parlamentari, ha votato con puntualità svizzera tutto quanto c’era da votare durante il Governo Berlusconi. Eletto al Senato nelle liste della Lega Nord.

Giovanni Mauro, di professione avvocato e docente universitario, è stato presidente della provincia di Ragusa per il centro destra ed è con Forza Italia dal 2001, fin dalla prima ora del Berlusconismo. Pur avendo vissuto e lavorato in Sicilia, viene candidato e rieletto al Senato in quota Grande Sud nella lista PdL nel collegio Campania.

Luigi Compagna, giornalista e docente universitario di Storia delle dottrine politiche, è diventato senatore nel 1992 con il Partito Liberale, rieletto nel 2001 col  CCD-CDU, col Popolo delle Libertà nel 2008 e nel 2013. Noto per aver proposto (2008) una modifica ad un decreto legge per permettere al giudice Corrado Carnevale di concorrere per il posto di primo presidente della Corte di Cassazione ed un disegno di legge costituzionale (2009), insieme alla senatrice Franca Chiaromonte del PD, per ripristinare l’immunità parlamentare.

Gian Marco Centinaio è (era?) il segretario ed uomo forte della Lega Nord di Pavia, al quale Paolo Mieli, dal Corriere della Sera, chiese conto della sua presenza ad una manifestazione neonazista avvenuta a Pavia il 14 ottobre 2002. Un personaggio che sul proprio sito dichiara che, dal 2009, è assessore al turismo del Comune di Pavia, ma anche  Direttore Commerciale presso “il Viaggio SRL”, dopo essere stato anche Direttore Vendite Canale Agenzie presso CLUB MED ITALIA per circa due anni.

Giuseppe Compagnone è un medico, una vita intera vissuta a Grammichele, in provincia di Catania, di cui è stato il sindaco per le Autonomie, ma inspiegabilmente candidato in Campania dal PdL ed eletto (fortunosamente?) 14esimo in lista.

Anche Giovanni Bilardi è un medico, giá consigliere Regionale della Calabria e capogruppo della Lista Scopelliti Presidente,   unico eletto in Italia per ‘Grande Sud’ al Senato. E’ stato componente della Commissione medica invalidi civili per oltre venti anni e membro del Comitato provinciale Inps. La sua attività politica è iniziata con la militanza, da giovanissimo, nella Dc e nel 1992 è eletto per la prima volta consigliere comunale della città di Reggio Calabria e riconfermato nella carica per ben cinque consiliature. Per diversi anni è stato componente della Commissione edilizia e nel 1998 Presidente della Commissione al Patrimonio edilizio. E’ stato assessore alle Politiche comunitarie del Mediterraneo-Cooperazione internazionale del Comune di Reggio Calabria.

Ed è un medico Antonio Fabio Maria Scavone, primario di radiologia all’ospedale Garibaldi di Catania. Deputato alla Camera dal 1992 al 1994, più volte coinvolto in scandali finanziari dalla ASP da lui diretta. Nel 2003, era Assessore al Personale del comune di Catania nella giunta di Umberto Scapagnini, medico imputato e condannato più volte, tra cui una sentenza confermata in Appello a due anni e sei mesi di reclusione per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale. Eletto al Senato nella lista del PdL.

Lucio Barani, non ci stupiremo, è un medico distrettuale ASL. Ex sindaco dei comuni di Aulla e di Villafranca in Lunigiana, è noto per aver fatto erigere una statua commemorativa di Bettino Craxi, in una piazza a lui appositamente dedicata, mentre un’altra piazza del comune ha cambiato nome da Piazza Giacomo Matteotti a “Piazza dei martiri di Tangentopoli”. Eletto alla Camera dei deputati alle elezioni politiche del 2006 con la lista Dc-Nuovo PSI nella circoscrizione Toscana, grazie alla rinuncia del capolista Gianni De Michelis, è stato il primo firmatario della proposta di legge che assegna lo status di combattente a chi aderì a Salò.

Nella Sanità lavora anche Laura Bianconi, un’ex democristiana (dal 1980),  ex Consigliere Comunale al Comune di Cesena, Capodipartimento regionale alla Sanità per la Regione Emilia-Romagna. Eletta nella lista “Forza Italia” nel 2001, poi col Popolo della Libertà,  si è battuta strenuamente contro il Referendum del 12 e 13 giugno 2006 in materia di procreazione medicalmente assistita.

Acclarato questo, fermandosi ai primi link proposti da Google, ogni commento è inutile.

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