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Prodi presidente? Tanti motivi per dire di no

15 Dic

Fassina nel salotto buono di Lilli Gruber sostiene la candidadura di Romano Prodi, come sostituto di Giorgio Napolitano; Giachetti, un’ora dopo, reesta possibilista.

Eppure di motivi (ottimi) per escludere una ‘presidenza Prodi’ ce ne sono. In un altro post si raccontava la sua biografia estesa, ricordiamo in pochi punti perchè proprio sarebbe inopinabile una tale candidatura.

Romano Prodi, al suo primo incarico manageriale nei primi Anni ’70 come presidente della Maserati e della società nautica Callegari e Ghigi, due imprese in difficoltà gestite dall’istituto finanziario pubblico GEPI, fu ‘de facto’ l’inventore della famigerata ‘cassa integrazione’. Una vicenda di cui scriveva Adriano Bonafede (Miliardi nel pozzo Gepi, La Repubblica, 8 gennaio 1988), raccontando che “a posteriori è possibile attribuire a GEPI un notevole ruolo nello sperpero di risorse pubbliche e nel ritardo infrastrutturale italiano, dato che  solamente per la Innocenti, nel decennio tra il 1976 e il 1986, erogò contributi per l’astronomica cifra di 185 miliardi di Lire.

Nel 1982, Romano Prodi ottenne la presidenza dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, dove verrà successivamenre richiamato nel 1993: la produzione e la capacità manifatturiera del Meridione venne dimezzata,  dismettendo ben 29 pregiate aziende del gruppo, tra le quali l’Alfa Romeo, Finsider e Italsider, Italstat e Stet, Banca Commerciale, Rai, Alitalia, Sme, con drammatici tagli occupazionali gestiti tramite generosi prepensionamenti, che ancora oggi gravano sul nostro PIL,  azzerando le attività portuali ed industriali di una città come Napoli e provocando il crash del Banco di Napoli, con lo stop degli interventi straordinari nel Mezzogiorno e la canalizzazione su banche settentrionali dei fondi europei.

Come Presidente del Consiglio, Romano Prodi è stato artefice dell’entrata nell’Euro e dell’adeguamento delle pensioni in Lire, che oggi si sono rivelati disastrosi. Inoltre i suoi governi hanno promulgato le quattro norme sulla Sanità che oggi – anni dopo – si conclamano incapaci sia di contenere gli sprechi sia di incidere sulla malasanità sia garantire trasaprenza come sanno i cittadini delle Regioni con Irperf maggiorata. A Romano Prodi dobbiamo anche ascrivere la blindatura dei contratti di lavoro del pubblico impiego, nel 2007, e le norme che hanno causato /permesso il vero e proprio saccheggio che le casse previdenziali ex Inpdap hanno subito prima di essere fagocitate dal Inps.

Ma, soprattutto, Romano Prodi non può fare il presidente della Repubblica – non in un’Italia che volesse ‘cambiare’ – se Il Manifesto del 14 agosto 2004 titolava”Li fermeremo in Libia. Accordo con l’Italia per blindare frontiere e mari. Prodi si congratula con Gheddafi“ e  se Der Spiegel scriveva non troppi anni fa sui presunti legami nel ruolo di consulente per il leader kazako Nazarbayev, per non parlare dell’inchiesta Why Not su una presunta ‘loggia sammarinese’ poi finita archiviata.

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Falso in bilancio, la madre di tutte le iniquità e ruberie, come del disastro finanziario della spesa pubblica

18 Apr

Il falso in bilancio consiste in una rappresentazione dei dati contabili che persegua l’interesse di intervenire artatamente sulla reputazione dell’azienda, influendo quindi sul credito che potrebbe ottenere.
I tipi di falso sono diversi: quello ‘materiale’ vero e proprio e quello ‘in valutando’, ovvero quando si sotto-sovrastimano entrate, ammortamenti, costi, mentre si parla di  falso per induzione quando un bilancio altrimenti regolare viene reso non più veritiero dall’inclusione di dati mendaci provenienti da bilanci di altre società. Ma c’è anche  il falso ‘qualitativo’, che si esplica in alterazioni non incidenti sul risultato economico o sull’entità complessiva del capitale, ma solo sulla rappresentazione che ne viene fornita. (cfr. Ermanno Zigiotti, Il falso in bilancio nei suoi fondamenti di ragioneria, Cedam, Padova, 2000)

Dunque, il ‘falso in bilancio’ non è un delitto che riguardi solo le società commerciali, ma è un fenomeno che interessa ogni ‘azienda’ che compili un bilancio sia per rendere conto agli azionisti sia per ottenere finanziamenti sia per giustificare la stessa ragione di essere, se trattasi di settore pubblico o a progettazione pubblica. Come anche, è discutibile se la fornitura di servizi (vedi scuole e asl ad esempio) non sia essa stessa un’attività ‘commerciale’.

Tutto inizia con la Legge 3 ottobre 2001, n. 366,”Delega al Governo per la riforma del diritto societario”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 234 dell’8 ottobre 2001, in cui il Governo Amato veniva delegato “ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative, la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali”.

Una norma che – tra l’altro – intendeva:

  1. “favorire la partecipazione dei soci cooperatori alle deliberazioni assembleari e rafforzare gli strumenti di controllo interno sulla gestione”,
  2. “disciplinare la figura del gruppo cooperativo quale insieme formato da più società cooperative, anche appartenenti a differenti categorie”,
  3. “prevedere che alle società cooperative si applichino, in quanto compatibili con la disciplina loro specificamente dedicata, le norme dettate rispettivamente per la società per azioni e per la società a responsabilità limitata”,
  4. “prevedere che le norme dettate per le società per azioni si applichino, in quanto compatibili, alle società cooperative a cui partecipano soci finanziatori o che emettono obbligazioni”.

Erano escluse da questa norma le banche cooperative e le amministrazioni pubbliche, nonostante la nozione dei reati e degli illeciti amministrativi fosse ampiamente applicabile anche al settore pubblico, già segnato dagli sprechi e dalle corruttele della Prima Repubblica, visto che – in Europa e non solo – offrire servizi è un’attivittà d’impresa e spesso di ‘vendita’.
“La falsità in bilancio, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, (è) consistente nel fatto degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori i quali, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, idonei ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico, ovvero omettono con la stessa intenzione informazioni sulla situazione medesima, la cui comunicazione è imposta dalla legge”.

Un anno dopo, il Decreto Legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le societa’ commerciali) derubricava il tutto a “false comunicazioni sociali”, depenalizzando la materia e portandola a livello di ‘sanzione’. E di regole per le cooperative, neanche l’ombra …

La punibilita’ e’ esclusa se le falsita’ o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della societa’ o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilita’ e’ comunque esclusa se le falsita’ o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1 per cento.
In ogni caso il fatto non e’ punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta.”

Anche un bambino si renderebbe conto che con una ‘non punibilità’ del genere è abbastanza facile scavare voragini nei conti delle aziende, come ad esempio accadde per la Parmalat.
Si disse che fu una legge ad personam, voluta da Silvio Berlusconi impegolato in uno dei suoi eterni processi, ma è evidente che a beneficiarne furono tante aziende (e tanti evasori), tanta e tantissima casta che iniziò ad operare tramite società a cui esternalizzare servizi e innovazione pubblici, le amministrazioni scolastica e sanitaria in toto, appena rese ‘autonome’ e potenzialmente operanti ‘conto terzi’ e anche con ‘attività commerciali’, l’arcipelago delle cooperative.
E, portando a livello di sanzione ‘amministrativa’ i falsi in bilancio (aka “false comunicazioni sociali”) del settore privato, di riflesso accadde che anche nel settore pubblico diventasse una ‘questione interna’: fu proprio in quegli anni che i poteri della Corte dei Conti furono ridotti al lumicino.

Da un mesetto circola la notizia che “serve un apparato penal-sanzionatorio «più rigoroso» per il contrasto alla criminalità organizzata. Introducendo, in primo luogo, i reati di autoriciclaggio e falso in bilancio. La proposta arriva dal comandante generale della Guardia di finanza, Saverio Capolupo, ascoltato in audizione alla commissione Antimafia.” (Sole24Ore)

Reati di autoriciclaggio e falso in bilancio, che colpirebbero caste ed evasori ben prima di incidere sulla criminalità organizzata e che, di riflesso, comporterebbero dei bilanci pubblici ben più rigorosi …

In che Italia vivremmo se – vista la difformità delle nostre leggi e dei notri bilanci dalle norme comunitarie – già negli Anni ’90 ci fossimo dotati di norme decenti sulle scritture contabili private e pubbliche, ovvero atte ad evitare che si “espongano fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, idonei ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria”?

Nei fatti – con leggi diverse – non avremmo avuto la svendita IRI o il Lodo Mondadori, gli scandali Parmalat e Monte Paschi o quello del parco fotovoltaico in Sicilia, il proliferare della mafia e dell’evasione fiscale, le spese pazze dei politici e i super-stipendi dei privilegiati, le frodi europee e la vergognosa vicenda dei ‘precari’ dei servizi esternalizzati, l’istruzione che mette a bilancio debiti e la sanità che spreca senza un perchè … la voragine creata nell’ex Inpdap e i conti sballati dell’Inps e delle pensioni … le regioni e i grandi comuni da commissariare, eccetera.
Falso in bilancio, per i privati, equivale a ‘rigore e trasparenza’, per il pubblico. In ambedue i casi parliamo di ‘responsabilità’.

Dunque, riguardo ai ‘beneficiari’ di una tale carenza di norme fondamentali per una comunità, è del tutto superfluo limitarsi ai processi di Silvio Berlusconi come è del tutto inutile chiedersi il ‘chi e come’ dell’enorme schiera di co-interessati, prima e dopo il 2001 …

Basterebbe, però, che iniziassimo a chiederci tutti se, con un INPS che fosse sottoposto alle norme che regolano una qualsiasi compagnia di assicurazioni, avremmo abbandonati a se stessi gli esodati, i precari, i disoccupati, gli invalidi, le donne, i giovani e … le pensioni d’oro.

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Romano Prodi, un curriculum da conoscere

15 Apr
(tempo di lettura 8-10 minuti) 

Romano Prodi, dopo il flop del suo esecutivo ‘di lotta e di governo’, nel 2007, e dopo il conseguente oblio, neanche interpellato sui guai dell’Eurozona di cui fu l’ideatore ed il fondatore, ritorna in auge nel listino degli probabili presidenti della Repubblica, con il voto del PD e del M5S.

Ma chi è Romano Prodi? Cosa ci racconta il suo curriculum?

Iniziamo col dire che non proviene da una ‘famiglia di contadini’, ma, più esattamente, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri emiliani, relativamente benestanti visto chei figli poterono studiare presso il prestigioso liceo classico Ariosto di Reggio Emilia e, poi, continuare gli studi universitari come fuori sede.
Romano l’ottavo dei nove figli di Mario Prodi, un ingegnere, sembrerebbe ‘dipendente pubblico’ (Luciano Chiappini, “Una voce fedele e libera: il Taccuino”), e di Enrica, maestra elementare.
Dipendenti pubbici sotto il Fascismo, che dovevano essere di giurata fede, come pretendeva il regime dell’epoca, come anche va ricordato che Romano era il nome il nome di battesimo del più giovane dei figli del Duce. Nulla di male e nulla di nuovo, gran parte degli italiani erano sentitamente fascisti all’epoca.

Una famiglia Prodi che, comunque, credeva nel progresso e – proprio nell’epoca in cui, sappiamo oggi, vennero a costituirsi le famigerate filiere baronali e nepotistiche – ebbe il merito e la fortuna di riuscire ad  inserirsi nel sistema di carriere universitarie.
Infatti, oltre a Romano, ben cinque suoi fratelli sono o sono stati docenti universitari. Tra questi, ricordiamo, in particolare, i più famosi:

  1. Giovanni, il primogenito, nato nel 1925 ed arruolato nelle milizie della Repubblica di Salò nel 1943, costituistosi nel 1944 e detenuto per cinque mesi a Coltano (Giampaolo Pansa – “Vincitori e vinti”). Laureatosi in matematica nel 1948, già nel 1956 era docente universitario e nel 1963 ottiene la prestigosa cattedra all’Università di Pisa, dove sarà a lungo professore di analisi;
  2. Giorgio, il terzo dei nove fratelli, nato nel 1928, medico, docente di Patologia Generale fin dal 1958 e pioniere dell’oncologia in Italia presso l’Univesrità di Bologna;
  3. Paolo, nato nel 1932, è uno storico, preside della Facoltà di Magistero bolognese dal 1969 al 1972  e rettore dell’Università di Trento dal 1972 al 1977. E’ tra i fondatori dell’Associazione di cultura e di politica “il Mulino”, controllante dal 1965 dell’omonima Società editrice il Mulino, sui cui testi si sono (con)formate due generazioni di laureati e tecnici italiani.

Dunque, Romano Prodi era già il fratello di tre noti ed autorevoli docenti universitari quando, nel 1961,  presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, conseguì  una laurea in Giurisprudenza – non in Economia come quella conseguita da Mario Monti nel 1965 presso l’Università Bocconi di Milano – presentando una tesi sul protezionismo nello sviluppo dell’industria italiana.
Due anni dopo, iniziò la sua carriera accademica come assistente presso Università di Bologna, dove due fratelli erano già affermati docenti, e, nel 1973, dodici anni dopo la laurea, Romano ottenne l’incarico per l’insegnamento di “Economia e politica industriale” presso l’Università di Trento, il cui rettore era all’epoca il fratello Paolo. L’anno dopo, arrivava a presiedere la casa editrice il Mulino, controllata dall’omonima associazione di cui lo stesso fratello Paolo era uno dei fondatori.

Nel 1965 – già inserito nel sistema universitario e già consigliere comunale a Reggio Emilia per la Democrazia Cristiana –  conobbe Flavia Franzoni, studentessa diciottenne, sua lontana cugina e figlia di un docente di chimica, anche lei impegnata nell’Azione Cattolica (ndr. un altro fratello di Romano Prodi, Vittorio, diventerà prima presidente dell’Azione Cattolica di Bologna, dal 1986 al 1992, e poi europarlamentare iscritto al gruppo gruppo Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa).
Nel 1969, l’omelia delle loro nozze fu officiata dall’attuale Cardinale Ruini ed anche lei diventerà docente universitaria presso la facoltà di Scienze politiche di Bologna –  dove «è soprannominata “google”, perché sa tutto» (Alessia Ercolini, Grazia) – e direttrice dell’Istituto regionale per i servizi sociali. Una donna “prima allieva, poi moglie e quindi mamma”, come la definiva il Corsera nel lontano 1995 (link).

Una tipica storia familiare, dunque, come tante altre delle provincie dell’Italia centrale, microcosmi di tradizione contadina, patriarcale, cattolica, ma anche attenti alle opportunità, proprio come nella tradizione lo fu Bertoldo. Un giurista che si occupava di politica economica, dunque, in un paese che predilige la volontà politica ed il giusto intendimento alla prova dei fatti ed alla legge dei numeri.

Prodi 1982 aLa carriera professionale di Romano Prodi ‘economista’, da quel lontano 1965 fino agli Anni ’80, non sembra aver lascitato particolari tracce (su internet) di pubblicazioni o consulenze, ma sappiamo che all’inizio degli Anni Settanta ottenne un primo incarico manageriale come presidente della Maserati e della società nautica Callegari e Ghigi, due imprese in difficoltà gestite dall’istituto finanziario pubblico GEPI allo scopo di risanarle.
Maserati si riprenderà solo con l’arrivo, nel 1975, dell’argentino Alejandro De Tomaso e grazie all’intervento della Benelli, mentre della Callegari e Ghigi, che nel momento più florido dava lavoro a circa 1500 dipendenti e famosa per i suoi gommoni, non v’è più traccia.

Per comprendere l’approccio socio-politico e metodologico dell’operazione, ricordiamo che la GEPI, Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali, era una finanziaria pubblica costituita nel 1971, con capitale posseduto per il 50 % dall’IMI e per l’altra metà suddiviso in parti uguali tra IRI, ENI ed EFIM. Pur avendo lo scopo di assumere il controllo delle aziende private in crisi per risanarle, ristrutturarle, rilanciarle, la GEPI nel linguaggio giornalistico e sindacale dell’epoca fu descritta come “lazzaretto“, “reparto di rianimazione“, “ambulatorio“, “rottamaio di aziende” (fonte Wikipedia).
Un bagno di sangue per le finanze pubbliche italiane, come scriveva Adriano Bonafede (Miliardi nel pozzo Gepi, La Repubblica, 8 gennaio 1988), raccontando che “a posteriori è possibile attribuire a GEPI un notevole ruolo nello sperpero di risorse pubbliche e nel ritardo infrastrutturale italiano, dato che  solamente per la Innocenti, nel decennio tra il 1976 e il 1986, erogò contributi per l’astronomica cifra di 185 miliardi di Lire.

D’altra parte parliamo dell’Italia che iniziava ad uscire dalla Guerra Fredda e si avviava verso il Consociativismo: il ‘metodo GEPI’, con i dovuti correttivi, piacque ad industriali, partiti e sindacati e Romano Prodi venne chiamato ad essere ministro dell’Industria dal novembre 1978 fino al marzo 1979, nel quarto Governo Andreotti, giusto in tempo per emanare un decreto legge che porta il suo nome (legge Prodi), finalizzato proprio al salvataggio delle grandi imprese in crisi.
L’anno successivo – sempre allo scopo di tamponare le crisi del sistema industriale centrosettenrionale invece che ristrutturare e ricollocare più a Sud dove l’industrializzazione era in crescita – alla GEPI fu affidato il compito di prendersi in carico i dipendenti in esubero di grandi imprese private (FIAT, Montedison, SNIA, SIR, Marzotto, eccetera), con il conseguente mantenimento in Cassa Integrazione di decine di operai e tecnici per molti anni (A. Bonafede, op. cit.). Intanto, si avviò lo spacchettamento delle industrie meridionali.

Gianfranco Viesti, politologo con laurea in economia all’Università Bocconi, in Abolire il Mezzogiorno, ricorda che “la ristrutturazione dell’industria a controllo pubblico inizia in ritardo, nel periodo della presidenza di Romano Prodi all’IRI e Franco Reviglio all’ENI“, sottolineando che “per alcuni il Mezzogiorno è una palla al piede. Per altri è un alibi. Per alcuni è un noioso rituale da inserire in agenda. per altri è la scorciatoia per arricchirsi illecitamente. Per tutti è una buona scusa per non affrontare realmente i problemi italiani.

industria meridione prodi svimez

Nel 1982, il governo Spadolini affidò a Romano Prodi la presidenza dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, creato da Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) all’epoca della Grande Crisi del 1929.
Un IRI che Prodi ridimensionò notevolemente e dove verrà successivamenre richiamato, nel 1993, per l’incarico del Presidente del Consiglio Azeglio Ciampi, allo scopo di completare un’enorme serie di privatizzazioni e dismissioni.

La ristrutturazione dell’IRI, attuata da Romano Prodi negli Anni ’80, portò alla cessione di 29 pregiate aziende del gruppo, tra le quali le più dolorose furono quella dell’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986, e la liquidazione di Finsider, Italsider ed Italstat, ovvero della siderurgia e della navalmeccanica italiane, con drammatici tagli occupazionali gestiti tramite generosi prepensionamenti, che ancora oggi gravano sul nostro PIL.

Utile ricordare che ciò avvenne azzerando le attività portuali ed industriali di una città come Napoli e provocando il crash del Banco di Napoli, con lo stop degli interventi straordinari nel Mezzogiorno e la canalizzazione su banche settentrionali dei fondi europei.
Non sappiamo quali furono le effettive responsabilità di Romano Prodi, forse nessuna, ma furono certamente suoi il metodo  e la visione con cui si gestirono salvataggi, ristrutturazioni e cessioni di una delle ricchezze primarie del nostro Paese.
Un metodo che non poteva lasciare perplessi, fosse solo perchè era nato per intervenire su realtà limitate ed mergenziali, mentre lo si voleva utilizzare a strumento per ristrutturare il sistema industriale ed infrastrutturale nazionale, senza affatto tenere conto della millenaria tradizione industriale, commerciale ed agroalimentare del Meridone.

Le ricchezze storico-artistiche, le bellezze naturali e ambientali concentrate nelle regioni del Mezzogiorno sono di prim’ordine. é su queste ricchezze che va fondata una nuova via per lo sviluppo. Pensando al da farsi ho anche indicato un nome alla nostra strategia: facciamo del Sud la “Florida d’Europa”… Al Sud ci sono tanti giovani pieni di capacità che devono essere finalizzate“, prometteva il presidente del Consiglio Romano Prodi alla Fiera del Levante di Bari il 14 settembre 1996.

La politica deflazionistica di Prodi e di Ciampi è stata la vera responsabile dell’affondamento del Mezzogiorno. Nel ’97 il governo ha dimezzato le erogazioni di cassa per le aree depresse del Mezzogiorno” e “Bagnoli da sei anni è bloccata al palo da un contenzioso tra Comune e Ansaldo Trasporti” (Panorama, Raccolta Edizioni 1677-1680 – 1998).

I dati pubblicati da Svimez per i 150 anni dell’Unità non lasciano dubbi: l’anno peggiore per l’industria meridionale fu il 1998, mentre la ripresa nel ventennio a seguire fu nei limiti congiunturali. Inoltre, abbiamo visto tutti come è andata con la crisi in Spagna, dove avevano investito nell’industria turistica.

svimez industrializzazione meridione

Per avere un’idea delle strategie e degli effetti della seconda tornata all’IRI di Romano Prodi, ‘a protezione dell’industria e dell’occupazione italiane’, ricordiamo almeno una parte di cosa accadde drammaticamente in quegli anni:

  1. Banca Commerciale Italiana, privatizzata nel 1994 ed oggi assorbita in Intesa Sanpaolo. Credito Italiano, privatizzata nel 1993, e Banco di Roma, confluito nella Banca di Roma nel 1992, ed tutti oggi parte di Unicredit;
  2. Finsider, privatizzata “a pezzi” (operazione conclusa nel 1995), di cui oggi restano ‘i problemi’: il raddoppio dell’inquinante stabilimento siderurgico di Taranto (ILVA – Gruppo Riva) e l’area industriale-portuale di Gioia Tauro, che già all’epoca si prevedevano essere investimenti improduttivi;
  3. SOFIN, acquisita dal ILVA – Gruppo Riva, era partecipante di Industrie Ottiche Riunite, Strade Ferrate Secondarie Meridionali, Sidalm, Forus SpA, Acciaierie e Ferriere di Piombino e Vertek;
  4. Finmeccanica e Fincantieri, che fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, divenuto direttamente proprietario di fabbriche d’armi e risorse energetiche;
  5. Italstat, settore costruzioni, anch’essa trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze e controllante di Gruppo Autostrade S.p.A. (privatizzata nel 1999), Italinpa, Aeroporti di Roma, Stretto di Messina, eccetera;
  6. STET, fusa nel 1997 con Telecom Italia e trasferite al Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre la prestigiosa controllata Selenia-Divisione Spazio con sede a Napoli veniva fusa con la Elsag e ridislocata, per poi essere del tutto assorbita, dal 1989, dalla controlalnte Finmeccanica;
  7. Cofiri e SPI (Società per la Promozione e Sviluppo Imprenditoriale), invece, furono inghiottite da Sviluppo Italia nel 2000, quando il Governo D’Alema fuse tutte le società di promozione in un’unica azienda per attrarre investimenti esteri per lo sviluppo industriale del sud Italia;
  8. Alitalia, la cui proprietà fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, arrivando a costare agli italiani almeno un miliardo di euro l’anno in debiti, nel 2008, mentre, pochi mesi fa, annunciava ancora 280 milioni di perdite;
  9. RAI, la proprietà fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, diventando a pieno titolo una televisione commerciale di Stato.

Aggiungiamo la storia di Finmare, ovvero Tirrenia che fu inglobata in Fintecna e trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che la ha privatizzata circa un anno fa. Proprio a partire dal 1993, la Tirrenia avviò una dispendiosissima politica di ammodernamento della flotta confluita nell’acquisto di quattro nuove navi superveloci, una vera manna dal cielo per la Fincantieri degli stabilimenti di Sestri Levante (GE). Costosi gioielli del mare che furono messi in disarmo dopo pochi anni a causa degli inconvenienti ed elevati consumi di carburante (circa 290 kg di gasolio al minuto), dieci volte superiori ad un traghetto tradizionale di simili capacità. La privatizzazione di Tirrenia è stata assemblata sullo stesso schema di quella di Alitalia e prevede la creazione di una bad company.

O quella di SME, privatizzata “a pezzi” negli anni ’90, con l’ex  Motta venduta alla Nestlé; GS (distribuzione) vendute alla famiglia Benetton ed a Leonardo Del Vecchio, il gruppo Cirio Bertolli De Rica (oli, latte e conserve) venduto alla Fisvi di Carlo Saverio Lamiranda, rivenduto a Unilever e poi passato sotto il controllo di Sergio Cragnotti, con relativi crac e noti scandali, Autogrill (ristorazione). Il tutto perdendo un’occasione unica per realizzare un grande gruppo alimentare italiano, in grado di competere con le multinazionali straniere e di difendersi dalle organizzazioni criminali.
All’epoca, ricordiamolo, ebbe origine l’eterno conflitto tra Prodi e Berlusconi, scatenato dalla tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, per la quale Romano Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso.

Prodi 1982Una vera e propria tragedia italiana, da togliere il sorriso per una vita, quella che coincise con il passaggio di Romano Prodi all’IRI o ne fu conseguenza o proseguimento.

Una vicenda che, ormai, è affidata alle statistiche ed agli storici di cui tanta Italia sembra essersi dimenticata e che l’intervento alla Camera dei Deputati di Emilia Calini Canavesi (PRC), del 1 luglio 1993,  ben delinea nel contesto dell’epoca: “abbiamo denunciato che la FIAT ha acquistato (si fa per dire, perché per sei anni non ha pagato una lira ed ho presentato un’interrogazione per sapere se sia stata pagata anche solo la prima rata, ma nessuno mi ha ancora fornito una risposta) o meglio, ha avuto in regalo l’Alfa Romeo dal Governo di allora, presieduto da Craxi, il cui braccio destro era allora l’onorevole Amato.
I ministri che hanno trattato questo regalo dell’Alfa Romeo alla FIAT, per citarne solo alcuni, erano Darida, De Lorenzo, Nicolazzi, De Michelis. Dunque, quanti hanno trattato quell’affare non godono certo oggi di una buona fama e reputazione. Questi sono coloro i quali hanno condotto la prima rilevante privatizzazione in Italia. … La percentuale di vendite di auto che ha toccato oggi la FIAT non è mai stata così bassa, neppure quando l’Alfa Romeo era di proprietà statale, dell’IRI.”
Noi posteri, oggi, ben sappiamo quale valore avesse quel Centro Ricerche Alfa, ormai volato via a Detroit.

Dopo una tale mattanza per il futuro industriale italiano e con un futuro inesistente per vasti territori del paese, Romano Prodi, il 31 maggio 1994,  rivendicando i bilanci ‘finalmente’ in attivo dell’IRI, formalizzò le proprie dimissioni al nuovo Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e l’11 agosto  annunciò di entrare in politica: «Adesso ho mente e animo liberi. Un impegno in politica diventa un dovere, vista la situazione».

Riuscì a raggiungere l’obiettivo, due anni dopo, quando venne nominato Presidente del Consiglio dei ministri dopo le elezioni politiche 1996, a capo di una coalizione guidata da quello che è oggi il Partito Democratico, ma molto eterogenea, che, soprattutto, si avvalse di un appoggio esterno da parte di Rifondazione Comunista, con cui aveva stretto un patto di desistenza elettorale (la mancata presentazione di proprie liste nella maggior parte dei collegi elettorali maggioritari), che costituisce, con gli occhi di oggi, una sottile forma di forzatura elettorale.

Prodi IRI 1994

Non pochi i risultati, nei due anni di vita che ebbe il Governo Prodi, tra cui il il tentativo di semplificazione amministrativa della P.A. e di deregulation delle scuole e delle facoltà universitarie, il mantenere l’Italia fuori dai conflitti in corso nella ex-Yugoslavia, i finanziamenti per i Beni Culturali. Romano Prodi, soprattutto, ebbe il merito a riportare il rapporto deficit/PIL entro i parametri del Trattato di Maastricht, ma a costo di un impopolare ed iniquo contributo straordinario, chiamato anche “eurotassa” o “tassa per l’Europa”, in parte restituita nel 1999 a furor di popolo.
Oggi possiamo aggiungere che si confidò, molto ottimisticamente, sull’ipotesi che l’entrata nell’euro avrebbe portato un considerevole risparmio di interessi sui titoli di Stato anche nel lungo periodo. Il tutto, senza tenere conto che una pressione fiscale di quel genere non poteva risanare un debito pubblico a due zeri e non poteva essere che una tantum.

Di nuovo, una questione di metodo.
Inoltre, l’Ulivo – la creatura politica che Romano Prodi aveva raccolto intorno a se –  promulgò, sotto D’Alema ed Amato, la pessima riforma del Titolo V della Costituzione e, soprattutto, l’odierno disastro Sanità in Italia: fu quella maggioranza ulivista, con tanto di Lega al seguito, che emanò le quattro leggi che affliggono contribuenti, casse pubbliche, fornitori e, soprattuto, malati: istituzione del Servizio Sanitario Regionale, ridestinazione dei centri psichiatrici, legge sulle malattie rare, recepimento dei parametri dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità inerenti lavoro, funzionalità e stato invalidante.

Sfiduciato dalla sua stessa maggioranza e lasciando il movimento appena fondato, nel marzo del 1999, Romano Prodi accetta la designazione dei governi europei  alla Presidenza della Commissione Europea, avviando quel processo che, in Germania, i malevoli chiamano ‘italianizzazione dell’Europa’.
Durante la sua presidenza vennero introdotte gran parte delle innovazioni su cui c’è oggi dibattito e divisione tra gli europei:

  1. 1º gennaio 2002, l’entrata in vigore dell’Euro come valuta corrente dell’Unione, di cui sono ben noti i pregi, i difetti e le polemiche incessanti;
  2. 1º maggio 2004 l’allargamento dell’Unione ad altri 10 paesi: Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, che si è rivelato disastroso per le economie spagnole ed italiane;
  3. il 29 ottobre 2004, la firma a Roma della Costituzione europea, un progetto definitivamente abbandonato nel 2009 a seguito dello stop alle ratifiche imposto dai no ai referendum in diversi paesi europei, tra cui Francia e Paesi Bassi.

Prodi EuroMissione compiuta anche in Europa, dato che sul momento sembrò a tanti un successone, Romano Prodi si candidava alle Primarie, con il Partito Democratico (attuale) che -caso unico nella Storia- non volle candidare un proprio iscritto di particolare fama. Inutile dire che Prodi vinse alla grande, con una marea di equivoci al seguito, visto che c’erano Di Pietro, Bertinotti e Mastella a far da coprotagonisti, mentre D’Alema eterno dominus del PD andava a dettare i tempi ed i modi.
Sull’onda dell’antiberlusconismo e di questi consensi ‘primari’ – apparentemente per la sua persona – Romano vinse anche le elezioni politiche 2006, ma con uno scarto inferiore ai 25.000 voti e solo grazie al Porcellum ottenne 340 seggi alla Camera dei deputati e 159 seggi al Senato della Repubblica.
Una maggioranza risicata e borderline che diede adito a numerosi reclami e ricorsi, respinti, ma, soprattutto, venne ritenuta un azzardo, sia per l’esigua maggioranza al Senato – corroborata dal voto spesso decisivo dei Senatori a vita, fino ad allora per prassi non incidenti sulla fiducia ai governi – sia per la deriva ‘di lotta e di governo’ che la cooptazione dell’estrema sinistra avrebbe imposto, mentre esattamene la metà degli italiani era di opinione del tutto opposta.

Fu un brutto inizio, dato che, nonostante gli italiani già mugugnassero abbondantemente sugli sprechi e sulle inerzie della Casta e nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, il governo Prodi II passò alla storia della Repubblica come quello più numeroso (102 tra ministri, viceministri e sottosegretari).

Fu allora che le tasse s’impennarono a livelli ancora più intollerabili, secondo la logica che ogni contribuente è un sospetto evasore. Ciò permise a Romano Prodi di archiviare l’early warning che pendeva sull’Italia dal 2005 per sfondamento del Patto di Stabilità Europeo e così accadde, che archiviata la sanzione e regalati all’Italia altri tre anni di tempo, mentre Comunisti e CGIL raccontavano di un ‘tesoretto’ di risorse pubbliche sommerse da spendere in welfare, passò del tutto inosservato il ‘problema’ che il Trattato di Maastricht prevedeva e prevede (saggiamente) che gli stati non abbiano – grosso modo – un debito pubblico eccedente il 60% del PIL ed un deficit superiore al 3%.
Servivano urgenti misure strutturali, ma lo stesso Romano Prodi riteneva, fin da quando era Presidente della Commissione, “il Patto inattuabile per la sua rigidità, sebbene ritenesse comunque necessario, sulla base del Trattato, cercare di continuare ad applicarlo” (Wikipedia).

Quel governo, come prevedibile, fu vessato, nella sua breve esistenza, da continue contrapposizioni intergovernative, manifestazioni sindacali e della sinistra estrema, tensioni con gli alleati NATO, interventi militari controversi, spese incrementali per lo Stato in nome di una presunta economia in crescita e di un fantomatico Tesoretto nelle casse pubbliche.
Tra l’altro, nonostante venga ricordato per l’avvio dato alla  moratoria universale della pena di morte, adottata in forma non vincolante dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, c’è da sottolineare che è sotto Romano Prodi che nacque l’Equitalia S.p.a. che conosciamo, per l’esattezza il 4 luglio 2006, quando Riscossione S.p.A. (poi ridenominatasi) fu autorizzata ad utilizzare i dati in possesso dell’Agenzia delle entrate, fino ad allora considerati riservati.

Caduto il governo per le insuperabili tensioni interne, il 9 marzo 2008, Romano Prodi annunciava di aver «chiuso con la politica italiana e forse con la politica in generale», ma, sei mesi dopo, il 12 settembre 2008, accettava di presiedere il Gruppo di lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa.
Nessun proglema riguardo al potenziale conflitto di interessi – specialmente in Nigeria o Libia, ricche di petrolio – per essere “stato chiamato nell’ ‘Advisory Board’ di British Petroleum per i temi di strategia internazionale e industriale”, almeno dal 2009, come confermato dallo stesso Prodi l’11 giugno 2010.

Nè sembrano aver creato imbarazzo i buoni rapporti pregressi con il sanguinario dittatore libico Gheddafi, come anche nè SEL nè Laura Boldrini, l’attuale Presidente della Camera, sembrano ricordare che Il Manifesto del 14 agosto 2004 titolava”Li fermeremo in Libia. Accordo con l’Italia per blindare frontiere e mari. Prodi si congratula con Gheddafi.

No, non appare un cattivo uomo, il professor Romano Prodi, forse solo un po’ troppo accomodante ed ambizioso, certamente notevolmente fortunato e, di conseguenza, fin troppo ottimista. Meno fortunate le sue soluzioni, come lo fu il suo famoso ‘si può fare’ in campagna elettorale, smentito meno di due anni dopo a stretto giro parlamentare.
Un uomo di buona volontà, avrebbe detto qualcuno quando si credeva ancora che ‘chi non sbaglia, non fa’, dmenticando che ‘di buone intenzioni, son lastricate le vie per l’inferno’.

Il suo passaggio all’IRI – ed i ‘risultati’ che oggi, a ragion veduta, possiamo annoverare tra i pochi cocci rimasti – dovrebbero escludere ‘di per se’ la possibilità che Romano Prodi possa diventare il presidente degli italiani; allo stesso modo, per la sua ostinazione nell’arrivare a tappe forzate alla moneta unica europea con i controversi problemi in cui ci troviamo o, peggio, per la sanguinosa questione di Equitalia (ex Riscossione Spa).
Un’ampia parte di noi cittadini potrebbe non sentirsi rappresentata o rassicurata.

Dunque, perchè ostinarsi a candidarlo, se poi dal PdL arriva un “Prodi al Colle? Tutti all’estero” e lui stesso annuncia: “Nessuna mia candidatura al Quirinale, io sto semplicemente a guardare”, ribadendo da Lucca ai giornalisti “io sono fuori”?
Ma, soprattutto, perchè dovrebbero votarlo il Movimento Cinque Stelle ed i Renziani, che promettono di volere il cambiamento da quel ‘metodo’ e da quell’Italia consociativa che fu?

Post Scriptum: Fu sotto la presidenza del Consiglio di Romano Prodi che si svolsero e furono secretate le audizioni del pentito Carmine Schiavone inerenti il traffico di rifiuti tossici e il disastro ambientale in Campania.

Demata

Spesa pubblica: due conti in croce

29 Giu

I dati forniti da SIOPE e diffusi mesi fa dall’Unione Province Italiane (link) descrivono la distribuzione della Spesa Pubblica italiana e forniscono – nell’estremo tentativo di salvare gli enti politici provinciali – un quadro alquanto desolante, per quanto relativo alla situazione generale, e fin troppo deludente per quanto inerente l’azione di governo esercitata da Mario Monti ed i suoi prescelti.

Infatti, mettendo in tabella i dati SIOPE-UPI sul 2011 insieme ai dati forniti dal Ministero dell’Interno e dal MIUR – riguardo le proprie spese (2010) – e dalle Regioni e Province – relativamente al numero dei consiglieri – ecco cosa ne viene fuori.

Dati che vanno letti considerando che un consigliere comunale del Comune di Sassari ci costa solo 13.338 Euro all’anno, trasferte e rimborsi inclusi. (leggi anche sui CdA, Lo scandalo degli Enti Strumentali)

Se questo è il costo dei cosiddetti ‘apparati’, ovvero dei consiglieri-parlamentari e dei rispettivi gruppi consiliari, non è che con la sommatoria – incompleta- della spesa pubblica si vada meglio.

Fatti salvi circa 11 miliardi di Euro spesi per il Ministero dell’Interno e palesemente insufficienti, non è chiaro per quali motivi l’Italia abbia una spesa per l’Amministrazione Centrale di quasi 200 miliardi a fronte di una spesa complessiva delle Amministrazioni locali di ‘soli’ 135 miliardi, in cui rientrano strade, porti, reti locali, ambiente eccetera.

Quanto ai due soli servizi (istruzione e sanità) dove Stato e Regioni hanno competenze condivise, i dati raccontano che per la scuola si spende troppo poco, mentre per la salute si spenda troppo e male.

Male non solo per i servizi scarsi o inutili che arrivano ai cittadini, ma soprattutto perchè, se le Regioni spendono tre volte tanto per ASL e ospedali di quanto spendano per tutto il resto, è presto spiegato il disastro italiano.

Infatti, con una sproporzione tale – in termini di volume finanziario e di bisogni dei cittadini da soddisfare – non è improbabile che non pochi consigli regionali siano ‘dominati’ da lobbies afferenti al settore sanitario, come non pochi scandali dimostrano, dalla Regione Puglia agli ospedali cattolici romani o milanesi.

D’altra parte, 116 miliardi di spesa sanitaria annui sono una cifra enorme che richiederebbe ben altro che una spending review, in questi tempi di crisi. Infatti, non saranno i 246.691 infermieri (10 mld di spesa annua?), i 46.510 medici di base ed 7.649 pediatri (altri 5-6 miliardi) coloro che inabissano la spesa del Servizio Sanitario Nazionale.

Dei restanti 100 miliardi va cercata e chiesta ragione ai medici ospedalieri ed ai consigli di amministrazione delle ASL, non ad altri.

Sarebbe interessante sapere anche perchè quei 300 miliardi di previdenza siano congelati nelle casse dello Stato, anzichè diventare denaro circolante, con un sistema di previdenza privata sotto controllo pubblico come in Germania.

Come anche, ritornando alle ‘spese dell’Amministrazione Centrale’ per 182 sonanti miliardi di euro, sarebbe bello sapere in cosa consistano, visto che i beni monumentali languono e le infrastrutture attendono.

Sarebbe importante sapere, anche e soprattutto nell’interesse di Roma Capitale, quanta parte di questi miliardi siano andati a costituire lo strabiliante PIL che per anni fu vanto di Walter Veltroni e delle sue giunte e di cui, da che c’è crisi, non sembra esserci più l’ombra. Ma questa è un’altra storia.

Leggi anche Tutti i numeri delle Province

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Eurozona? I soliti tedeschi …

11 Giu

Alla fine del 1943, i territori europei controllati dalla Germania del III Reich erano, nella sostanza, quelli dove era solido il senso di appartenenza alla ideologia nazionale germanica. Altrove, lo sfondamento degli Alleati e l’appoggio massivo della popolazione impediva ai soldati della Wermacht una resistenza adeguata.

Questa è la cartina che indica, grosso modo, i territori rimasti in mano alla Germania dopo l’Armistizio italiano e la Liberazione di Parigi.

La cartina di seguito, invece, descrive l’Eurozona ed, in particolare, quella rigidamente germanocentrica che Angela Merkel, Mario Monti e Corrado Passera difendono a spada tratta.

Incedibile, vero?

E possiamo notare come poco sia combiato dal 962 dopo Cristo, quando Ottone I cinse il capo con la corona imperiale.

.

Dunque, stando alla geografia politica ed economica, siamo alle solite, come da mille anni a questa parte, con i  Guelfi ed i Ghibellini ad investire in fabbriche e commerci, per loro avidità, ma sempre pronti a batter cassa ‘a Sud’ se i conti, poi, non tornano.

E, sempre come al solito, – come accade quando c’è qualcuno che impone regole in nome del ‘buon esempio’ ma guardando al protafogli  – anche questo  (quarto) ‘tentativo’  di un’Europa germanocentrica ci riporta ad un continente con tre anime e tre stili: uno sassone-normanno, uno celto-latino ed uno germanico-polacco.

Tra meno di dodici mesi voteremo per il Parlamento Europeo – una babele di migliaia di deputati – ma il governo d’Europa, mancando una Costituzione, resterà altrove.

E questo non è bene.
Come non vanno (più) bene – in Italia come altrove – le isterie sullo spread e le minacce di default, il campo libero agli speculatori ed il moloch ‘svalutazione’, gli aiuti agli Stati in difficiltà ed i tabù sul welfare, gli aiuti alle banche, ma non ad imprese e cittadini, e l’enorme spesa per le amministrazioni pubbliche.

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Programma di governo: una montagna di chiacchiere?

14 Mar

Il programma di governo, annunciato da Mario Monti mesi fa e sostenuto da PdL, PD, FLi e UDC, si propone di “riconciliare cittadini ed istituzioni“, non considera i “vincoli europei come imposizioni“,  vuole “rendere meno ingessata l’economia“, riconosce “l’esistenza di una questione meridionale“, “garantirà la natura strutturale della riduzione delle spese dei Ministeri” e “conterrà i costi di funzionamento degli organi elettivi“, che annuncia un “piano di dismissioni e di valorizzazione del patrimonio pubblico“, auspica “merito individuale” per i giovani e “piena inclusione” per le donne, “riduzione del peso delle imposte e dei contributi“, “aumento del coinvolgimento dei capitali privati nella realizzazione di infrastrutture“.

Secondo il discorso pronunciato al Senato, a novembre scorso, Il mercato del lavoro è da riformarsi “con il consenso delle parti sociali” e l’età di pensionamento, già a novembre scorso, “superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi“, con un “sistema pensionistico caratterizzato da ampie disparità di trattamento tra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio“.

Avete visto voi?

Quelli che seguono sono degli stralci dal discorso di insediamento di Mario Monti al Senato (link testo integrale). Parole pronunciate solo qualche mese fa, promesse che costituirebbero il corrente programma di governo.

“Spero che il mio Governo ed io potremo, nel periodo che ci è messo a disposizione, contribuire in modo rispettoso e con umiltà a riconciliare maggiormente i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica.
Il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di Governo, lo snodo decisivo per il rilancio e il riscatto della vita democratica. Al Parlamento vanno riconosciute e rafforzate attraverso l’azione quotidiana di ciascuno di noi dignità, credibilità e autorevolezza.

Non vediamo i vincoli europei come imposizioni.
Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio, sulla discesa del rapporto tra debito e PIL. Ma non saremo credibili, neppure nel perseguimento e nel mantenimento di questi obiettivi, se non ricominceremo a crescere.
… provvedimenti rivolti a rendere meno ingessata l’economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita, migliorare l’efficienza dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese.

Maggiore sarà l’equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l’effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società.

Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità. I problemi nel Mezzogiorno vanno affrontati non nella logica del chiedere di più, ma di una razionale modulazione delle risorse.
Ciascun Ministro esporrà alle Commissioni parlamentari competenti le politiche attraverso le quali, nei singoli settori, queste azioni verranno avviate.

Nell’immediato daremo piena attuazione alle manovre varate nel corso dell’estate, completandole attraverso interventi in linea con la lettera di intenti inviata alle autorità europee.
Verrà definito un calendario puntuale per i successivi passi del piano di dismissioni e di valorizzazione del patrimonio pubblico.

Assicurare la piena inclusione delle donne in ogni ambito della vita lavorativa ma anche sociale e civile del Paese è una questione indifferibile.
Dobbiamo porci l’obiettivo di eliminare tutti quei vincoli che oggi impediscono ai giovani di strutturare le proprie potenzialità in base al merito individuale indipendentemente dalla situazione sociale di partenza.
L’Italia ha bisogno di investire sui suoi talenti. Per questo la mobilità è la nostra migliore alleata, mobilità sociale ma anche geografica, non solo all’interno del nostro Paese ma anche e soprattutto nel più ampio orizzonte del mercato del lavoro europeo e globale.

Per garantire la natura strutturale della riduzione delle spese dei Ministeri, decisa con la legge di stabilità, andrà definito rapidamente il programma per la riorganizzazione della spesa, previsto dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
Di fronte ai sacrifici che sono stati e che dovranno essere richiesti ai cittadini sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi. I soggetti che ricoprono cariche elettive, i dirigenti designati politicamente nelle società di diritto privato, finanziate con risorse pubbliche, più in generale quanti rappresentano le istituzioni ad ogni livello politico ed amministrativo, dovranno agire con sobrietà ed attenzione al contenimento dei costi, dando un segnale concreto ed immediato. Per quanto di mia diretta competenza, avvierò immediatamente una spending review del Fondo unico della Presidenza del Consiglio.

Coerentemente con il disegno della delega fiscale e della clausola di salvaguardia che la accompagna, una riduzione del peso delle imposte e dei contributi che gravano sul lavoro e sull’attività produttiva, finanziata da un aumento del prelievo sui consumi e sulla proprietà, sosterrebbe la crescita senza incidere sul bilancio pubblico. Dal lato della spesa, un impulso all’attività economica potrà derivare da un aumento del coinvolgimento dei capitali privati nella realizzazione di infrastrutture.

Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione.

Già adesso l’età di pensionamento, nel caso di vecchiaia, tenendo conto delle cosiddette finestre, è superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi. Il nostro sistema pensionistico rimane però caratterizzato da ampie disparità di trattamento tra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio.”

Nota bene, il programma che non fa menzione di RAI e giustizia.

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Trattativa Lavoro spiegata con semplicità

13 Mar

A quanto pare, il ministro Fornero avrebbe precisato che i soldi per gli ammortizzatori, due miliardi, “potrebbero essere dai risparmi sulle pensioni, o meglio che “non saranno presi dal fondo sociale”.

Risparmi sulle pensioni? Ma non erano indispensabili ed inderogabili per salvare l’Eurozona?

Ed infatti, Elsa Fornero avrebbe precisato che “non sono in grado di dirvi dove saranno trovate le risorse, il governo è impegnato a ricercarle, ma non saranno sottratte “ai capitoli del welfare: il governo si impegna a trovare le risorse al di fuori dei capitoli di spesa sociale”.

Ammortizzatori sociali che non vertono sulla spesa sociale e sul welfare? Ed a cosa andrebbe destinato, allora, il Fondo Sociale Europeo se non, innanzitutto, ai disoccupati ed ai poveri?

“Indennità di disoccupazione a 1.119 euro”, questo l’ultimo annuncio attribuito al ministro del Welfare, che avrebbe anche promesso che “la cassa integrazione straordinaria resterà e non scompare. Sarà eliminata solo la causale per cessazione attività.” (La Repubblica)

Tutto ed il contrario di tutto, con l’aggiunta dell’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed il proseguimento dell’esclusione dai sussidi di giovani e casalinghe.

Non è un caso che si parli “passo indietro” (Camusso) , “ecatombe sociale” (Bonanni), “il ministro non abbia fretta” (Marcegaglia), l’articolo 18 è “una norma antidiscriminazione” (Bersani).

E, mentre LA7 con il suo TG “tira la volata al ministro”, annunciando un’accelerazione che esiste solo nelle intenzioni di Elsa Fornero, accade che solo il Corriere della Sera (link) dia una spiegazione abbastanza chiara di quante e di quali riforme si stia parlando.

Riordino dei contratti: meno tipologie, incremento d’aliquota per i contratti a termine (+1,4%), stabilizzazione dell’apprendistato ( se entro il 25 aprile le Regioni  vareranno le leggi di loro competenza).

Ammortizzatori sociali su due livelli: cassa integrazione ordinaria pagata dalle aziende e dai lavoratori secondo gli schemi attuali, assegno di disoccupazione solo per chiusure o ristrutturazioni aziendali, condizionato da verifiche come in Gran Bretagna.

Assicurazione sociale: consiste nella creazione di un istituto (simile all’ Inail) per la disoccupazione universale per tutti i lavoratori dipendenti privati e ai lavoratori pubblici con contratto a tempo determinato a partire dal 2015.  L’importo massimo del sussidio sarà circa di 1.119 euro mensili iniziali per un massimo di 18 mesi.

Licenziamenti: Elsa Fornero, dopo l’innalzamento dell’età pensionabile, chiede che i lavoratori rinuncino all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per tutti i licenziamenti non discriminatori. In tutti gli altri casi, il governo offfre un indennizzo economico non superiore a 18 mesi di retribuzione, ovvero meno di 20.000 Euro se parliamo di un lavoratore non specializzato, La Cisl propone, invece, di escludere dall’articolo 18 solo i licenziamenti per motivi economici (come per i licenziamenti collettivi). La CGIL di Camusso (c’è anche quella di Landini ormai) si oppone all’abrogazione, ma è favorevole alla semplificazione dei giudizi ed all’introduzione e rafforzamento dell’istituto dell’arbitrato.

Ovviamente, nessuno sa quanto costerà tutto questo, visto che la disoccupazione è in aumento e che le riforme potrebbero far emergerne molta altra, tra contratti a termine e lavoro nero.

Preso atto che Bersani si appella all’ONU od alla Croce Rossa, con il suo “una norma antidiscriminazione”, mentre arriva Gasparri alla carica ricordandoci arcani debiti ed astrusi impegni europei, non possiamo non notare che Mario Monti insiste con Alfano per “parlare di RAI” …  e, visto che la “vicenda lavoro” è  – più o meno come avete letto – “semplice semplice”, ditemi voi se non sarebbe primo dovere della televisione pubblica informarci sulle diverse proposte e sul significato dei diversi interventi.

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Un PD senza uscita

8 Mar

Il Partito Democratico da molto tempo mostra di non essersi emancipato dal proprio passato “primo repubblicano”, anzi, di averne fatto la propria quintessenza.

Non è un mistero per nessuno la pregressa militanza democristiana, socialista, comunista che annovera la maggior parte dei suoi quadri politici in Parlamento, nelle Regioni, nelle Provincie e nei grandi Comuni.

Un partito nato vecchio, che, finora, ha potuto andare al governo – nazionale ma lo stesso vale per quelli locali – per ben due volte solo grazie all’alleanza, se non all’abbinamento, con l’estrema sinistra, che in Italia è sia rigidamente poststalinista sia libertariamente postmoderna.
Un intellighentzia partitica che – basta andare ad un convegno per saperlo – è convinta d risolvere “tutto” con tecnologie e servizi, che hanno un costo e non generano un granchè di PIL.
Una base elettorale molto “retrò”, che “ragiona con la pancia”, come per 20 anni di antiberlusconismo fine a se stesso o come per “l’opposizione dei comici RAI”, da Guzzanti e Crozza, oppure come per la “mano libera” di cui gode qualunque manifestante sventoli una bandiera rossa.

Di questo passo, il futuro è già scritto ed, a quanto pare, il più realistico sembra essere Walter Veltroni che agogna un’ammucchiata (tradotta Grosse Koalition in tedesco) con i “centristi in sella”.

Molto lontano dalla realtà delle cose, viceversa, appare Pierluigi Bersani, che da un lato s’affida ad un Patto di Vasto, che cancella i suoi candidati alle Primarie ed inficia future alleanze “centriste”, dall’altra scalpita a sostegno di Monti e del salvataggio delle lobby finanziarie del Centroitalia.

Il risutato è, tra l’altro, l’inoperatività del governo Monti, impedito a riformare, ovvero liberalizzare, il sistema contributivo, assicurativo e cooperativo, che rappresentano alcuni dei principali ed “eterni” fattori di “stallo” dell’economia italiana, assieme alla superfetazione delle autonomi locali ed alla lentezza ed imprevedibilità della giustizia.

Allo stesso modo, non stiamo rilanciando il sistema di trasporto su rotaia e quello aereoportuale, riducendo progressivamente quello su gomma, mentre la benzina vola verso i 2 euro al litro, vuoi per la “priorità metalmeccanica” (leggi occupazione industriale al nord), vuoi per gli enormi interessi del Gruppo Marcegaglia (leggi guardrail), vuoi per mantenere la “centralità logistica” bolognese.
Per non parlare della patrimoniale, necessaria per fare cassa e, soprattutto, immettere sul mercato meno titoli e ad interessi più bassi, ovvero rassicurando l’Eurozona e rafforzando il sistema-Italia, ma anche “non impellente”, mentre Unicredit, in cui confluì Unipol, andava a salvarsi acquistando titoli con rendite elevate.

Un Partito Democratico abbinato a troppi processi ed inchieste, partendo dallo scandalo rifiuti che coinvolse Bassolino, al caso Lusi, che coinvolge anche il PD, od al caso Penati, tutto da giudicare, fino ai troppi indagati per mafia o corruzione al Sud o, peggio, al “disastro agroalimentare” italiano, che vede trusts al centronord e mafia, desviluppo e sfruttamento al sud.
Per non parlare, più in generale, del sistema consortile o dello spoil system o delle esternalizzazioni, come denuncia indirettamente anche Saviano, chiedendo una legge anticorruzione anche “tra privati”.

Cosa fare?

Dividere le strade di chi s’abbarbica al vecchio e chi ricerca il nuovo sembra essere una scelta inevitabile, anche se dovesse provocare un’implosione: la sommatoria dei voti raccolti dalle varie componenti derivanti (partiti tra loro alleati e non) sarebbe comunque maggiore di quanti raccoglierebbe il partito oggi e, peggio, tra un anno, andando di questo passo.
Una scelta che, prevedibilmente, andrebbe a scompaginare anche la saldezza del PdL, specie se parliamo di giunte locali, e permetterebbe di evitare l’abbraccio “fatale” con SEL o spezzoni dell’IDV (che non sembra essere in grande armonia interna).

Una scelta che potrebbe comportare buoni risultati, forse sul medio periodo, se il PD “finalmente” si decidesse ad aprire le proprie liste a molti, tanti, troppi potenziali candidati e “seconde file” che la “società civile”, le imprese e le professioni hanno già apprezzato per il saper fare governance e welfare.
Un “popolo” di sinistra o comunque affine, fatto di persone con elevate professionalità e ligie a leggi e regolamenti, che, però, “esistono” solo per il giorno delle elezioni.

Probabilmente, il problema non è (mai) stato il “dover dire qualcosa di sinistra”, bensì il “dover dire” sia qualcosa di rapidamente realizzabile, ovvero “non troppo ambizioso”, sia qualcos’altro (leggasi “riforme”) che abbia lungimiranza ed una chiara visione dello Stato che si va ad innovare.

Ad ogni modo, con Monti al governo, il PD sta vedendo crollare il proprio consenso e, per una parte dell’elettorato, la cosa potrebbe essere irreversibile, visto cosa è passato per le pensioni od il montante dissenso del comparto “università e scuola”.

Altrettanto sicuramente, nessun Partito Demcoratico – nè presente nè futuro – può permettersi il rischio di andare al voto tra un anno, per “giocarsi” in pochi mesi politiche, amministrative, europee e presidenziali: non sono tempi di “big slam”, di “asso pigliatutto”, come profetizzavano “certi” sondaggisti pochi mesi  or sono.

E, magari, si potrebbe incominciare accantonando la “bozza Violante” e puntare su una legge elettorale “più lungimirante”, ovvero che consenta di individuare un partito “di governo” ed una maggioranza che aderisca sul programma, con il premier indicato dal Presidente della Repubblica, qualche percentuale di sbarramento ed un paio di commi “anti inciucio”.

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Monti verso il capolinea?

8 Mar

Tra le diverse cose che questo blog afferma fin dai primi giorni di governo di Mario Monti c’è anche quella che, passata la buriana dei titoli di Stato e “sistemata” Unicredit, sarebbe venuto meno il “collante” che tiene insieme l’ammucchiata PdL-PD-UDC-FLi.

Ed, infatti, nel giro di pochi giorni, come entrati nel mese di marzo, accade che il PdL rifiuti di inserire nel “programma di governo” RAI e giustizia, mentre 46 sui senatori – praticamente un terzo con Nitto Palma come primo firmatario, insieme a Bruno Alicata e Luigi Compagna – chiedono formalmente la revoca dell’incarico al ministro della cooperazione Ricciardi, per una frase fortemente offensiva verso i politici “di mestiere”.

Intanto,  il Partito Democratico, dopo il disastro delle primarie di Genova, conferma la propria recessività a Palermo, dove “la sinistra” sceglie il candidato Fabrizio Ferrandelli, un ex del Partito Umanista molto sostenuto dall’emergente Partito del Sud (link)

Ciliegina sulla torta, tutti i sondaggi ci confermano che un Mario Monti a capo di una Grosse Koalition (si traduce letteralmente “ammucchiata”) incontrerebbe, nonostante il supporto di tutti i “grandi” partiti, una forte resistenza popolare, forse ben oltre il 50% dei consensi.

Come anche, molti ministri dell’attuale governo – a partire da Corrado Passera che annunciava poche settimane fa “un decreto la mese” – si stanno rendendo conto che il loro è un “governo tecnico” e che già è un miracolo che nessuno stia ancora raccogliendo le firme referendarie per abrogare l’allungamento dell’età pensionabile preteso da Elsa Fornero.

Per non parlare dei nomi eccellenti ed eccellentissimi che gli scandali Penati, Finmeccanica, Lusi e Boni porteranno in luce a breve, si spera prima di andare a votare. O, pejus, dell’elettorato leghista che, sull’onda degli scandali, potrebbe imboccare qualunque deriva alla stessa stregua di quanto avviene in Val di Susa.

Una situazione, dunque, dove l’unica variabile è il giorno in cui tanti illustri personaggi vorranno “ritirarsi in buon ordine” sia per limiti geriatrici sia, soprattutto, per i limiti strutturali del paese che “non ce la fa più” e che ha bisogno di chiudere una volta e per tutte l’esperienza della Prima Repubblica, ancora ben rappresentata e dominante come dimostra l’aggregato politico (DC-PSI-PCI-AN) che sostiene Mario Monti.

All’Italia serviva un governo tecnico che avesse l’umiltà di traghettare e che non pretendesse l’esautorazione della Politica. Questo non è accaduto e difficilmente Mario Monti riuscirà ad andare oltre l’aver evitato una patrimoniale grazie al massacro delle pensioni, indecorosamente avallato dai leader sindacali, la “persecuzione dei tassisti” o l’acquisto di tot cacciabombardieri F-35 e qualche prebenda per i “settori amici”. Basti vedere in che stato di follia sono i conti del MIUR, se da diversi giorni si promettono 10.000 assunzioni e poi si va ritrattare.

Giorni fa, scrivevo che è di nuovo “l’ora del Presidente”, Giorgio Napolitano: questo governo non sta dimostrando nè una caratura politica adeguata alla situazione corrente nè un’assenza di conflitti di interessi che gli permetta di “avere le mani libere” nè un Parlamento che possa dire di essere rappresentativo dell’elettorato, visto che da anni ed anni è sostanzialmente chiamato va votare “si o no”.

Un governo che “non ha bisogno di chiedersi” che idea si sta facendo della situazione quel  20% di elettori, che sente elogi sperticati al governo, ma continua a non arrivare a fine mese: un politico, anche di infimo livello, un problema così lo terrebbe bene in chiaro, vuoi per opportunismo vuoi per senso di umanità vuoi perchè è la sua mission.

Sarebbe il caso che Mario Monti ed i suoi ministri iniziassero a prendere atto – fosse solo per “deontologia magistrale” e per amore del numero e della oggettività scientifica – che da novembre ad oggi son passati 4 mesi … e l’acqua è davvero poca.

Facciamo presto, signor Presidente, che l’ultima iattura che ci meritiamo, noi italiani, è di andare a votare in autunno, con milioni di disoccupati, il Sud rovente, le valli alpine stradeluse e due riforme due, tanto “british” ma sostanzialmente di facciata se non “pro domo di qualcuno”.

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IPR Marketing: la Prima Repubblica è con Monti?

6 Mar

Il sondaggio IPR Marketing per La7 (link) è molto lusinghiero verso Mario Monti: presentandosi come Premier di una Grande Coalizione avrebbe il 50% degli italiani dalla sua parte e, se fondasse un proprio partito, il 32% degli elettori andrebbe con lui.

Un consenso che include pressochè per intero il PdL, l’UDC ed il PD (salvo qualche “frangia”), ovvero i tre partiti ancora composti in larga parte dai politici della Prima Repubblica.

Veltroni, D’Alema, Alfano, Casini, Cicchitto, La Russa, Franceschini, Marini, Violante e chi più ne ha più ne metta.

Popolo bue? Probabilmente, ma … a legger bene il sondaggio fino in fondo scopriamo che dichiara su 1000 contatti addirittura 982 risposte, mentre di solito ne sono 250 ogni mille …

Un record planetario: improvvisamente tutti i primi 1000 “sondati erano lì pronti a rispondere alla telefonata senza aver alcuna incombenza da compiere e tutto il desiderio di partecipare.

Due righe sotto, IPR marketing precisa che “i dati sono stati ponderati rispetto ai parametri di costruzione del campione stesso” … Inutile aggiungere altro, no?

Scopriamo, dunque, che è scomparsa la grande quota di astenuti/indecisi (oltre il 40%) di pochi giorni fa e, soprattutto, che Mario Monti è il candidato ideale per i salotti ed il popolino di un certa Italia, una volta detta “democristiana”, “socialista”, “cattocomunista”.

La cosa non stupisce. Specialmente dopo il floppante governicchio attuale, non è affatto soprendente. Cambiar tutto purchè nulla cambi.

In tutto ciò, con il 50% dei sondaggi non si vincono le elezioni, specialmente se la legge non è ancora scritta, la campagna elettorale non si è avviata, e soprattutto se, arrivando le elezioni tra un anno con il Sud esausto, dovesse accadere che il Partito del Sud, dimostrando una capacità propositiva su questioni di interesse nazionale, riuscisse nello sfondamento del Quorum.

Infatti, di questo passo, con Monti “Premier uber Alles”, Berlino come Roma, continuerà a non arrivare niente di nuovo dal Sud,  … come “non arrivò niente di nuovo dal Fronte Orientale” un secolo fa all’incirca … speriamo solo che il “niente di nuovo” arrivi dal lato “onesto” e non da quello “mafioso” … ci manca solo di fare la fine del Messico.

Tanto basta continuare a farsi del male, o no?

A propostito, Groesse Koaition non significa “grande” coalizione, bensì “coalizione di massa”, e la CDU, il partito di Ang(h)ela Merkel, è l’ultimo, solido baluardo dell’apparato democristiano andatosi a creare con la Guerra Fredda, come i Socialisti ed il PD sono le ultime “ridotte” della Socialdemocrazia.

I dati, dunque, tornano, ma al negativo, dato che non può esser certamente questa la compagine – qualcuno direbbe neoguelfa – ad avere le capacità morali e personali necessarie per difendere e rilanciare un’Europa ed un’Italia sempre più esposte, come le vicende dei fucilieri di marina in India dimostrano.

E resta sempre da capire come si orienteranno, forse e comunque all’ultimo momento, gli astenuti/indecisi che nessuno, come “ovvio”, osa lontanamente sondare …

originale postato su demata