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Aborto: cosa ne sarà della democrazia liberale in USA?

25 Giu

La sentenza Roe vs. Wade della Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1973 introdusse un’interpretazione della Costituzione degli Stati Uniti a protezione della libertà di una donna incinta di scegliere di abortire, come aveva sancito il Regno Unito con Abortion Act del 1967.
A seguire, anche i parlamenti di Francia e Italia riconobbero lo stesso diritto, con la Legge Veil nel 1975 e la Legge 184 nel 1978, ma in USA quel diritto rimase una sentenza, non una legge né un emendamento.

E da quella sentenza Roe vs. Wade in 50 anni sono accadute tante cose.

Innanzitutto, le donne hanno ottenuto la libertà sessuale, ma solo quella, e di conseguenza l’emancipazione è regredita in antagonismo: oggi i movimenti Occupy, Gender e BLM rivendicano una dimensione di diritti ‘divergent’ per realizzare delle comuniutà ‘apart’.

Dunque, da una ‘public opinion’ orientata alla protezione e all’accoglienza verso i movimenti di tutela dei diritti si è passati negli anni ad una percezione di qualcosa di molto più aggressivo e destabilizzante … a cui opporsi “in difesa della civiltà”.

Intanto, si era passati da quella che era una richiesta di tutela di una condizione ‘non scelta’ (donna, lgbt, black eccetera) all’idea di una mera ‘scelta’ di uno stile di vita, cioè … una cosa sulla quale uno Stato e una Community ha tutto il diritto di metter becco, come da leggi e sentenze più o meno favorevoli.

Riepilogando, a differenza dell’Europa e del resto del Mondo, in USA il diritto all’aborto restava una sentenza costituzionale, mentre si passava dalla tutela delle diversità all’affermazione di un orgoglio (pride), cioè ad un ‘suprematismo’ dei diversi rispetto ai ‘normali’, dipinti come meno creativi, coraggiosi, avvantaggiati, socievoli eccetera.

E, soprattutto, all’avanzata di certi diritti corrispondeva la perdita di altri diritti.
In altre parole, ebbe corso una diffusa repressione delle sette religiose, iniziata 2-3 anni già prima la sentenza Roe vs. Wade, quando The Family di Manson compì la strage di Bel Air.
E tutto andò avanti finchè non accaddero il massacro di Waco nel 1993 e il conseguente attentato di Oklahoma City del 1995.

Due eventi che rappresentano un vero e proprio crocevia della storia americana e mondiale: se Waco ha ricordato agli americani perchè lì c’è un diritto a portare armi, Oklahoma ha dimostrato al mondo intero il prototipo ‘ideale’ dell’attacco terroristico ‘fatto in casa’.

E – a parte la distruzione della sede FBI di Oklahoma e la scoperta dell’homeland terror – dopo soli sei anni si verificò l’11 settembre, cioè gli USA si ritrovarono una parte dell’Islam a combatterli per quei costumi, quei diritti e quelle contraddizioni: inevitabilmente la religione metteva piede nella stanza ovale della Casa Bianca di G.W. Bush, visto che … era una guerra di religione.

Religione – quella di ‘Bibbia e Moschetto’ – che avrebbe anche potuto ritornare nelle proprie sedi con la rielezione del presidente, ma così non fu, dato che Obama prevalse alle primarie su Hillary anche ‘grazie’ al voto delle chiese evangeliche battiste afroamericane.
E fu sempre Obama che da presidente in carica tenne alcune lezioni magistrali sulle Scritture.

Dunque, non prendiamocela con la Corte Suprema statunitense, che non ha fatto altro che scoprire che “il Re è nudo” e … l’ha lasciato ‘nudo’.

In USA, la campagna elettorale presidenziale si rafforza nelle chiese e quella politica spesso inizia nei tribunali. Cioè ‘in nome di Dio’ e ‘a furor di popolo’.

Ma, se a breve termine la Politica statunitense non produrrà una riforma costituzionale per l’aborto come per le armi o la fecondazione eccetera, non resterà altro che prendere atto che la maggioranza degli statunitensi non lo vuole e … che i media USA non rappresentano adeguatamente la società ‘liberale’ che promuovono.

E l’aborto? Prima del quarto mese di gravidanza solo le religioni cristiane lo considerano un omicidio da punire come reato.
Potremmo iniziare almeno ad accettare che l’aborto entro il 3 mese di gravidanza è una questione di diritti religiosi di tutti e che il divieto assoluto è solo frutto della fede cristiana, praticata o meno che sia?
Nulla di liberale nè cosmopolita.

A.G.

I diritti umani secondo l’Islam e non solo

25 Gen

Pochi sanno che i paesi di tradizione islamica sottoscrivono una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ‘leggermente’ diversa dalla nostra.

Ad esempio, il “diritto alla giustizia” (art. 4) per il quale “ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge islamica e che nessun’altra legge gli venga applicata” , che “nessuno ha il diritto di costringere un musulmano ad obbedire ad una legge che sia contraria alla Legge islamica” e che (art. 5) “nessuna accusa potrà essere rivolta se il reato ascritto non è previsto in un testo della Legge islamica”.

Peggio ancora l’art. 12, che tutela il “diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola” che nei paesi islamici prevede che “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito”.
La Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo segue precisando che “nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica”

Infine, il “diritto di famiglia” prevede (art. 19) che “ognuno degli sposi ha dei diritti e dei doveri nei confronti dell’altro che la legge islamica ha definito con esattezza” e precisamente che «le donne hanno dei diritti pari ai loro obblighi, secondo le buone convenienze. E gli uomini hanno tuttavia una certa supremazia su di loro» (Cor., II:228).

I diritti universali, insomma, non sono proprio così ‘universali, se 1/3 della popolazione mondiale vive in stati dove i ‘diritti’ sono solo ‘islamici’.
Ma almeno li hanno firmati e, tra l’altro, la versione islamica dei diritti umani prevede regole ‘migliori’ per lo sfruttamento del lavoro e per l’usura: c’è anche chi non li ha firmati o l’ha fatto solo in parte ed in modo ‘sterile’.

Infatti, saranno probabilmente pochi quelli che si sono accorti che Israele non ha firmato i trattati ONU per il traffico di migranti, le tutele del lavoro, la tortura, la protezione dei civili, la pena di morte eccetera e, soprattutto, che … la Santa Sede non ha firmato nemmeno quelli sulle donne, sulla schiavitù, sul lavoro forzato o quanti relativi ai diritti umani e le libertà fondamentali dell’individuo in Europa.

Demata

Roma, la prostituzione, i dati, l’Europa e le soluzioni che … esistono già

23 Mag

anti-prostitutionIl sindaco di Roma, Ignazio Marino si dice favorevole «alla zonizzazione della prostituzione», all’istituzione di quartieri a luci rosse: «Sarei favorevole a che ci siano zone dove è consentita e zone dove non lo è. Questo dilagare della prostituzione non solo arreca un danno al decoro della città, ma crea situazioni di disagio gravissimo ad alcuni quartieri».

Nel luglio 2012, Romatoday raccontava Prostituzione a Roma: i quartieri a “luci rosse”
„che “”
“dalla Salaria alla Tiburtina, dalla Cassia alla Prenestina, passando per Viale Marconi e non dimenticandosi i vicoli del centro, le strade della capitale pullulano di lucciole”, sottolineando che “a poco è valso il provvedimento del primo cittadino varato a pochi mesi dall’insediamento in Campidoglio nel 2008. Multe salate per la lucciola che si atteggia a tale e per il cliente “adescato”, o “distratto”, che dir si voglia”.

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Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.

Infatti, i dati raccontano di quasi 9 milioni di italiani (il 40% è sotto i 25 anni) che frequentano prostitute, che a loro volta sarebbero 70.000 (dati  2010 Commissione Affari Sociali della Camera), di cui il 65% esercita in strada e le minorenni sarebbero addirittura tra il 10 e il 20% (dati Gruppo Abele).

Questo si trasforma in un enorme via vai di persone, se a Roma, come ovunque, un uomo su due ricorre al sesso a pagamento. Prostituzione a Roma: i quartieri a “luci rosse”
Un dossier del sindacato di polizia Silp-Cgil Roma indicherebbe che nel 2012 a Roma le prostitute su strada erano “in tutto seicento, almeno centocinquanta in più rispetto a due anni fa”.

Se fossimo al supermarket, parleremmo di seicento ‘postazioni’ accertate per 250 giorni di lavoro medio all’anno per 15 ‘clienti’ al giorno fanno 2,5 milioni di ‘utenze annue’, più almeno un altro milione che si svolge ‘al chiuso’: una media di 10.000  ‘passaggi’ al giorno.
Fossero anche solo la metà – ma potrebbero anche essere dieci volte tanto, se in Italia sono 70.000 – i soliti conti della serva ci dicono che per alloggiare 1.000 prostitute, a Roma come ovunque, servono almeno la metà di appartamenti ed, in caso di bordelli, almeno una cinquantina di piccoli edifici.

Dove metterli, in una città come Roma, è un mistero e più che zonizzarli, varrebbe la pena di disperderli: invece di aree ‘rosse’ periferiche e semiperiferiche, tanti piccoli e discreti appartamenti come già è nei quartieri centrali, dove la prostituzione certamente c’è, ma  invisibile. E per fare questo non servono leggi nazionali: basta che il sindaco inizi a contrastare seriamente la prostituzione per strada e la ‘dinamica richiesta-offerta’ si trasferirebbe in appartamentini discreti.
Il resto non si chiama più sfruttamento della prostituzione, ma di crimine organizzato e di tratta di esseri umani.

prostitution-7-20-11-color-640x486Questo, ovviamente, se la sola preoccupazione del sindaco fosse il ‘danno al decoro della città’ e il ‘ disagio gravissimo ad alcuni quartieri’, senza tenere conto della tutela della donna, degli omosessuali e, soprattutto, dei minori. E della salute, visto che Ignazio Marino di professione fa il medico e come politico presiedeva la commissione parlamentare sulla Sanità.
Infatti, la prostituzione ‘fuori controllo’ comporta che un quarto delle persone Hiv-sieropositive non sappia di essere infetto: secondo i dati pubblicati dal Centro Operativo Aids dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2008 gli “inconsapevoli” erano il 60% dei contagiati totali, con quasi l’80% dei contagi avvenuti per via sessuale.

Dunque, qualcosa va fatto.
Lo riconosce persino Giovanni Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII: «La zonizzazione è una proposta vecchia e inaccettabile, che non risolve il problema della prostituzione e rende le istituzioni pubbliche conniventi con gli sfruttatori. L’unica soluzione veramente efficace e rispettosa della dignità umana, della donna in particolare, è l’introduzione anche in Italia del modello nordico».

Di cosa si tratta?

Il modello neo-proibizionista – o “modello svedese”, adottato in Svezia dal 1999 e successivamente in Islanda e dal gennaio 2009 in Norvegia – si fonda sulla criminalizzazione del cliente, con la punizione dell’acquisto di prestazioni sessuali, partendo dall’assunto che la prostituzione è una violenza del ‘cliente’ contro il/la prostituto/a, anche quando afferma di svolgere l’attività per scelta  consapevole.

sex-prostitute-prostitution-special_offers-offers-price-hbrn467lIn Italia, vige una forma di Modello abolizionista, che si fonda sull’idea di non punire la prostituzione né l’acquisto di prestazioni sessuali, ma al tempo stesso nel non regolamentarli, mentre si puniscono tutta una serie di condotte collaterali alla prostituzione (favoreggiamento, induzione, reclutamento, sfruttamento, gestione di case chiuse, etc.).
In pratica, lo Stato si chiama fuori dalla disputa, senza proibire o regolamentare l’esercizio della prostituzione. Questo modello è seguito dalla gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale: Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Andorra, Armenia, Belgio, Bulgaria, Città del Vaticano, Danimarca, Estonia, Finlandia,  Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Monaco, Repubblica Ceca, San Marino, Slovacchia. In alcuni di questi paesi, però, la vacatio legis ha consentito al diverse autonomie locali di adottare un modello regolamentista, come ad esempio in Spagna.

Prima dell’introduzione della legge Merlin, anche l’Italia seguiva il modello regolamentarista, che è nasce da esigenze di ordine sanitario e di ordine publico, ma anche di tutela delle prostitute e vige solo in otto Paesi europei (Paesi Bassi, Germania, Turchia, Austria, Svizzera, Grecia, Ungheria e Lettonia), ai quali andrebbe aggiunta la Spagna, dove molte autonomie locali hanno provveduto a regolamentare lo svolgimento dell’attività al chiuso.
Il modello regolamentista include l’imposizione di tasse e restrizioni, più o meno ampie, nell’esercizio della prostituzione, l’individuazione di luoghi preposti all’esercizio e la prescrizione di controlli sanitari obbligatori per prostitute e prostituti per la prevenzione delle malattie.

aids-hiv_o_dmaoCome per tante altre innovazioni sociali, fu il Regno delle Due Sicilie, nel 1432, ad emettere le prime norme a tutela di chi si prostituiva (donne e uomini), tramite il rilascio della reale patente per l’apertura di un lupanare pubblico. Successivamente, anche nella Serenissima Repubblica di Venezia e nello Stato pontificio venne regolato il sistema delle ‘case di prostituzione’, che spesso erano tenute dalle stesse donne.
Norme di tutela delle donne, di prevenzione sanitaria e di ordine pubblico, non di sfruttamento con l’imposizione di tasse e gabelle.
Le cose cambiarono nel 1860, quando il Regno sabaudo introdusse una regolamentazione in cui addirittura andava a fissare i prezzi degli incontri a seconda della categoria dei bordelli, adeguandoli al tasso di inflazione …
Con l’Unità d’Italia, questa pratica questa pratica fu estesa a tutto il paese (come la persecuzione degli omosessuali che, viceversa, le Due Sicilie non discriminavano) e solo con l’avvento del regime fascista furono imposte serie misure sanitarie per le prostitute  donne, iscritte ad uno ‘schedario’ e sottoposte ad esami medici periodici.

Ovvio che, alla prima buona occasione, questa centenaria mercificazione della donna per la ‘pubbblica utilità’ doveva finire: l’Italia fece  una legge frutto della tenacia della senatrice socialista Lina Merlin e di grandi compromessi.
Il risultato fu il solito pasticcio, dato che lo Stato italiano smise di sfruttare la prostituzione, ma tante donne che si prostituivano passarono dalle ‘case chiuse’ (ndr. chiamate così per via delle finestre sbarrate anche di giorno) ai marciapiedi delle strade provinciali, vennero eliminate tutte le tutele sanitarie per le prostitute, le ‘occasionali’ ebbero un notevole incremento ed i ‘papponi’ divennero invisibili e potenti, come ricorderà chi leggeva le cronache degli Anni ’60-70  …

prostitution-a-smart-career-choiceRitornando a Roma ed alle idee del sindaco Marino, è davvero imbarazzante la preoccupazione per il decoro urbano, per il disagio dei cittadini (ma non le donne, i minori e la salute di tutti), specialmente se confluisce nell’idea di ripristinare uno sfruttamento della prostituzione di Stato, che de facto facilita ed incrementa il fenomeno.

Il paese con il maggior numero di prostitute in Europa, secondo le stime, è la Germania dove ne sono registrate circa 400.000. In Spagna, a Valencia, una scuola per prostitute (Academia del placer) ha lanciato lo slogan anticrisi “Se sei giovane e non trovi lavoro, diventa prostituta” …

Intanto, in Italia, andando a scartabellare tra le leggi, semre che il vero prolema sia solo uno.
Tutti sanno che l’articolo 3 della Legge Merlini del 1958 prevede pene e sanzioni per “chiunque avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa od altro locale, li conceda in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione”.

Pochi sanno che, con la pronuncia n. 33160/2013, la Corte di Cassazione chiarito che se si concede in affitto un appartamento a prezzo di mercato non si viola la Legge Merlin, poiché per ‘casa di prostituzione’ si deve intendere un qualsiasi luogo chiuso dove più persone esercitano il meretricio e sia presente in tale posto anche un gestore della prostituzione delle relative persone, mentre non si può procedere per favoreggiamento e/o sfruttamento semplice in merito, se l’appartamento viene affittato ad un prezzo di mercato al solo scopo abitativo, senza alcun supplemento ulteriore, che possa far favorire concretamente il sesso a pagamento.sexwork

Dunque, tenuto conto che la Legge Merlin persegue la prostituzione come fenomeno organizzato/associativo, che la lectio attuale è a riguardo più tollerante di quella vigente nel secolo passato, e considerato comunque che la tollera come attività individuale, la prima cosa che bisognerebbe fare per il decoro di  Roma è quella di contrastare seriamente la prostituzione per strada – anche solo multando i clienti per sosta – e questo tocca in primis al Campidoglio.
Fermo restante che chiunque è libero di prostituirsi a casa propria, di proprietà o in affitto che sia.

Se, poi, tra Stato e Regioni, in Italia, volessimo (ri)attivare un servizio sanitario apposito e ‘nazionale’ per tutelare la salute di chi si prostituisce e dei cittadini, non sarebbe davvero una cattiva idea. Specialmente se, tramite l’accesso a questo servizio, chi si prostituisce potesse ottenere una registrazione nel sistema di welfare, atta ad accedere al sistema pensionistico versando tributi e contributi, con lo Stato che fa da tutore e non da sfruttatore.
Forse, anche a Lisa Merlin sarebbe piaciuto qualcosa del genere.

E certamente piacerebbe a tutti, specialmente alle mogli, fidanzate e compagne inconsapevoli dei ‘clienti’, che si impedisse di prostituirsi a chi ha contratto l’Aids e questo può avvenire solo tramite la registrazione delle/dei prostitute/i. Non, altrettanto di sicuro, ignorando la questione ed affidandosi alla provvidenza.

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Obama e la Siria: ultima corvée per i Democratici?

2 Set

Obama dovrà attendere il voto parlamentare per attaccare la Siria, dopo aver baldanzosamente annunciato: «ho deciso che gli Stati Uniti conducano un’azione militare contro il regime siriano», «ho il potere di ordinare l’attacco senza il via libera di Camera e Senato»

Una catastrofica figuraccia, perchè l’iter si concluderà intorno alla metà di settembre e, in caso di rinuncia all’attacco, con grande spreco di carburante che si è reso necessario per trasferire un’intera flotta di fornite le coste libanesi a carico dei contribuenti statunintensi.

La defaillance presidenziale era stata ampiamente annunciata da questo blog, in due post: Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca, dove si riportava la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gove Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente, e Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere, dove si raccontava del’interferenza saudita, della sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e dell’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Così, infatti, sono andate a finire le cose, con la Gran Bretagna che ha congelato le velleità belliche di Cameron e con la Francia di Hollande unica e sola nell’appoggiare Mr. President.

Le ricadute globali di questo disastro politico obamiano sono e saranno pesantissime, forse epocali, anche se dovesse riuscire a lanciare i suoi ‘attacchi mirati’ senza subire ripercussioni dalla reazione siriana, senza i ‘danni collaterali’ causati in Iraq, Libia e Afganistan e senza scatenare l’Armageddon in Medio Oriente.

Infatti, quello che viene drammaticamente a cadere è tutto il modello politico democratico e progressista di cui Obama (e Hollande) erano gli ultimi alfieri.

Un approccio internazionale ‘orientato al confronto’ che non ha saputo risolvere la questione Guantanamo, nè quella afgana o quella israelo-palestinese. Che ha visto esplodere drammatiche rivoluzioni nordafricane e mediorientali contro dittatori appoggiati dai poteri mondiali, a tutt’oggi non stabilizzate. Che non ha avviato una politica ‘atlantica’ di superamento della crisi mondiale, con tutte le conseguenze date da una Germania egemone e prepotente. Che ha permesso una notevole crescita dell’instabilità nell’Oceano Indiano e nell’America Meridionale.

Cartoon da Cagle.com

Cartoon da Cagle.com

Una esibizione di muscoli – in Libia come in Siria – decisamente pletorica e controproducente. Questo è uno dei verdetti relativi al presidente Barack Obama, ma non è tutta colpa sua.

Infatti, quale futuro può esserci per l’ideale ‘democratico’ (o meglio progressista), se il mito del Progresso è stato infranto già dalla fine degli Anni ’70? O, peggio, se gli stessi Progressisti hanno provveduto – venti e passa anni fa – a sdoganare la Cina Popolare, la Russia di Eltsin e Putin, il Venezuela di Chavez, la strana federazione indiana della famiglia Gandhi, un tot di regimi islamici e qualche residuale dittatura fascista o socialista?

Che farne del costo del lavoro e dei salari minimi, della sanità pubblica, delle pensioni, del welfare, se il sistema globale necessita, per alimentarsi e fluidificarsi, di ignorare l’elemento fondante una società organizzata, ovvero la solidarietà umana?

Come offrire ‘progresso’ in cambio di ‘tradizione’ e ‘pace’ in vece di ‘cambiamento’, se l’effetto conseguente è ‘meno solidarietà’, ‘meno uguaglianza’?

E come esprimere qualcosa di ‘progressivo’, in una società dove non è il lavoro l’elemento alienante delle nostre esistenze, bensì lo sono i consumi e l’iperconnessione?

Dopo un quinquennio di pessime mosse in politica estera e di tagli continui al Welfare, la figuraccia di Obama – nel suo quasi solitario tentativo di inaugurare una nuova guerra mondiale, sulla base dei soliti e sacrosanti doveri morali – è la ciliegina sulla torta per chi cercasse una riprova che o si ritorna ad uno stato etico e liberale oppure progresso, democrazia e welfare diventeranno sempre più una chimera.

Una questione che coinvolgerà tutti i partiti progressisti nel mondo, già vessati da oscene storie di corruttela o di sliding doors in cui tanti dei suoi leader sono stati coinvolti. Ed, infatti, Hollande si è ben guardato da intaccare l’autorevolezza delle istituzioni francesi e l’accessibilità dei servizi ai cittadini, mentre i ceti popolari metropolitani slittano sempre più a destra in Francia, dopo che alcuni leader socialisti sono transitati con non chalance dall epoltrone di partito a quelle degli organi di garanzia per pervenire, sistemate le cose a modo loro, ai vertici di alcune maggiori holding francesi.

Andando all’italia, dove la sola e solitaria Emma Bonino ha avuto il coraggio di ricordare il ‘rischio di una guerra mondiale’, ci troviamo con l’Obama di casa nostra, Matteo Renzi che si propone insistentemente per la guida del Partito Democratico.

Non è che storicamente il Partito avesse brillato per la presenza di leader nati e cresciuti in una qualche metropoli, ma c’è davvero da chiedersi cosa mai potrà permettergli di chiamarsi ‘progressisti’, se il leader è un uomo, che arriva ‘fresco fresco’ da una piccola città di provincia in un mondo miliardario e globale, che deve la sua sopravvivenza alle vestigia – mai rinverdite o rinnovate – del suo lontano Rinascimento e delle speculazioni finanziarie dei loro antenati?

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Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca?

14 Ago

Dieci giorni fa, il Washington Post ha raccolto una rara e stringata intervista concessa dal Generale Abdel Fatah al-Sissi, uomo forte dell’Egitto ed esponente di punta di una leadership militare, ma laica.
Un’intervista che arrivava nello stesso giorno in cui il Segretario di Stato John F. Kerry aveva espresso frasi di sostegno, affermando che l’esercito egiziano è intervenuto per “ripristinare la democrazia.”

Non a caso Al-Sissi accusa l’amministrazione Obama, nel tentativo di restare neutrale, di aver alienato entrambe le parti in un Egitto profondamente polarizzato e instabile, che tenta di diventare una democrazia moderna.
Anche i sostenitori di Morsi, i Fratelli Musulmani, accusano regolarmente gli Stati Uniti di acconsentire ad un colpo di stato militare, ma sembra che si sia dimenticato che “l’esercito è stato chiesto di intervenire da milioni e milioni di persone”. E, come ha dicharava Kerry durante una visita in Pakistan, giorni fa, “i militari non sono subentrati nel potere, non ancora, almeno secondo il nostro giudizio”.

Una delle questioni che anima la querelle tra gli Stati Uniti e l’Egitto è l’obbligo federale di sospendere l’assistenza non umanitaria quando un governo democraticamente eletto viene rimosso dal suo incarico da un colpo di stato militare. Una misura che l’amministrazione Obama sembra voler evitare con un taglio di 1,3 miliardi di dollari degli ‘aiuti’ che dagli Stati Uniti arrivano in Egitto ogni anno. Ancheil rinvio della consegna di quattro caccia F-16 sarebbe, secondo il Washington Post, un dettaglio “puramente simbolico”.

La questione che, a monte, mette in fibrillazione il politically correct che impera nella White House di Barack Obama, è che dal 3 luglio, dalla cacciata di Morsi, è che la situazione dell’ordine pubblico egiziano potesse involversi in un bagno di sangue come accaduto oggi, che favorirebbe solo gli integralisti e i terroristi. Un timore condiviso dal fisico el Baradei, importante figura dell’opposizione laica ed ex-capo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (Aiea), dimessosi oggi dall’incarico di vice-presidente delle relazioni internazionali della giunta provvisoria egiziana.

Una scarsa capacità politica internazionale della Casa Bianca, come accusano i Repubblicani statunitensi, se al-Sissi va dichiarare che il segretario alla Difesa Chuck Hagel “quasi ogni giorno” lo consulta, ma che il presidente Obama non lo mai ha chiamato dopo cacciata di Morsi.
Non a caso i legami tra Cairo e Washington rimangono, ma da tempo è cresciuto il peso dei poteri regionali, come l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti.

Al-Sissi, nell’intervista concessa al Washington Post, si è detto irritato perchè gli Stati Uniti non appoggiano in pieno “un popolo libero che si ribella contro un potere politico ingiusto.”
“Il Comandante generale dell’Egitto ha ipotizzato che se gli Stati Uniti vogliono evitare ulteriori spargimenti di sangue in Egitto, dovrebbero convincere i Fratelli Musulmani a fare marcia indietro dal Cairo sit-in che ha mantenuto dal 3 luglio.”
“L’amministrazione degli Stati Uniti ha molta influenza e un largo margine di azione con i Fratelli Musulmani e l’amministrazione statunitense potrebbe utilizzare sul serio questa leva verso di loro per risolvere il conflitto”.

Così non è stato.

Intanto è di questi giorni la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gore Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente.

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Emergenza Egitto: civili armati e chiese bruciate

14 Ago

Muḥammad Morsī è nato il 20 agosto 1951, è un ingegnere chimico con una laurea all’Università del Cairo (1975) che ha lavorato per la California State University, Northridge dal 1982 al 1985, per poi tornare in Egitto. Nel 2012 è divenuto il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto, nelle fila del Partito Libertà e Giustizia (il partito dei Fratelli Musulmani).

I Fratelli Musulmani sono una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali con un approccio prettamente politico all’Islam. Furono fondati nel 1928 da al-Ḥasan al-Bannāʾproprio in Egitto, poco più d’un decennio dopo il collasso dell’Impero Ottomano.

Morsī è stato membro del Parlamento egiziano dal 2000 al 2005 e la sua attività di maggiore rilievo fu la ‘lotta alla pornografia’, denunciando persino il governo per aver permesso la circolazione di riviste con copertine di nudi e la trasmissione in televisione di scene che considerava “immorali”, come anche si levò contro i concorsi di bellezza (ad esempio Miss Egitto), perchè contrari alle “norme sociali, alla Shari’a e alla Costituzione”.

Sei mesi dopo l’elezione, nella seconda metà di novembre 2012, Muḥammad Morsi attuava un vero e proprio ‘golpe bianco’, attribuendosi per decreto amplissimi poteri anche nel campo del potere giudiziario, per evitare che i suoi decreti presidenziali potessero essere annullati dall’Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. Ovviamente, il decreto prevedeva che il presidente Morsi possa “prendere tutte le misure necessarie per proteggere la rivoluzione”. Un film già visto … che, sembrerebbe, non aveva neanche tutto il gradimento degli stessi sostenitori di Morsi, i Fratelli Mussulmani.
Ad immediata conseguenza di questo atto autoritario la magistratura egiziana proclamava uno sciopero di protesta contro quello che definiva “un golpe bianco” del presidente della repubblica, mentre iniziavano le proteste di piazza contro la politica di islamizzazione dello Stato operata da Morsi, nel tentativo di instaurare una dittatura islamica e nel paese venivano incendiate anche alcune sedi dei Fratelli Musulmani.

Poco più di un mese fa, il movimento di protesta nei suoi confronti, noto come Tamarod, ha ottenuto la destituzione di Muḥammad Morsī e la sua collocazione agli arresti domiciliari.

Dunque, a scanso equivoci, l’occupazione delle città con i così detti ‘campi pro-Morsi è stata una sorta di ‘marcia su Roma’.

Assembramenti pacifici, si è detto. Entro i quali sono avvenuti almeno un centinaio di stupri particolarmente violenti e non si sa quant’altro ancora, pur di estromettere le donne dalla vita politica. Accampamenti innocui, sembrava, ma la mappa pubblicata da al Jazeera è eloquente, con blocchi stradali e persino il Cairo and Nasr City Traffic Departement (nella ‘zona rossa’) è quasi irraggiungibile in automobile.

Nasr City Clashes Map by Al Jazeera

Nasr City Clashes Map by Al Jazeera

Lo sgombero brutale degli accampamenti pro-Morsi arriva ad oltre un mese di questa situazione ed i tentennamenti occidentali, oscillanti tra il sostegno ai militari che avevano destituito un golpista integralista e la tutela delle regole democratiche, che vedono un presidente regolarmente eletto ed una maggioranza parlamentare.

Uno sgombero che non sembra aver visto una partecipazione attiva dei militari – secondo le fonti ufficiali – ma che di sicuro vedeva un certo numero di civili ‘affiancare le forze di polizia’, come abbiamo visto tutti in mondovisione.

Nasr City - Civili armati

Nasr City – Civili armati

D’altra parte, non è che i manifestanti fossero così pacifici e ‘collaborativi’, come dimostrano le immagini eloquenti che stanno facendo il giro del mondo in queste ore.

Foto da La Repubblica

Intanto, si parla di centinaia se non migliaia di morti, un enorme numero di feriti, forse oltre diecimila, due cronisti morti, la reporter ventiseiennne del UAE weekly tabloid Xpress, Habiba Ahmed Abd Elaziz, e  il cameraman di Sky News, Mick Deane, ambedue uccisi da colpi di arma da fuoco. Almeno sei morti tra le forze di sicurezza (polizia) egiziane.

Arrivano anche notizie (con video e foto eloquenti) della rabbia integralista che si è sollevata nel paese e di chiese cristiane incendiate dai sostenitori di Muḥammad Morsī  in varie località del paese, a Fayoum, Susa, Menya e Dilg, e, addirittura, la cattedrale di San Giorgio a Sohag (video).

The Good Shepherd Church, Suze – fonte theorthodoxchurch.info

Sohag St. George Church – fonte theorthodoxchurch.info

St. Tadros church in Minia – fonte theorthodoxchurch.info

The Holy Bible Friends Society, Fayoum – fonte theorthodoxchurch.info

St. George Church, Sohag – fonte theorthodoxchurch.info

L’esercito egiziano ha annunciato il coprifuoco che entrerà dalle 18 di oggi e durerà fino alle 6 del mattino, in tutti i governatorati egiziani, compreso Il Cairo, Giza e Alessandria. E’ stato anche proclamato lo stato d’emergenza per un mese.

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Caso Kyenge: i razzisti sono eleggibili?

15 Lug
Al ministro dell’integrazione Cecile Kyenge, italiana di origine congolese, arrivano anche gli insulti del vicepresidente del Senato alla festa della Lega a Treviglio: «Quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare alle sembianze di un orango».
Le prime reazioni annoverano la presidente della Camera, Laura Boldrini, «parole volgari e incivili, indegne per le istituzioni», il capo del governo, Enrico Letta, «parole inaccettabili», il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, «piena solidarietà per le frasi ingiuriose», il presidente del Senato, Pietro Grasso, «non ci sono giustificazioni possibili».
Il pesante insulto riapre un’altra ferita profonda, che affligge quest’Italia della Seconda Repubblica.
Infatti, giorni fa, gli italiani e i loro politici sembravano giunti ad una posizione diffusamente critica riguardo l’eleggibilità di Silvio Berlusconi e, più precisamente, il suo accesso a ruoli chiave nelle istituzioni.
E cosa dire della Lega che con i suoi slogan raccoglie ed alimenta una fobia di vecchia data, ieri verso i meridionali e oggi anche verso gli immigrati slavi e africani?
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Se l’iscrizione alla Loggia P2 ed il Lodo Mondadori, oltre alle sue attività di tycoon dei media – incluse quelle erotiche e quelle offshore Mediaset – e quanto emerso su Marcello Dell’Utri, dovevano bloccare ogni velleità di Silvio Berlusconi nel proporsi come leader politico, come è possibile che sieda in Parlamento la Lega, con le sue convention dove – con una notevole frequenza – si inneggia contro slavi, neri e meridionali?
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Quel che è certo è che non si può dare della scimmia ad una persona di origini africane o asiatiche senza essere tacciati di razzismo sotto ogni latitudine.
E’ razzismo ed andrebbe perseguito per legge, se non fosse che insultare con allusioni ‘razziali’ una persona, in Italia, non è razzismo: è solo ingiuria su querela di parte. Come anche, per i crimini d’odio, il (giusto) rigetto del ‘fascismo’, incluso nelle norme, dimentica, però, che di odio possa parlarsi anche nel caso di altri totalitarismi e xenofobie varie.
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E’ vero che siamo un ‘popolo indifferente a tutto’ e che, altrove, è ‘razzista’ anche la nota comica del filippino che non sa parlare e gioca con gli scarafaggi (come lo sarebbe quella dell’italiano mangiaspaghetti, mafioso e millantatore), ma anche sugli spalti degli stadi di calcio italiani, dove ‘tutto è permesso’, una frase come quella di Calderoli avrebbe comportato squalifiche e multe pecuniarie.
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Il solito pasticcio all’italiana, come quello della Prima Repubblica, che riassorbì tra i repubblichini e i partigiani anche gli assassini, in nome di una riconciliazione che, sessant’anni dopo, è tutta lì ancora da delinearsi.
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Per non andare troppo lontano, potremmo iniziare a chiederci come il ‘popolare europeo’ PdL possa sostenere tre governatori leghisti (Cota, Zaia, Maroni) se la Lega si dimostra razzista.
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Resta da chiedersi, in tema di ineleggibilità, se possano chiamarsi regolari delle elezioni, se in lista ci sono dei partiti che inneggiano alla discriminazione etnica e, soprattutto, se siano legittimi dei governi che consegnano posti di potere a siffatte persone.
Certamente, chi «non è in grado di tradurre un disagio in un linguaggio anche duro, ma corretto», dovrebbe «dare il suo incarico a chi è capace di farlo».
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Come anche, in Italia, se una donna o un immigrato ‘tirano la testa fuori dal sacco’ – vedi cosa accade alla Boldrini, alla Santanché, alla Kyenge – arrivano insulti e minacce a tutto spiano, «quotidianamente, con ogni mezzo. Lettere, email, telefonate. Le più terribili sono online, anche minacce di morte. Non c’è ancora una legge e invece servirebbe. L’istigazione al razzismo sta diventando man mano istigazione alla violenza».
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A dirlo non è una persona qualunque, bensì il ministro dell’integrazione della Repubblica Italiana, che ormai vive sotto scorta e dovunque vada – anche in via privata – trova mobilitazioni contrarie al fatto che l’Italia sia rappresentata da una cittadina dalla pelle nera e che i lavoratori immigrati abbiano pari diritti.
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Razzisti, per i quali, oltre che vergognarci e, magari, prendere provvedimenti urgenti e draconiani, dovremmo ‘as soon as possible’ prendere atto che c’è da fare a meno di loro, quando si parla delle istituzioni e dei media.

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Carceri, la realtà dei dati

7 Feb

Gravissime le affermazioni del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in visita al penitenziario milanese di San Vittore:  «È emergenza, avrei firmato amnistia anche dieci volte». Gravissime perchè aprire il fronte dell’amnistia in piena campagna elettorale significa, de facto, parteciparvi.

A parte la forza attrattiva del consensmafia astenutao di migliaia di persone detenute e dei loro familiari – per non parlare delle ombre esistenti su altre elezioni ed altri indulti/amnistie/deregolazioni – il tema si rappresenta ‘di per se’ come un fattore di condizionamento della politica futura e futuribile da parte di un presidente uscente, specie se leggiamo che «bisogna fare tutto quello che è possibile tenendo fermo che, se non si può avere il consenso in Parlamento, non passa». Vale la pena di ricordare che per l’amnistia per decine di migliaia di delinquenti è necessario il consenso popolare, sennò è difficile trovare parlamentari disposti al voto, temendo che, poi, qualcuno degli amministiati vada a far guai proprio nel collegio elettorale di riferimento.

Gravi, comunque, sono le parole del Presidente Napolitano, perchè denunciano le condizioni oggettive, ormai subumane, in cui versano ormai tanti detenuti e, indirettamente, i loro carcerieri, mentre i dati dimostrano una situazione ‘leggermente’ diversa da quella comunemente prospettata, che indica “un’origine dei mali’ piuttosto verosimile che più meritevolmente potrebbe attrarre gli strali del Quirinale.

Secondo recenti statistiche,  i detenuti in Italia sono 67-68.000 su circa 42.000 ‘posti letto, ma circa 11.000 non dormono nè vivono in carcere dato che 7.000 sono in affidamento in prova e 4.000 agli arresti domiciliari. L’esubero di detenuti è, dunque, di circa 15.000 persone: un detenuto in più ogni 5-6 già in cella, senza detrarre quanti sono in infermeria od in viaggio.

Di questi detenuti 24.908 sono stranieri e ne sarebbero espellibili forse anche la metà, se esistessero degli accordi per assicurare la loro detenzione nei paesi d’origine. Come anche, se i Comuni garantissero dei congrui ed efficienti servizi sociali si potrebbero estendere alcuni benefici a parte dei 10.000 detenuti con pene residuali inferiori ai tre anni.
Peccato che molti di questi (27.345  al 31 dicembre 2008) siano spesso delinquenti abituali, cioè hanno commesso almeno un reato contro il patrimonio (furti, rapine, truffe) o contro la pubblica amministrazione, ma è anche vero che ben 8.652 persone erano detenute nel 2008 per violazioni di leggi sulle armi, per le quali si potrebbero spesso prevedere misure detentive diverse dal carcere.

Inoltre, il fatto che oltre 26.000 detenuti siano tossicodipendenti e che siano oltre 23.000 gli ‘spacciatori’, tra i quali non è noto quanti siano semplici possessori, conclama il dato fallimentare della Legge Giovannardi-Fini. Le Carte dei Diritti che l’Italia ha sottoscritto a livello internazionale comportano la necessità di garantire adeguati assistenza  sanitaria per tutti e valido supporto psicoterapeutico per chi voglia superare la dipendenza.
Cose che possono essere fatte meglio e con minori costi non incarcerando i drogati, piuttosto che sovraffollando le carceri e trasformandole in una sorta di girone dei dannati dalle mille lingue parlate e dai cento desideri osceni. Tra l’altro, il consumo di cannabis in Olanda è quasi la metà che in Italia e Spagna ed almeno questo dovrebbe far riflettere.

In poche parole, almeno diecimila stranieri potrebbero essere detenuti a casa loro se l’Italia trovasse un accordo con i loro paesi d’origine, quasi il doppio dei detenuti non sarebbero mai entrati in carcere se l’italia avesse leggi sulle droghe e sulle armi simili a quelle degli altri paesi europei.

Inoltre, solo il 3% dei detenuti è impiegato in qualche attività lavorativa esterna, mentre solo il 24% lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, mentre, nel 2009, i corsi professionali hanno coinvolto solo il 13,3% dei detenuti. Che il carcere abbia finalità formative e riabilitative appare come una mera chimera e, di sicuro, l’ozio in cui è lasciato il 63% dei detenuti è del tutto inaccettabile agli occhi di chi paga le tasse, specialmente sapendo che tra i detenuti improduttivi sono quasi 20.000 quelli che hanno commesso reati sessuali, omicidi e sequestri, ovvero sono inviati ai ‘lavori forzati’ in gran parte dei paesi civilizzati.

Riguardo i ben 37.300 detenuti (55,32%) in attesa di condanna definitiva, contro una media europea del 25%, sarebbe interessante sapere se, poi, sono stati condannati – chiedendosi se non si poteva fare prima – o, caso mai ed in che misura, siano stati assolti – chiedendoci perchè avevamo imprigionato un innocente per mesi ed anni.

Numeri allarmanti arrivano riguardo il numero di detenuti per reati contro la pubblica amministrazione (appena 6.151), per associazione mafiosa con poco più di 5.200 reclusi: è evidente, agli occhi di tutti, che sia impossibile, in un paese conciato come il nostro, che siano così pochi i criminali assicurati alla giustizia e condannati per i crimini che generano maggiore degrado sociale.

Come anche, con tutto quello che è accaduto nel nostro paese durante gli Anni di Piombo e durante la lotta alla Mafia ed alla Ndragheta, con stragi e delitti efferati, è incredibile che gli ergastolani siano solo 1.357.

Lo spaccato che ne viene dai dati è molto chiaro: almeno un terzo degli attuali detenuti non dovrebbe essere lì, grazie a leggi e soluzioni più civili e pragmatiche, e serve spazio per i tanti attualmente a piede libero, non perseguiti od ignoti dalla legge, che continuano a commettere reati gravi da mafiosi o come pubblici impiegati.

Dunque, se il nostro Presidente della Repubblica vuole davvero sanare l’avvilente situazione dei detenuti delle carceri italiane, lasci perdere un’impopolare amnistia e solleciti una depenalizzazione per l’immigrazione irregolare ed il possesso/consumo di stupefacenti, oltre che degli accordi internazionali, che permettano il rimpatrio per gli immigrati e l’inserimento comunitario per i tossicodipendenti che lo richiedano, ed un maggior rigore ed efficacia contro le mafie ed i corrotti.
Altrimenti, son lacrime da coccodrillo.

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Coesione sociale agli sgoccioli

19 Dic

Il rapporto sulla coesione sociale Istat, Inps e Ministero del Lavoro racconta, anticipandone il futuro, la triste storia del declino italiano. Ormai, è il 13,6% degli italiani a vivere in povertà, oltre otto milioni di italiani e, tra loro, anziani, invalidi e bambini.

Come una carovana che, trovatasi impreparata in territori impervi, lascia dietro di se una scia di corpi ed anime, abbandonando a se stessi i più deboli e, aggiungendo il diabolico all’orrido, si lascia andare a vistose iniquità a carico di chi è più esposto alle bizzarrie di una Casta.

Ad esempio, prendiamo atto che il 10% dei nostri minorenni vive in povertà, un pensionato su due ha un reddito inferiore ai mille euro, nei primi sei mesi del 2012 le cessazioni di rapporti di lavoro sono state 4,49 milioni, mentre il numero dei lavoratori sotto i 30 anni è calato dell’8%, sono stabili solo il 19% dei contratti, di cui solo il 7% riguarda donne.
In poche parole, siamo fermi da 20 anni, in attesa che una ben precisa generazione decida di pensionarsi, non accrescendo i danni profondi già causati alla società italiana.

Oppure, riguardo i pensionati – di cui un terzo è rappresentato da ultraottantenni – che il 47,5 % ha un reddito inferiore ai mille euro, il 37,7% ne percepisce uno fra mille e duemila euro, solamente per il 14,5% si superano i duemila euro, di cui circa 700.000 oltre i 3.000 euro (dati INPS) con una spesa annua di 20 miliardi di euro, pari al 30% del volume pensionistico complessivo.
Chi – pochi, molto pochi – vive nel lusso e nel benessere e chi – tanti di meno – vive nell’indigenza assoluta.

Ed anche, una decadenza che, se vede il Nord ed il Centro Italia messi male, è ormai al disastro se parliamo di Sud. Infatti, nelle regioni meridionali, risulta «relativamente povero»  il 24,9% degli anziani ed un altro 7,4% è rappresentato da quelli «assolutamente poveri», «materialmente deprivato» il 25,8% delle famiglie residenti, con punte del il 30% in Sicilia e in Campania, il rischio di povertà o di esclusione sociale (39,5%) ed è più del doppio rispetto al valore del Nord (15,1%).
Naturalmente, dovremmo chiederci qualcosa se, secondo i dati INPS del 2009, i comuni italiani calabresi avevano da spendere per gli interventi e ai servizi sociali 25,5 euro pro capite, mentre la provincia autonoma di Trento si arrivava a ben 297 euro di ‘spesa sociale’ pro capite.

Ecco l’ennesimo segno di una politica italiana che ha saputo gestire il Meridione solo come fosse una colonia, prima sabauda e poi romana, da cui trarre alimenti, mano d’opera e know how a basso costo.

Ecco cosa accade ad una nazione in cui un terzo degli italiani è composto da meridionali di prima e seconda generazione che hanno dovuto trasferirsi – non nel Dopoguerra, ma a partire dagli Anni ’70, a Roma e nel Settentrione. Una nazione che ha finora spoliato una parte di se stessa e questa ‘cattiva coscienza’ sta iniziando a costituire un gravame insostenibile ed irrisolvibile.

Dei giovani, delle donne, degli anziani, dei meridionali dovrà occuparsi la prossima legislatura ed i prossimi governi: il rapporto sulla coesione sociale italiana è drastico e drammatico.
Purtroppo, al momento, non sembra essere stato particolarmente recepito dai nostri partiti e dagli spin doctors di turno.

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8 marzo, non c’è festa per le donne Rom

7 Mar

Credevamo che le donne in semischiavitù esistessero solo a casa dei Talebani, col burka e costrette a chiedere l’elemosina, senza istruzione ed esposte a malattie e violenze. Ci eravamo  sbagliati, c’è anche l’Italia. Almeno se parliamo delle donne Rom regolarmente e storicamente residenti qui da noi.

Secondo il Report di Save the Children (link), il 45% delle donne Rom di Roma si sposa da minorenne e sono il 30% quelle che partoriscono prima dei 18 anni. Almeno il 10% di loro non fa esami del sangue nè ecografie prima del parto.

Questo accade perchè il 70% di loro non ha assistenza sanitaria e solo il 50% sa che esiste il Consultorio, che cosa sia ed a quali diritti e prestazioni ha accesso.

Poco più del 15% ha un lavoro, la metà è del tutto dipendente dal marito, un altro 15%, o poco meno, vive di elemosine.

Donne Rom di Roma, visto che per almeno la metà di loro, che sono di etnia “yugoslava”, parliamo di persone arrivate – o addirttura nate – nella Capitale prima del 1996. Ma, a quanto pare, ancora oggi non romane “a tutti gli effetti”.

A Milano non deve andare meglio, se un’indagine condotta, in due anni, su un gruppo di 1142 rom da due ‘medici di strada’ del Naga  in 14 aree milanesi (link) dimostrerebbe che gli aborti sono numerosi: una media di 3,8 aborti per donna, ma … solo il 32% delle donne dai 14 anni in su ha avuto almeno un’interruzione di gravidanza (volontaria o spontanea).

L’indagine, che ha fatto scalpore sotto la Madonnina, precisa che le aree destinate a campo nomadi sono state trovate “quasi tutte prive di servizi igienici, nella maggior parte dei casi la spazzatura non veniva ritirata e tutte in condizioni di sovraffollamento”, cosa che rende ancora più insicure e precarie le condizioni delle donne, specialmente se in maternità.

Più in generale, uno studio sulla situazione italiana di ERRC ed Opera Nomadi, acquisito dal Committee on the Elimination of Discrimination against Women dell’ONU (CEDAW) (link), conferma che le donne Rom in Italia subiscono spesso violenza, sessuale o semplicemente fisica, ma specialmente da italiani e non cercano aiuto presso le istituzioni competenti, poiché temono l’intervento si ritorca contro di loro o prevedono, in base ad esperienze pregresse, di essere ignorate.

Episodi pubblici di violenza e aggressività verso le donne Rom, anche se incinte, sono relativamente comuni. Diversi studi indipendenti menzionati nel Rapporto riportano una certa incidenza di episodi che coinvolgono pubblici ufficiali o impiegati.

Come anche i dati del Rapporto confermano che molte donne Rom (forse il 30%) avevano meno di 16 anni, se non solo dodici, all’età del “vero matrimonio”, celebrato secondo i riti Rom e non secondo la legge italiana.

Il 70% di loro è analfabeta o semianalfabeta, vivono in larga parte di elemosina o dipendenti dal marito, ma la sorte peggiore tocca a quel 15% che trova un lavoro “vero”, dove spesso subisce vessazioni e violenze.

Almeno metà delle donne Rom ha informazioni, relative ai servizi ed ai diritti cui può accedere, scarsissime, se non nulle, nonostante la grande mole di risorse spese per i progetti di mediazione culturale attuati da tanti comuni.

Secondo il Rapporto predisposto per il CEDAW-ONU, “le autorità, sia in Italia sia all’estero, ritengono che il matrimonio precoce tra Rom sia determinato culturalmente e non prendono iniziative per eliminare questa pratica pericolosa,” che viene perpetuata dagli “integralisti” come “pratica culturale dei Rom”, ma “le donne Rom intervistate vogliono che questa pratica abbia fine“.

Il Rapporto, ricevuto dal Committee on the Elimination of Discrimination against Women dell’ONU (link), precisa che “alla base dell’approccio del governo italiano alla questione Rom e Sinti c’è la convinzione che siano popolazioni “nomadi”, sebbene quasi tutti i Rom presenti in Italia siano sedentari“.

Potremmo anche iniziare a vergognarci o, quanto meno, riflettere.

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