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La Scuola può produrre diseguaglianza e degrado?

7 Apr

Pattern in inglese sta per “modello, schema, configurazione”. Purtroppo, l’abuso di questo termine fatto in psicologia l’ha reso quasi sconosciuto negli ambiti gestionali pedagogici, anche se è in uso negli ambienti di lavoro sia per la produzione sia per la progettazione.

Il pattern è uno schema, un modello specifico che viene seguito e che tende generalmente a ripetersi. Tale schema è originariamente una bozza, un piano, una linea di base su cui impostare un lavoro.

Senza pattern ‘preliminari’, nessun progetto (e nessun project management) può garantire la pianificazione, l’esecuzione, il monitoraggio e il completamento: questo è il motivo per cui è ancora molto diffusa nelle scuole e nelle università una pianificazione in corso d’opera (sic!) e la rendicontazione ex post, ambedue poco legittime e certamente disfunzionali.

Risorse, strutture e organigrammi – ad esempio – sono inevitabilmente inadeguati, se manca la definizione di un modello non solo per la didattica, ma anche per il ruolo docente, per l’accesso dei discenti al lavoro e alle professioni, per la gestione locale del disagio e delle diversità.

Oggi, rispetto alla scuola degli Anni ’50, al pattern dei Programmi Ministeriali (cogenti) si sono sostituite le Indicazioni (discrezionali), a quello dei vincitori di concorso si è affiancato quello delle immissioni in ruolo, è cessata l’omogeneità di una formazione continua nazionale in servizio, la dispersione scolastica e la carenza di lauree STEM dimostrano che il divario tra istruzione e lavoro è ritornato quello di 100 anni fa, la gestione del disagio e delle diversità è a macchia di leopardo a seconda delle diverse norme sociosanitarie regionali, anche se si tratta di diritti costituzionalmente tutelati.

E non è che a questo possa sopperire la Scuola dell’Autonomia, che Luigi Berlinguer aveva pensato per essere ‘smart’, ‘friendly’ e ‘choosy’, cioè supportata dall’introduzione di un syllabus e di prove nazionali, di scuole in rete per acquisti, sponsor e rapporti locali, di docenti con funzioni ‘quadro’ qualificate, di dirigenti pubblici preposti eccetera eccetera.
Un’Autonomia ‘didattica’ che oggi dovrebbe funzionare con 40+40 ore all’anno di orario non d’insegnamento per i docenti con la dirigenza scolastica che prima di tutto deve gestire le migliaia di atti che una scuola emette in un anno, senza che la Regione o il Comune siano direttamente responsabilizzati in Consiglio d’Istituto.

Dunque, non è certamente con un piano di assunzioni su vasta scala che si può risolvere il problema e ridarci una ‘buona scuola’. Anzi, è solo possibile peggiorarla se si dovessero assumere docenti inadeguati o di ambito non necessario, come più o meno succede dall’Unità d’Italia per scopi occupazionali: così si aggraverebbe il gap esistente tra materie umanistiche dominanti nelle scelte universitarie e quelle tecnico-scientifiche che a malapena coprono il fabbisogno aziendale nazionale con buona pace della cattedre scoperte.


Ed è ancor più probabile l’insuccesso a lungo termine, se questi docenti neo-immessi in ruolo dovessero ritrovarsi ad operare in un sistema localistico, discrezionale e non monitorato, privo di un modello, proprio negli anni in cui accumulano esperienza e competenze. Lo stesso vale per la dirigenza e il personale ATA.
L’Italia è già messa male, se leggiamo strafalcioni grammaticali sui media, se troppi si sono laureati imparando solo la “kultura” di 50 anni fa, se la Scienza è un’opinione da talk show come è stato durante il Covid.

Prima di dare corso ad ulteriori assunzioni sarebbe importante definire il ruolo docente, l’iter concorsuale standard, la formazione in servizio, i criteri di accesso a posizioni di coordinamento o di staff, i saperi minimi in sede di esame annuale. E’ dal 1999 che l’Italia attende.

Sarebbe anche importante che lo Stato pubblichi non le Indicazioni e non i Programmi, ma i Saperi minimi necessari all’accesso alle classi successive e il Questionario nazionale delle prove annuali, visto che siamo nel III Millennio da una generazione. E’ l’elemento essenziale per veder riconosciuto un diploma all’estero, come sa chi ci ha provato.

E sarebbe essenziale – se non si vuol navigare a vista – aver delineato quale sarà il rapporto Stato-Regioni per istruzione e formazione – in relazione al mondo del lavoro che è cambiato (ndr. c’è crisi da 10 anni ormai) e cambierà (PNRR e guerre). A che scopo far funzionare licei e istituti se non c’è una politica univoca per sviluppare imprese, cultura e occupazione.

Senza pattern, senza un modello o uno schema, come fa una scuola a perseguire obiettivi con efficacia?
E quanta parte del personale scolastico è formata per definire, attuare e adeguare uno schema di lavoro?

Tra concorsi in atto, immissioni in ruolo, formazione in servizio e PNRR da spendere, abbiamo un anno o forse due per riportare la docenza (e la didattica) a degli standard qualitativi uniformi in tutto in Paese, ma gli Italiani hanno davvero voglia di rimettersi sui libri e … adottare dei pattern (‘modelli’ nazionali) per i ‘docenti quadro’, per i ‘programmi’, per la verifica annuale degli alunni, per l’aggiornamento, per i libri di testo, per la dotazione minima dei laboratori e delle aule?

A.G.