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Chi sarà il candidato Presidente del PD

26 Gen

L’elezione del Capo dello Stato richiede, dalla terza seduta in poi, 505 dei 1009 voti espressi da 630 deputati, 320 senatori (315 eletti, 5 a vita) e 58 delegati delle Regioni (art. 83 Costituzione).

I ‘numeri’  collocano il Gruppo Parlamentare del PD in testa (407) seguito dal Centrodestra (234), M5S (143), Autonomie (51), Lega (35), Scelta Civica (34) e SEL (33), in fine il Gruppo Misto (23).
In poche parole, il PD ha da scegliere se trovare un’accordo interno per un nome ricevibile dal Centrodestra ed eleggere il presidente a grandissima maggioranza oppure se correr dietro alle ‘sirene greche’, affrontare l’incubo dello scisma e, soprattutto, votare lo stesso quel candidato, ma in condizioni paritetiche con gli alleati …

Ed i fronti interni non sono quelli che  leggiamo sui giornali, la questione non è se essere più o meno veterocomunisti democratici o più modernamente cattopostcomunisti, nè si tratta di pendere per le Coop (travolte dalle collusioni mafiose in troppe città) o per la ‘base operaia’, che ormai segue Landini e Marchionne.

Il primo fronte è quello ‘interno, nazionale’ dei ‘baby boomers’ – i nati tra il 1948 ed il 1955 – che gli italiani chiamano ‘ex sessantottini’ e che da una ventina d’anni fanno il bello e il cattivo tempo a nostre spese. Convinti di essere portatrice di in un futuro migliore e intendono somministracene ulteriori dosi, proponendosi a 70 anni come vestali del nostro futuro.
L’altro è quello ‘internazionale’ che ha già iniziato da tempo ad affidare il futuro ai cinquantenni di oggi, vedasi Merkel, Obama o John Ellis Bush, Valls, Cameron.  Una posizione che – destra o sinistra che sia – trova forte radicamento a livello popolare e tra i comparti tecnico-esecutivi, ma non offre figure gradite all’oligarchia cattocomunista italiota. E’ una compagine che ‘parla un’altra lingua’, figlia della genetica, dell’archeologia, della storia, dell’organizzazione umana riscritte negli Anni 80-90′, dopo i pregiudizi ed i luoghi comuni diffusi dalla kultura Anni ’60-70′.

In pratica, l’Italia deve affrontare lo stesso bivio dinanzi al quale si trovò la CEI quando si trattò di eleggere Karol Woytila al papato, facendo un passo indietro rispetto alle secolari logiche romanocentriche, e dinanzi al quale si è trovato il Vaticano intero nello scegliere un gesuita cosmopolita come moralizzatore di Roma.

Lo ‘stato delle cose’ lascia pochi nomi alla ribalta, a meno che il PD scelga una via disastrosa, cedendo a chi vorrebbe uno dei ‘soliti noti’ a presiedere il Quirinale, magari sbarrando la strada ad innovazione, semplificazione ed equità generazionale per altri sette anni.

L’estremo tentativo di un mondo che si regge solo su proroghe dell’età pensionabile e mandati elettivi già esauriti, come sul consenso di alcune zone dello Stivale,  beneficiate dall’Unificazione italiana, è Sergio Chiamparino (Moncalieri, 1948), ex alpino, presidente della Regione Piemonte dal 9 giugno 2014, esperto di  ristrutturazioni industrial fin dal 1975 e responsabile del Dipartimento Economico del PCI di Torino dal 1982.
Contro di lui, per non chiariti motivi, la sinistra PD di cui Stefano Fassina ricorda che “il nuovo Presidente dovrebbe garantire autonomia, esperienza, conoscenza delle dinamiche parlamentari e autorevolezza”, ovvero non il ‘compagno’ Chiamparino che non è mai stato parlamentare. Idem Raffaele Fitto, di Forza Italia: “Puntiamo ad un capo dello Stato autonomo, autorevole, e che non sia necessariamente espressione della sinistra”.

L’uomo che meglio raccoglie ‘il nuovo che non avanza, ma doveva esser già qui’ è Paolo Gentiloni, ex editore di ‘Nuova Ecologia’ e per anni parlamentare europeo e compnente delle Commissioni Ambiente ed Esteri dell’Unione Europea. Poco conosciuto in Italia, fuori dalla sua città natale, Roma, è stato l’uomo che forse più di tutti ha tutelato gli interessi energetici dell’Italia ed il suo upgrade tecnologico.
Ed, infatti, Gianni Cuperlo, parlamentare ed ex presidente del Pd, ha dichiarato “mi auguro che ci sia una proposta unitaria, seria, autonoma” da parte del suo partito e Gentiloni è un liberale di nobile famiglia, esponente del ‘mondo laico’ a partire da Bonino e Rutelli.

Tra i due fronti va a comporsi il tezo nome: Dario Franceschini, cinquantenne, proveniente dall’esperienza giovanile dei Cristiani per il Socialismo e delle Acli, sempre ‘apart’ rispetto all’oligarchia sindacal-cooperativa e spesso dimenticato dalla stampa ‘amica’. Ottimo mediatore e persona di cultura, cattolico populista e non operaista, può essere il punto di incontro raggiungibile o … già raggiunto, visto che è l’unico che rientra nei ‘parametri di veto’ delle due componenti ‘old school’ del PD, salvo che non tirino fuori dal cappello al cilindro un settantenne as usual … o, perchè no, Walter Veltroni, l’ex sindaco di tutti … non sgradito a Berlusconi.

Aggiunto che Mario Draghi ha annunciato i ‘Bot europei’ prima e non dopo le elezioni greche ed italiane, potrebbe addirittura accadere qualcosa di sensato nel Paese degli Acchiappacitrulli, ovvero che PD (407) più Centrodestra (234), con Autonomie e Scelta Civica (85) riescano a convergere ed eleggere il Presidente entro le prime tre sedute.

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Chi sarà il Presidente secondo i numeri e … buon senso

25 Gen

L’elezione del Capo dello Stato richiede, dalla terza seduta in poi, 505 dei 1009 voti espressi da 630 deputati, 320 senatori (315 eletti, 5 a vita) e 58 delegati delle Regioni (art. 83 Costituzione).

I ‘numeri’  collocano il Gruppo Parlamentare del PD in testa (407) seguito dal Centrodestra (234), M5S (143), Autonomie (51), Lega (35), Scelta Civica (34) e SEL (33), in fine il Gruppo Misto (23).
In realtà, a causa della gravissima situazione interna e delle pressioni della CGIL, è difficile che il PD possa garantire molto più di 300 voti, in un senso o nell’altro, e senza i ‘numeri’ del secondo aggregato parlamentare, il Centro Destra ancora dominato da Berlusconi, diventerebbe possibile qualsiasi colpo di mano.

Se i ‘numeri’ sono la conditio sine qua non per qualsiasi elezione e determinano dei ‘eprcorsi obbligati’, i  fronti possono essere più variegati.
Il primo fronte è quello ‘nazionale’ dei ‘baby boomers’ – i nati tra il 1948 ed il 1955 – che gli italiani chiamano ‘ex sessantottini’ e che da una ventina d’anni fanno il bello e il cattivo tempo a nostre spese. Gente che era convinta di essere portatrice di in un futuro migliore e intende somministracene ulteriori dosi.
L’altro è quello ‘internazionale’ che ha già iniziato da tempo ad affidare il futuro ai cinquantenni di oggi, vedasi Merkel, Obama o John Ellis Bush, Valls, Cameron.  Una posizione che – destra o sinistra che sia – trova forte radicamento a livello popolare e tra i comparti tecnico-esecutivi, ma non offre figure gradite all’oligarchia cattocomunista italiota.

In pratica, l’Italia deve affrontare lo stesso bivio dinanzi al quale si trovò la CEI quando si trattò di eleggere Karol Woytila al papato, facendo un passo indietro rispetto alle secolari logiche romanocentriche, e dinanzi al quale si è trovato il Vaticano intero nello scegliere un gesuita cosmopolita come moralizzatore di Roma.

Lo ‘stato delle cose’ lascia pochi nomi alla ribalta, a meno che il PD scelga una via disastrosa, cedendo a chi vorrebbe uno dei ‘soliti noti’ a presiedere il Quirinale, magari sbarrando la strada ad innovazione, semplificazione ed equità generazionale per altri sette anni.

L’estremo tentativo di un mondo che si regge solo su proroghe dell’età pensionabile e mandati elettivi già esauriti, come sul consenso di alcune zone dello Stivale,  beneficiate dall’Unificazione italiana, è Sergio Chiamparino (Moncalieri, 1948), ex alpino, presidente della Regione Piemonte dal 9 giugno 2014, esperto di  ristrutturazioni industrial fin dal 1975 e responsabile del Dipartimento Economico del PCI di Torino dal 1982.
Contro di lui, per non chiariti motivi, la sinistra PD di cui Stefano Fassina ricorda che “il nuovo Presidente dovrebbe garantire autonomia, esperienza, conoscenza delle dinamiche parlamentari e autorevolezza”, ovvero non il ‘compagno’ Chiamparino che non è mai stato parlamentare. Idem Raffaele Fitto, di Forza Italia: “Puntiamo ad un capo dello Stato autonomo, autorevole, e che non sia necessariamente espressione della sinistra”.

L’uomo che meglio raccoglie ‘il nuovo che non avanza, ma doveva esser già qui’ è Paolo Gentiloni, ex editore di ‘Nuova Ecologia’ e per anni parlamentare europeo e compnente delle Commissioni Ambiente ed Esteri dell’Unione Europea. Poco conosciuto in Italia, fuori dalla sua città natale, Roma, è stato l’uomo che forse più di tutti ha tutelato gli interessi energetici dell’Italia ed il suo upgrade tecnologico.
Ed, infatti, Gianni Cuperlo, parlamentare ed ex presidente del Pd, ha dichiarato “mi auguro che ci sia una proposta unitaria, seria, autonoma” da parte del suo partito e Gentiloni è un liberale di nobile famiglia, esponente del ‘mondo laico’ a partire da Bonino e Rutelli.

Tra i due fronti va a comporsi il tezo nome: Dario Franceschini, cinquantenne, proveniente dall’esperienza giovanile dei Cristiani per il Socialismo e delle Acli, sempre ‘apart’ rispetto all’oligarchia sindacal-cooperativa e spesso dimenticato dalla stampa ‘amica’. Ottimo mediatore e persona di cultura, cattolico populista e non operaista, può essere il punto di incontro raggiungibile o … già raggiunto, visto che è l’unico che rientra nei ‘parametri di veto’ delle due componenti ‘old school’ del PD e del Centrodestra, salvo che non tirino fuori dal cappello al cilindro un settantenne as usual.

Aggiunto che Mario Draghi ha annunciato i ‘Bot europei’ prima e non dopo le elezioni greche ed italiane, potrebbe addirittura accadere qualcosa di sensato nel Paese degli Acchiappacitrulli, ovvero che PD (407) più Centrodestra (234), con Autonomie e Scelta Civica (85) riescano a convergere ed eleggere il Presidente entro le prime tre sedute.

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Italicum: i punti a sfavore

22 Gen

La sentenza di incostituzionalità della (parzialmente) vigente legge elettorale verteva su cinque punti cardinali:

  1. “il risultato casuale di una somma di premi regionali (al Senato), che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale”
  2. il caso che alla Camera “una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi”
  3. “l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio”
  4. il premio di maggioranza su scala regionale “comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata”
  5. la norma che “priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti”
  6. “una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare”.

L’Italicum – proposto da Renzi e ‘benedetto’ da Berlusconi – soddisfa a pieno solo i primi quattro requisiti, mettendo fine sia alle maggioranze oceaniche della Camera sia alla roulette russa del Senato, che federale (ancora) non è. Riguardo gli ultimi due, sarà da vedere.

Negare agli elettori le ‘preferenze’ equivale a “privare l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti”. Un premio a chi si coalizza e supera il 35% dei voti potrebbe rivelarsi “una eccessiva compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare”.

Dunque, non c’è da meravigliarsi se l’accordo per la legge elettorale venga aggregato tra due leader di partito e non in Parlamento, ovvero dove dovuto, e on si pone rimedio a “l’incentivo implicito nel porcellum a dar vita a coalizioni disomogenee pur di vincere il premio e, passate le elezioni, alla frammentazione partitica”, come commenta Federico Punzi (blogger dal 2003).

Infatti, quello che preoccupa nell’Italicum – oltre all’esclusione delle preferenze e ad un Senato tutto da capire – è anche altro. L’esito di un ballottaggio dal quale esca una premiership forte senza una maggioranza almeno sufficiente, ad esempio.

Ma , soprattutto, preoccupa – in termini di compressione della rappresentatività – l’ipotesi che alla Camera vi sia una ‘circoscrizione locale’ (ndr. distretto elettorale) per ogni provincia, ‘equiparando’ quella che ha 200.000 residenti a quella che ne ha 400.000 o quasi un milione, mentre ve ne saranno di più – ma non quanto ‘di più’ – nelle aree metropolitane.

Buon senso e logica ci dicono che con una Camera di 630 eletti e 38 milioni di ammessi al voto, viene eletto un onorevole ogni 60.000  elettori. Dunque, chi vive in provincia di Fermo o di Rieti dovrebbe poter eleggere 2-3 deputati, chi è a Caserta o a Varese i suoi dieci-dodici e così via nelle grandi province urbane, dove gli eletti saranno tra i 35 ed i 50.
E, almeno, il buon senso ci dice anche che i candidati delle aree demograficamente più dense dovrebbero avere pari opportunità di raccogliere il consenso elettorale che gli serve per essere eletti.
Ma questo non si verifica se un candidato si rivolge a meno di centomila elettori competendo con meno concorrenti, mentre un altro deve convincere un elettorato di 3-400.000 persone con concorrenti agguerriti e sponsorizzati. Specialmente, poi,  se non gli elettori non potranno esprimere le preferenze …

L’impressione che l’Italicum serva solo a gestire una transizione interna alla Partitocrazia – come la denominò tanti anni fa Marco Pannella – che oggi chiamiamo Casta, come strilla Beppe Grillo, e che qualcuno – già nel Dopoguerra – denominò ‘Catto-comunismo’.

Scriveva Riccardo Lombardi, a nome del Partito d’Azione, su ‘L’Europeo’ del primo dicembre 1946: “vediamo cosa avviene nella Repubblica Presidenziale ove, e’ bene ricordarlo il Presidente della Repubblica e’ nello stesso tempo capo del governo e viene eletto a suffragio universale anziche’ eletto in secondo grado dalla Camera dei Deputati (cioe’ dai partiti): gia’ in sede di elezioni il candidato alla Presidenza della Repubblica, appunto perche’ sara’ anche capo di un governo, e’ costretto a presentarsi con un programma di governo: il compromesso programmatico non avverra’ tra i diversi candidati alla presidenza e dopo le elezioni […] dunque il compromesso avverra’ prima delle elezioni, fra alcuni partiti che […] si accorderanno per la candidatura di un uomo a cui sara’ affidato un programma concordato”.

Già … cambiar tutto per non cambiar niente … come parlare di legge elettorale senza parlare anche di repubblica presidenziale e … di par conditio mediatica sulle reti di Stato?

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La Sinistra di Matteo Renzi e i dati sul lavoro USA

9 Dic

Matteo Renzi vince le Primarie del PD, mentre – dal 2005 ad oggi – la platea dei votanti alle primarie passa dai 4,3 milioni del 2005 ai soli 2,5 milioni (sedicenni inclusi) di oggi.

“Io capitano, fine degli inciuci”, intona il neosegretario, come se nel ‘suo’ Comune di Firenze non ce ne siano.
“Cambiano i giocatori”, come se fosse lui a deciderli e non gli elettori (ndr. come ha ribadito la Corte Costituzionale). E “anche il sindacato deve cambiare”, ma “è la fine di una classe dirigente, non della Sinistra”.

A quale Sinistra e a quale Sindacato faccia riferimento Matteo Renzi è presto detto: parliamo di Obama e degli Stati Uniti. Mica di microeconomia e di equo-solidale, come vorrebbe Ignazio Marino, o di Meridione e rilancio industriale, come senso civico e giustizia sociale suggerirebbero.

Dal Washington Post di sabato apprendiamo che “l’economia americana ha aggiunto 203.000 posti di lavoro nel mese di novembre, secondo i dati del governo pubblicati venerdì mattina, aumentando le speranze che la ripresa è pronta per il decollo.

Il rapporto del Dipartimento del Lavoro ha anche mostrato che il tasso di disoccupazione è sceso al 7 per cento, il livello più basso degli ultimi cinque anni. Il calo riflette una ripresa nelle assunzioni piuttosto che una riduzione della forza lavoro, che ha spinto verso il basso il tasso di disoccupazione nei mesi precedenti. Si stima che circa 455.000 persone sono entrate nel mercato del lavoro nel mese di novembre.”

Come? Flessibilizzando e parcellizzando il lavoro on demand, con buona pace delle organizzazioni sindacali statunitensi. E lo stesso sta chiedendo di fare la SPD tedesca, mentre appoggia sottobanco la richiesta di infrazione per surplus contro la sua stessa Germania.

Visto cosa accadeva (e accade) nelle fabbrichette cinesi in Toscana, l’idea – per quanto efficace – non è del tutto rassicurante, specie se ricordiamo che mezzo paese è Gomorra, che Roma vive di servizi offerti ai propri cittadini, che il Triveneto è una zona ‘fiscalmente opaca’ e i dati denunciano da molti anni orari settimanali ben superiori alle 40 ore.

Basta un click per votare, ma non per governare.
Molti ravvisano una certa somiglianza tra Berlusconi, Grillo e Renzi, sia nell’uso dei media sia nel concetto che hanno di ‘premiership’. Probabilmente possiamo aggiungere una certa ingenuità … o la facilità con cui si promette.

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Perchè il PD perde voti?

29 Nov

Arriva tramite l’osservatorio Questioni primarie, in collaborazione con l’edizione online della rivista Il Mulino e il coinvolgimento dell’Osservatorio sulla comunicazione politica dell’università di Torino, l’analisi di Candidate & Leader Selection dell’elettorato e del voto alle Primarie PD, nella recente edizione ‘Bersani – Renzi’.

C&Ls Dati Primarie PD Partecipazione

Un primo dato, certamente significativo e poco incoraggiante, è quello del 58,3% di tutti i tesserati ha partecipato a più di 5 volte ad attività di circolo, ovvero incontrandosi di media una volta ogni due mesi.
Molto poco, neanche un dibattito od una conferenza al mese, specie se si considera il consistente divario tra gli iscritti ‘ante PD’ e quanti aggregatisi dopo il 2007: il 45% dei primi partecipano a ‘cinque o più’ iniziative/manifestazioni all’anno, il 20% dei secondi dichiara di non partecipare ‘mai’.
Gli altri partiti – a livello di circoli e manifestazioni – non vanno affatto meglio, ma possono contare anche su altri fattori aggregativi – che la fin dal vecchio PCI sono stati considerati ‘ricreativi’ – come associazioni (centrodestra), forum-blog (M5S),  centri sociali (estrema destra/sinistra), presenza sul territorio (Lega, Autonomie).

Il dato si conferma e diventa abnorme, se consideriamo che, alle Primarie 2012, gli elettori/iscritti conobbero il Renzi-pensiero tramite ‘televisione e radio’ (> 40%), con percentuali infime per quanto relativo l’informazione ‘di partito’, ‘sindacale’, ‘associazionistica’.
Un elettore/iscritto che si forma un’opinione in larga parte tramite la televisione, che si confronta con i ‘compagni’ ogni due-tre mesi (40-50%), salvo chi non si vede mai (10-20%), che vota un partito diverso (uno su 5/10) se il proprio candidato alle Primarie PD non vince.

I dati di C&Ls non descrivono una base elettorale ‘propositiva, inclusiva e partecipante’.
Parlare di ‘partito di massa’ o ‘popolare’ è molto difficile se molti ‘iscritti’ siano andati al voto delle Primarie conformando la propria opinione a quanto visto o sentito in televisione e alla radio.

Dicevamo dei ‘defezionisti’, di coloro che votano per un partito diverso dal PD se il proprio candidato alle Primarie PD non vince. Sono uno su cinque – almeno in termini potenziali – e , dal 2007 ad oggi, hanno costituito un’emorragia di voti ‘importante’. Almeno del 3-5% dei voti.

E’ luogo comune credere che questi siano elettori che abbandonano il PD perchè ‘vogliono qualcosa di sinistra’.
I dati di C&Ls smentiscono questo luogo comune: la propensione per il Centro e la Destra è rilevante.

C&Ls Dati Primarie PD Defezionisti

Primarie del PD che – se avevano da principio lo scopo di aggregare diverse forze politiche di diversa estrazione e, nel corso degli anni, anche quello di pre battage elettorale – sembrano essere un vero e proprio boomerang verso i ‘simpatizzanti’, che nel 2013 sono arrivati quasi al 50% tra incerti e defezionisti.

C&Ls Dati Primarie PD SImaptizzanti

L’analisi della base elettorale fatta da C&Ls non sembra però chiarire nè quale sia l’elettore 2.0 del PD (quello che ne garantirà un futuro) nè che fine faccia l’emorragia di voti che affligge la sinistra italiana dal 2007.

C’è da prendere atto, però, che i voti eventualmente perduti dal Partito Democratico non vanno certamente a sinistra: non sono stati nè Bertinotti nè Vendola ad avvantaggiarsi, ma lo hanno fatto l’Italia dei Valori di Di Pietro, la Lega di Maroni, le Cinque Stelle di Beppe Grillo.

Dopo Tangentopoli, la sinistra italiana ‘non comunista’ non è mai riuscita a coinvolgere e raccogliere  intorno a se più di un terzo dell’elettorato:

  • 2013 Bersani (PD) circa 8,6 milioni di voti
  • 2008 Veltroni (PD) 12 milioni di voti
  • 2006 Prodi (L’Ulivo) 12 milioni di voti
  • 2001 Rutelli (DS + DL) 11,5 milioni di voti (proporzionale)
  • 1996 Prodi (PDS + PPI) 10,5 milioni di voti (proporzionale)
  • 1992 Occhetto (PDS)  6,3 milioni di voti (+ PSI 5,3 + PRC 2,2 milioni)
  • 1987 Natta (PCI) 10,5 milioni di voti (+ PSI 5,5 milioni)

E’ nei numeri la chiave dell’arcano: la Sinistra italiana post Tangentopoli (e post Guerra Fredda) si è liberata di 2-3 milioni di ‘voti di protesta’ e di ‘duri e puri’ confluiti nella Lega e nelle Autonomie, nell’astensionismo, nel comunismo millenaristico, ma non è riuscita ad attrarre nè l’elettorato  moderato (socialisti e popolari ‘di base’) nè l’elettorato meridionale, irrimediabilmente deluso dalle esperienze di Bassolino e Loiero.

Risultato? Mancano all’appello quei 4-7 milioni di elettori che fanno la differenza tra maggioranza e opposizione e che nessuna legge elettorale – per quanto infame – può compensare se non in modo figurativo.

Il tentativo di pervenire ad un ecumenismo populista tramite l’alleanza ulivista di Romano Prodi e la fusione con i giovani democristiani /cattolici di base delle ‘regioni rosse’ (Renzi, Bindi, Fioroni, Franceschini) è stato probabilmente il maggior fattore di ‘rigetto’ verso la trasformazione socialdemocratica ed l’ammodernamento del partito.

A venti anni dalla fine della Prima Repubblica, il Partito Democratico non riesce a darsi un’immagine diversa da quella di un consociativismo oligarchico e populista tra ex comunisti ed ex democristiani. Ed, intanto, una parte dei suoi ex o potenziali elettori – milioni e milioni di cittadini – non vota per i diversi partiti di estrema sinistra o partecipa alle manifestazioni ‘antagoniste. Anzi, passando al M5S od alla Lega, questa parte dell’elettorato opta per proposte affatto ‘di sinistra’ su immigrazione, europeismo, giustizia, fiscalità, istruzione eccetera. Per non parlare di chi – alle amministrative – non trova altra opzione che votare Alemanno, Moratti o Caldoro.

Non è affatto un caso che Epifani, segretario del PD, annunci il “consesso dei socialisti europei a febbraio in Italia per la prima volta. Lì sono le nostre radici” ed i cattolici insorgano con l’ex segretario del Ppi, Pierluigi Castagnetti, che reclama come “il Pd abbia mai deliberato di aderire al Pse”, e l’ex sindaco di Viterbo, Giuseppe Fioroni, che parla di “un blitz pericoloso e grave”, del venir “meno l’atto fondativo del Pd”, che “lo scioglimento della Margherita è annullato di fatto”.

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Le intenzioni di voto degli italiani: un nuovo Centrodestra e/o Centrosinistra

18 Nov

Secondo i dati diffusi da RAI 3, le intenzioni di voto degli italiani al 15 novembre 2013 prefiguravano ancora una risicata vittoria del Centrosinistra, in caso di elezioni.

intenzioni voto 15 novembre

In termini di coalizioni ‘classiche’, l’esito sarebbe il seguente:

  • PD+SEL+Scelta Civica = 34,0% (22,1%)
  • PDL+Forza Italia+Lega+UDC = 30,6% (19,9%)
  • M5S = 25,3% (16,6%)

Oppure:

  • PDL+Forza Italia+UDC+Scelta Civica = 33,1%  (21,5%)
  • PD+SEL = 31,5% (20,4%)
  • M5S = 25,3% (16,6%)

I numeri tra parentesi rappresentano il consenso ‘effettivo’, tenendo conto di un astensionismo (intorno) al 35%, come stimato da tutti i sondaggi recenti, e che potrebbero essere anche molto ottimistici, visto come sono andate le ultime elezioni dei principali sindaci italiani.

A Roma – dovendo scegliere tra Ignazio Marino e Gianni Alemanno – il 55% degli elettori – pochi mesi fa – ha preferito non recarsi alle urne per il ballottaggio. Solo il 28,7% effettivo degli elettori ha dato il proprio consenso a Marino, ma i giornali parlavano di vittoria con il 63% …
A Napoli Giggino De Magistris rischia ogni giorno la defenestrazione per inerzia e pressappochismo e … venne eletto nel 2011 con un astensionismo al 50% secco. Il 73% dei napoletani non gli diede il proprio voto.
A Milano – dove tutto (per ora) tace in attesa di un (si spera) lauto Expo 2015, cui faranno seguito, come d’ordinario, i soliti scandali e qualche arresto – Pisapia non ebbe il consenso di oltre il 65% degli elettori.
A Firenze, Matteo Renzi fu eletto con il 42% di astenuti, mentre al primo turno aveva votato il 76% … Solo il 35% effettivo degli elettori l’ha votato e di ‘mal di pancia’ tra i fiorentini se ne sentono tanti e tanti.
Stesso discorso a Torino per Piero Fassino (astenuti 34%, solo il 44% dei consensi effettivi al ballottaggio). A Palermo, Orlando amministra il Comune con il 61% dei cittadini che si sono astenuti, ovvero con una maggioranza bulgara di 30 seggi su 35 totali (86%) a fronte di un modesto 28,5% di consensi effettivi.

Chi, dunque, propone una legge elettorale simile a quella in uso per i Comuni è evidentemente disattento verso le abnormità palesi che emergono dai dati elettorali e dalla composizione dei consigli.
Come anche è evidente che nessun sondaggio elettorale può fornire previsioni di medio periodo, finchè l’elettorato è ben diviso in quattro spezzoni, che – incredibile, ma vero – si attestano in quest’ordine:

  • 35%, Astenuti
  • 26%, Partiti/movimenti di protesta e/o locali (Lega, Autonomie, M5S, SEL, IdV, ultraDestra)
  • 22%, Centrodestra
  • 17%, Partito Democratico

Ecco perchè il Governo Letta non riesce a fare nè un passo avanti nè due indietro ed ecco perchè la contesa nel Partito Democratico è acerrima: la crisi di consensi e di idee è profonda, almeno quanto lo sono state l’assenza di rinnovamento e l’azione di lobbing del mondo cooperativo e consociativo, che – non dimetichiamolo – per PIL ed accesso a sussidi e benefit rappresenta una sorta di Confindustria ‘a parte’.

Da questo punto di vista, la disattenzione può diventare miopia, se si continuasse a parlare di ‘crollo del Centrodestra’ e di ‘ecumenismo renziano’.
Infatti, mentre lo strappo di/da Forza Italia offre nuove possibilità di riaggregazione dell’elettorato del Centrodestra e delle formazioni politiche esistenti, il congresso del Partito Democratico sta prendendo una piega ‘scissionista’ se accadrà, come possibile, che la marcia trionfale di Matteo Renzi si trasformi in una sfida all’OK Corral.

E se ciò accadesse, aumenta la possibilità che il Centrodestra – affrancato dal Berlusconismo – decida di andare alle elezioni nel corso del 2014, sfiduciando un governo inerte, indeciso e già vessato da scandali, che vede calare la fiducia degli italiani sempre più in basso (circa il 30% di coloro che hanno voluto rispondere ai sondaggi, all’incirca il 10% effettivo dei contatti).
Oppure, se la nascita del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano dovesse imporre una svolta in positivo al nostro letargico governo, dovremmo solo rinviare il distacco all’anno successivo, il 2015,  se si volesse ragionare in prospettiva, ovvero tenendo conto delle amministrative che, nel 2016, coinvolgeranno Napoli, Milano, Firenze e, soprattutto, dell’Anno Horribilis, il 2017, quando – al rimborso e rinnovo dei titoli di Stato quinquennali, mentre l’ultima onda del Baby Boom dovrà pur andare in pensione – verranno a galla tutti i danni causati da questi (per ora) quattro anni di stasi governativa e politica e di salvataggi finanziari a senso unico.

L’aver protratto il confronto interno così a lungo – mentre si attende una sentenza costituzionale che renderà il Porcellum inservibile – ha danneggiato il Partito Democratico e maggiori danni ne verranno, se dal Congresso non ne uscirà un segretario ed una linea politica che ricordino la lezione di Enrico Berlinguer (sostanzialmene affine a quella di Giulio Andreotti o, meglio, di Charles De Gaulle e di Juan Domingo Peron): in una democrazia la maggioranza dei voti tende sempre a collocarsi nell’area moderata e non agli estremi.

Chi vuole governare per la pace e per la prosperità mal si accompagna con chi semina vento per generare tempesta, come anche chi si accontenta sempre di un uovo oggi, finisce per non avere galline domani.

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