La Germania – dopo le ‘difficoltà’ con Mosca – ha accelerato sulla via dell’autonomia energetica con fonti rinnovabili, contando di coprire l’intero fabbisogno industriale e – forse – residenziale tra pochi anni. Quanto all’autotrazione, l’anno scorso è stato scoperto che la zona della valle dell’Alto Reno è abbastanza ricca di litio da poter supportare la produzione di batterie per oltre 400 milioni di veicoli elettrici. Già nell’attuale il Climate Change sta permettendo di trasferire merci dall’Oriente all’Europa tramite la Rotta Artica anzichè tramite Suez e il Mediterraneo.
L’obiettivo malcelato? Rendere la Germania e la MittelEuropa del tutto autonome dal punto di vista energetico sia per i consumi residenziali sia per quelli industriali. Come? Gestendo il Cambiamento ambientale in termini di mercato e consumi, come attuando la Trasformazione Digitale nell’ambito tecnico e diffondendola tra la popolazione.
Infatti, il Cancelliere tedesco Scholz è a Pechino, dopo aver approvato lo scorso 26 ottobre la cessione di una partecipazione del 24,9% di Hhla, società che controlla tre terminali del porto di Amburgo, al colosso navale cinese Cosco, nonostante una forte opposizione anche nel consiglio dei ministri.
Una scelta dei Socialdemocratici e dei Demoliberali che ha visto l’opposizione non solo della Cdu, ma anche dei Grunen al governo, che – come ha dichiarato il ministro degli Esteri Annalena Baerbock: “hanno invitato a non ripetere gli errori fatti in passato con la Russia, dal momento che una possibile escalation di tensione su Taiwan potrebbe mettere di nuovo Berlino di fronte a scelte molto difficili”.
Ma è pur vero che le ‘scelte molto difficili’ toccherebbero a tanti, se solo in Europa Cosco ha già in uso il porto del Pireo (Grecia), la gestione nel trasporto dei container per i porti spagnoli di Bilbao e di Valencia come di Zeebrugge (in Belgio) come controlla il 40% del porto di Vado Ligure , terminale nel trasporto di container.
Infatti, i Grünen al governo della città-Stato di Amburgo e l’attuale sindaco Peter Tschentscher, (socialdemocratico come Scholz) si sono espressi a favore dell’accordo con la Cina: “Ciò che è sensato dal punto di vista imprenditoriale deve anche essere possibile e realizzato nella pratica”.
In termini di impresa (e occupazione) c’è da sapere che il 70% delle importazioni cinesi dalla Germania appartengono a quattro macro-settori: Automotive, Meccanica strumentale, Elettrotecnica e elettronica e Farmaceutica. Un export made in Germany da 95 milioni di euro, grazie alla forte differenziazione dei prodotti tedeschi, cioè rivolti sia alla crescente industrializzazione del mercato cinese (sviluppo) sia all’emergere di una nuova classe media (domanda).
E se una escalation a Taiwan dovesse mettere Berlino di fronte a scelte molto difficili con Pechino?
Si vedrà … intanto la Germania punta a rendersi del tutto autosufficiente prima possibile.
Ben altro che governicchi di una nazione ricchissima ma all’inedia, che sanno solo sottoscrivere debiti per spostare un sussidio da destra a sinistra o viceversa pur di accontentare i clientes nullafacenti, come in Brasile ad esempio.
Venendo all’Italia, che non è il Brasile, l’imprenditoria subalpina manifatturiera che rifornisce direttamente l’industria tedesca sarà certamente avvantaggiata e la domanda da porsi è: cosa accadrà alla demografia delle regioni a nord del Po e cosa all’economia del resto dell’Italia, specialmente se le merci cinesi per arrivare in Germania passano dal Mare Artico e non da Suez?
Si è conclusa stanotte (ore italiana) l’Assemblea Generale dell’ONU, convocata con urgenza a tutela dell’integrità territoriale dell’Ucraina, dopo l’annessione del Donbass e dopo il veto russo nel consiglio di sicurezza.
La risoluzione ONU condanna i “cosiddetti” referendum russi e l’annessione di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia, e afferma che la pretesa di Mosca non ha validità nel diritto internazionale e costituisce la base per alterare lo status di “queste regioni dell’Ucraina”. La nuova risoluzione – soprattutto – invita la Russia a ritirare “immediatamente, completamente e incondizionatamente” tutte le sue forze dal territorio ucraino.
La risoluzione era stata presentata all’Assemblea Generale dell’ONU (UNGA) dopo il veto russo per un testo simile da approvare nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
143 stati hanno votato a favore, mentre 35 si sono astenuti, tra cui Cuba, Iran, Cina, India, Sri Lanka, Pakistan, Kazakistan, Kyrgyzistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Sudafrica, Etiopia, Eritrea ed altre 16 nazioni africane. Corea del Nord, Siria, Nicaragua e Bielorussia sono stati gli unici quattro paesi a votare contro la risoluzione insieme alla Russia.
La risoluzione non è vincolante, essendo solo una “raccomandazione” – ai sensi degli articoli 10 e 11 dello Statuto delle Nazioni Unite – e la sua forza si fonda sul numero e il peso delle nazioni favorevoli.
Val bene sapere che le risoluzioni per il ritiro di un esercito invasore hanno raramente ottenuto successo, dato che è un fattore che l’aggressore mette in conto già nel progettare l’attacco, ma le risoluzioni hanno un notevole peso nell’import ed export di risorse, beni e valute.
In questo senso, registriamo il voto favorevole di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, che fanno parte dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, e del Brasile, che fa parte del blocco BRICS con Russia, India, Cina e Sud Africa.
In termini strategici, a parte il peso commerciale e industriale di Cina e India, va registrato che non hanno aderito alla risoluzione, astenendosi o votando contro, la gran parte delle nazioni che controllano le rotte commerciali che portano petrolio, minerali e merci dall’Oriente verso l’Europa e il Giappone .
Non è irrilevante il fattore che la risoluzione chieda il ritiro delle truppe russe (non il cessate il fuoco e l’intervento di Forze di Pace), con Cina, India e Pakistan in ‘conflitto di interessi’, essendo a loro volta oggetto di moratorie per territori contesi.
Era il 9 dicembre 2019, quando si incontravano a Parigi Zelenski e Putin, per discutere di pace, con la mediazione del presidente francese Emmanuel Macron e della cancelliera tedesca Angela Merkel. Si arrivava così al cessate il fuoco permanente, completamento dello scambio dei prigionieri, sminamento, apertura di nuovi varchi per i civili lungo la Linea di controllo, arretramento dei militari e dei loro armamenti da altre tre zone “È disgelo, ma non ancora pace”, titolava il giorno dopo Le Figaro, se Putin continuava a confermare tutta la sua arroganza e – dall’altro lato – “a Kiev i dimostranti in piazza lo tenevano d’occhio, per assicurarsi che non concedesse niente ai russi. E quando, qualche settimana prima del vertice, Zelenskiy ha accettato la cosiddetta Formula Steinmeier (una revisione degli Accordi di pace di Minsk, elenco dei passi da compiere per stabilizzare il Donbass), i nazionalisti radicali ucraini lo hanno chiamato traditore.” (fonte ISPI)
Veniva anche previsto un nuovo incontro – a Berlino in primavera – per i nodi più importanti da sciogliere: restituzione all’Ucraina del controllo dei confini, elezioni locali e status futuro delle regioni separatiste, i termini di una reintegrazione del Donbass in Ucraina. Poi la pandemia e non se ne è fatto più nulla.
Così la Russia restava convinta di una minaccia ai suoi confini (e stiamo toccando con mano l’efficienza delle forze ucraine), quando un anno fa – il 31 ottobre 2021 – si concludeva il G20 di Roma con l’accordo sulla decarbonizzazione e l’avvio della transizione ecologica con l’obiettivo emissioni zero “entro o intorno a metà secolo”.
Una pessima notizia per i produttori di petrolio, anche se alcuni (USA e Cina) hanno un forte mercato interno che avrebbe consentito una transizione ‘soft’ e altri tre (Russia, Arabia Saudita, EAU) che – essendone privi – si trovavano alle porte di una recessione ultradecennale, specialmente per la Russia che ha un esercito mastodontico e in territorio enorme con 170 milioni di persone, che i paesi arabi non hanno e non devono sostenere.
Per il gas, invece, c’è una situazione diversa, dato che c’è ha un impatto molto minore del petrolio o del carbone, le emissioni sono più controllabili e filtrabili, solo un produttore – le repubbliche ex sovietiche controllate dalla Russia – è egemone ma comunque non è monopolista e c’è chi ancora lo considera una forma di energia ‘rinnovabile’, come scopriremo alla fine del post.
Pochi lo ricordano, ma venti anni fa la contesa Ucraina-Russia iniziò con la questione dei gasdotti che proprio nel Donbass e dintorni smistano verso l’Europa il gas russo e per l’esercito sovradimensionato ex Patto di Varsavia, che era lì a protezione dei confini … russi verso la Nato.
E durante la pandemia e tutti i guai che ha portato, con Zelenski alle prese con le tensioni interne nazionali e vista la dipendenza europea dal gas russo, non è stato difficile per Putin immaginare di riprendersi gasdotti, porti e fabbriche di avionica tramite una ‘liberazione del Don orientale’, cioè aggiungendo il “Donbass Stream Hub” al Nord Stream 1-2 e South Stream, con l’intento di diventare monopolista energetico verso l’Unione Europea dopo esserlo già verso la Cina.
Una tendenza che gravava diversamente sulle nazioni europee, se prive o meno di grandi porti sull’Atlantico, come vediamo nella mappa, e che solo la Germania (da tempo) aveva sterilizzato portando i fabbisogni di gas per la produzione elettrica sotto il 10%.
La Germania, dunque, dipende da risorse estere solo per il 16% nel caso del gas per la produzione di energia elettrica. Naturalmente il bilancio è diverso nel caso del gas per uso domestico, ma tanto vale ancora di più per le altre nazioni europee. Ma è anche una Germania che dipende per circa il 20% della produzione elettrica dalla Cina, dato che il fotovoltaico è per la maggior parte prodotto lì. Tanto per comprendere le profonde cause dell’attenzione statunitense verso … Formosa.
E, come vediamo dal grafico, il bilancio energetico italiano è drammaticamente diverso da quello tedesco (e francese o olandese): dipendiamo dalle importazioni per circa il 75% a causa della storica (fin dai Savoia) incapacità geopolitica a sfruttare i giacimenti condivisibili con nazioni partner nel Mediterraneo, oltre che nei ritardi nell’innovazione generale e nella diffusione del fotovoltaico.
Ritardi a loro volta dovuti sia alla limitata formazione e dotazione di personale tecnico che c’è in generale in Italia sia all’incapacità delle Amministrazioni competenti (Regioni) di programmare oltre la mera sussistenza sia per lo storico rapporto esistente tra una parte del panorama politico-culturale italiano e la Russia.
Dunque, finora i dati ci hanno raccontano quali interessi muovono le alleanze (o le crisi) tra i 5 principali attori energetici mondiali e quali sia il diverso impatto sulle economie europee delle contro-sanzioni russe.
E, forse, questo accade perchè – mentre trascorrevano anni per arrivare al Protocollo di Roma per la decarbonizzazione – l’astrofisica ha confermato che gli idrocarburi potrebbero essere inesauribili, se esistono non solo su Marte e gli altri pianeti esterni del sistema solare, ma anche sulle comete Halley e Hyakutake, nella polvere cosmica, nelle nebulose e nel gas interstellare. Già nel 2004, la Missione Cassini-Huygens (NASA ed ESA) aveva confermato l’esistenza di abbondanti idrocarburi (metano ed etano) su Titano, un satellite (luna) di Saturno come precedentemente suggerito dall’astrofisico Thomas Gold.
In altre parole gli idrocarburi gassosi potrebbero avere ‘origine abiotica’ anche sulla Terra, cioè provenire dalle sue viscere contaminandosi con batteri nell’attraversare la crosta terrestre ed … essere inesauribili.
Intanto, l’impatto ambientale delle nuove tecnologie per arrivare alla decarbonizzazione è incalcolabile, ma certamente pesante, come lo sarà quello della transizione ‘elettrica’ su economia e consumi, cioè sicurezza, pace, povertà eccetera. Viceversa, l’impatto ambientale, economico e sociale degli idrocarburi sono ben noti, sappiamo che sarebbero ancor più contenibili con tecnologie ibride e politiche ‘a chilometro zero’ e di gas ce ne è davvero tanto. Anche senza la Russia.
E siamo tutti in attesa della ‘fusione nucleare pulita’ in corso di sviluppo in Francia sulla base di scoperte italiane e che risolverebbe all’origine la fornitura di energia industriale e domestica.
E il petrolio? Gli USA dipendono dall’Arabia Saudita, tanto quanto la Cina dipende dalla Russia e le ex repubbliche sovietiche.
E da questo derivano i rischi di una terza guerra mondiale. Specialmente se l’Unione Europea non individuerà una road map ed un mediatore (Mario Draghi?) per convincere i due presidenti a sedersi ad un tavolo: prima della pace ci sono gli armistizi, che a loro volta vengono predisposti mentre la guerra è ancora in corso.
Dopo Sarajevo e Danzica, facciamo che la Storia europea non si ripeta nel Donbass.
Purtroppo, i referendum svoltisi in Donbass somigliano molto a tanti altri che hanno legittimato annessioni e unificazioni negli ultimi 180 anni, con corrispettiva nascita di forme di anti-Stato ancora oggi persistenti. Non vanno legittimati nè per quel che rappresentano oggi nè per quel che comporteranno in futuro.
Ma non perseguire almeno un armistizio, almeno per mettere in sicurezza le centrali nucleari e le popolazioni, come per consentire l’intervento internazionale ed accertare crimini e deportazioni, creando le premesse per una ‘restituzione’ dei territori, oltre ad essere poco giustificabile è proprio il fattore che fa espandere i conflitti.
Biden (e BoJo) certamente non si aspettavano che, inviate le armi in Ucraina, USA (e UK) rimanessero a secco come ci racconta il Financial Times (link).
Infatti, è il produttore Thales UK che ha annunciato che “il Regno Unito ha esaurito le scorte” di missili anticarro NLAW e sono gli inglesi ad essere rimasti senza obici semoventi M109 ed a doverli comprare da privati.
Come è la Raytheon Technologies USA che ha confermato che “alcuni dei componenti elettronici dei missili Stinger, prodotti per l’ultima volta su larga scala venti anni fa, non sono più disponibili in commercio”, cioè non può rimpiazzare i 1.300 inviati all’Ucraina.
E se gli Stati Uniti hanno spedito circa un terzo delle scorte di missili Javelin in Ucraina, alla Lockheed Martin servono 4 anni per produrli e ripristinarli. Intanto, la Francia ha inviato a Zelenski un quarto del suo arsenale di artiglieria high tech, che richiederà quasi due anni per essere ripristinato dalla Nexter, ex Giat Industries.
Quanto ai proietti di artiglieria, la produzione dei 155mm della General Dynamics Ordnance and Tactical Systems US statunitense a stento basterebbe per due settimane di combattimento in Ucraina. E tanto vale per il resto del munizionamento.
Da parte sua la Russia – in pochi mesi di combattimento – ha sparato tra 1.100 e 2.100 missili che equivarrebbero a quattro volte la produzione annuale degli Stati Uniti e anche gli arsenali russi non sono il Pozzo di San Patrizio, anzi mancano pezzi di ricambio e risorse per la produzione.
Ma le sanzioni hanno impattato sull’interdipendenza globale al punto chese in Russia la PJSC Sberbank ha iniziato a rimuovere i piccoli chip di metallo dalle carte bancarie non attivate per superare la carenza … in USA la crisi dei chip vede stime di produzione che addirittura arrivano al 2026.
E se il BRICS (con o senza Russia) rischia di diventare l’arbitro della situazione, c’è che ripristinare la nostra industria bellica come era nella Guerra Fredda comporta sì benefici occupazionali e speculativi, ma pone due problemi di fondo che già sono visibili in Ucraina e Russia.
Cosa ne sarebbe della Democrazia, se i cittadini sono tutti militarizzati nell’esercito o nella produzione?
Cosa succederebbe, se finisce la Guerra e chiudono le fabbriche di armi e munizioni, cioè come si arriva ad una riconversione, senza distruzione?
Soprattutto, Biden (e BoJo) conoscevano la situazione dei nostri arsenali, quando hanno promesso il loro pieno sostegno a Zelenski?
E sapevano che il tasso di inflazione annuo poteva schizzare alle stelle? Ad esempio, negli Stati Uniti è accelerato all’8,6% nel maggio del 2022, il più alto da dicembre del 1981. I prezzi dell’energia sono aumentati del 34,6%, a causa della benzina (48,7%), dell’olio combustibile (106,7%), dell’elettricità e del gas naturale (30,2% ). I costi del cibo in USA sono aumentati del 10,1%.
Attualmente, l’Unione Europea non ha granché da invidiare rispetto a USA, Russia e Cina, quanto a forze armate, specialmente se si considera che l’Europa non ha più fronti come le tre superpotenze. Questi i dati della Corte dei Conti Europea (LINK).
Cosa c’è che non va, dunque, se l’esercito russo appare “spaventoso” e se anche la Gran Bretagna vuole avere voce in capitolo?
A ben vedere, quello statunitense è un gigante d’argilla e non solo nei piedi, a quanto pare.
Secondo la BIS (Bank for International Settlements) nel mondo, nel 2020, c’erano circa 7.081 miliardi di dollari statunitensi circolanti nel mondo, di cui solo 1.200 miliardi in USA, secondo la Federal Reserve Bank. Forse anche meno, se il Fondo Monetario Internazionale (IMF) confermava che erano 6,794 miliardi i dollari Usa posseduti da altre nazioni sotto forma di “Foreign Exchange Reserves”.
In poche parole, 1 dollaro statunitense su sette esiste perchè lo paga/compra un altro stato. Anzi, diciamo che 1 dollaro va alla Cina, un altro al Giappone e un altro ancora alla Svizzera, mentre Russia e Arabia Saudita ‘controllano’ 50 cents ognuna …
E’ una dinamica nata quando l’oro cessò di essere il riferimento per i cambi delle valute ed era un modo per assicurarsi che tutte le nazioni ‘tifassero’ per il dollaro (e l’economia) statunitensi.
Ma nel corso dei decenni sono emerse altre valute potenti, come l’Euro e lo Yuan: oggi gli USA possiedono solo 141 miliardi in valuta estera e vantano una riserva aurea di appena 8.133 tonnellate. La Cina ha raggiunto le 14.727 tonnellate, la Bce vanta una riserva di 16.229 once (oltre 45mila tonnellate).
Intanto, Europa e Giappone trainavano un cambiamento tecnologico senza pari, mentre la produttività manifatturiera cinese e latinoamericana diventavano competitive: mentre il valore totale delle esportazioni (FOB) statunitensi è di 1.644 miliardi di dollari, mentre il valore totale delle importazioni (CIF) è arrivato a 2.567 miliardi di dollari, con un disavanzo di quasi 1.000 miliardi.
E – anche senza Silk Road, negli ultimi due anni l’Unione Europea si è resa più autonoma dalle importazioni dagli USA rispetto alla Cina.
Infatti, oggi, il debito federale Usa è arrivato alla cifra record di circa 28.500 miliardi di dollari, di cui un terzo è sostenuto dai fondi pensione privati e statali e singoli investitori, un altro terzo è assorbito attraverso la previdenza sociale. i fondi pensione federali e titoli del Tesoro, l’ultimo terzo è in mano straniera, sia nazioni (principalmente Cina e Giappone) sia privati (tra cui potenzialmente anche i Narcos – cfr. scandalo Credit Suisse).
E’ per questo che le Borse tremano e gli eserciti si armano: se non subentra un fattore di intensa ripresa produttiva … per non far crollare le pensioni (e il welfare dem) statunitensi, la FED dovrà alzare il costo del denaro, indebolendo investimenti, pensioni e welfare delle nazioni altrui. Le guerre consumano enormi risorse e richiedono un maggior sforzo produttivo.
L’unico settore (oltre l’emissione di valuta) in cui gli USA sono ancora un gigante è quello militare: almeno il 2% degli statunitensi è un militare in servizio o un riservista oppure lavora/ha lavorato come contractor.
Il sito specializzato GlobalFire (LINK) riporta una spesa militare statunitense annua di 770 miliardi a fronte di quella russa di ‘soli’ 154 e quella cinese di 250. Il personale militare in attività in USA è il 9,4 x mille della popolazione adulta in età attiva, con una spesa per singolo soldato di oltre 550mila dollari. In Cina i militari sono il 2,6 x mille con una spesa di circa 120mila $ per singolo soldato come in Russia che vede arruolati 1,22 cittadini ogni mille. L’enorme spesa statunitense è dovuta all’enorme forza militare aerespaziale statunitense che conta oltre 13mila aerei, il doppio rispetto alla Cina (circa 3.000) e la Russia (circa 4.000) messe insieme.
L’Unione Europea conta su 1,5 di effettivi, pari a 6,6 militari ogni mille persone in età attiva, con una spesa di complessiva di oltre 260 miliardi di dollari e un costo per soldato di 165mila $ circa.
Acclarato che c’è un solo esercito ‘grande e grosso, ma squattrinato’ e che gli altri si equivalgono per effettivi adeguati e spesa contenuta, … a quale stato conviene una nuova Guerra Fredda o anche solo di prender tempo con i creditori?
Non solo Trump, ma anche i Liberali europei puntano il dito verso la Cina per la coercizione dei propri cittadini e la manipolazione delle informazioni all’estero.
Hans van Baalen – presidente dell’Alleanza Liberaldemocratica, a cui aderiscono anche i Radicali e +Europa – ha condannato il ‘misuse’ cinese del contenimento Covid-19 allo scopo di rafforzare il potere comunista.
E’ un fatto noto, ormai, che “l’European Union External Action Service (EEAS) ha prima ritardato e poi riscritto un rapporto sulla disinformazione e sui metodi che hanno alleggerito l’attenzione sulla Cina.
Altre organizzazioni mediatiche affidabili e apprezzate come Politico Europe e BBC News hanno riportato fatti simili“: la pressione diplomatica e la coercizione interna da parte della Cina avrebbero portato a sottovalutazioni che hanno ammorbidito la posizione dell’UE nei confronti delle campagne di disinformazione cinese nei paesi europei durante l’epidemia di COVID-19.
Il parlamentare europeo Bart Groothuis (Renew Europe) – anche lui olandese – ha lanciato un chiaro monito.
“L’Unione Europea deve essere vigile e rispondere a queste ostilità. La relazione del Servizio europeo per l’azione esterna si resoconti e la disinformazione di COVID-19 è un passo avanti. Tuttavia, le recenti accuse relative all’ammorbidimento dei contenuti su richiesta del governo cinese destano profonda preoccupazione. L’UE non può consentire a un paese esterno di influenzare le informazioni condivise.
L’UE deve trovare la sua posizione in questa nuova fase globale e ha tutto ciò che serve per combattere e dare l’esempio, ma sono necessarie unità e cooperazione di tutti gli Stati membri e poteri istituzionali liberali più forti. L’UE può essere un leader sulla scena globale, ma deve ritrarsi come una vera Unione di stati democratici liberali che affrontano la crisi in modo collettivo, efficiente e trasparente.
Qualsiasi manipolazione o coercizione da parte di paesi terzi causerebbe un danno al processo democratico nell’UE. La nostra sovranità politica è in gioco se lo permettiamo.”
In altre parole dallo scoppio della pandemia di COVID-19, Cina e Russia stanno implementando una campagna di disinformazione globale volta a posizionarsi come leader globali e minare la fiducia nelle democrazie liberali e nelle loro istituzioni.
“La lotta contro COVID-19 è una lotta comune. I regimi che nascondono e mascherano le informazioni non possono essere l’esempio principale, a differenza delle democrazie liberali che salvaguardano le libertà civili e condividono informazioni trasparenti ed efficienti.“
Adesso, la parola passa ai vari partiti liberali d’Europa, tra cui i nostri Radicali, +Europa e PLI, anche se non è parte dell’alleanza europea dei liberali.
La forza degli Europei sono le libertà civili e la condivisione di informazioni trasparenti ed efficienti.
Perderemo la guerra con il Covid-19 e non solo quella se anche in uno stato o una regione europei fossero ritardate e poi riscritte delle informazioni essenziali contro la pandemia. Peggio ancora se in un qualche stato o regione europei si adottassero forme di coercizione della popolazione eccessive per nascondere le falle del sistema e cooptare il consenso.
Due mesi fa, Trump sollecitava l’Opec a ridurre i prezzi del petrolio greggio. L’aumento del costo dei combustibili frena i consumi e fomenta l’inflazione, spingendo al rialzo i tassi di interesse.
Neanche un mese dopo, il 12 maggio, quattro petroliere venivano sabotate con mine depositate da barchini al largo di Fujairah sullo stretto di Oman. Si tratta delle saudite Amjad, che approvvigiona l’Olanda, e Al Marzoqah, che sposta il greggio verso depositi e raffinerie locali come anche la A. Michel degli Emirati, mentre la norvegese Andrea Victory rifornisce Sudafrica e Americhe.
Ieri, due altre petroliere sono state colpite da siluri o forse da mine o da razzi, si tratta della Altair e la Kokuka Corageous, ambedue destinate al mercato energetico giapponese, proprio mentre il primo ministro nipponico Shinzo Abe si trova in visita in Iran.
Dunque, c’è di che allarmarsi, dato che il prezzo del greggio ha un triste nesso con il declino italiano: nel 2001 non siamo solo passati all’Euro, è anche l’anno che il prezzo del petrolio greggio ha ripreso a crescere, sfondando in pochi mesi il tetto medio annuo dei 30$ a barile, dopo due anni quello dei 40$ (2003), dopo quattro i 60$ (2005) e poi anche quello dei 90$ (2010), cosa che durò fino al 2013.
Da allora, il prezzo del greggio si è tenuto più o meno sotto i 50$ al barile, grazie ai cambiamenti politici in Qatar, Venezuela e Siria, che hanno calmierato il mercato … con tendenze al rialzo.
E domani, cosa succederebbe in Italia con il greggio a 100 dollari al barile?
Daremmo la colpa all’Eurozona, se ci sarà da ‘aggiustare il Bilancio di qualche percento o ci ricorderemo dei soldi per le infrastrutture energetiche ‘alternative’ al petrolio, andati dispersi per decenni, come per i tanti scandali dell’eolico, del fotovoltaico, dei rifiuti?
E con i tassi di interesse al rialzo, quanto ancor di più sono da evitare tanto le sanzioni europee quanto le sub-valute o altre forme di dissanguamento?
Il ‘core’ della crisi cinese è l’apertura agli investimenti stranieri, un tasto abbastanza dolente per la Cina, memore sia della Guerra dell’Oppio anglo-americana sia della Manciuria giapponese. Allo stesso tempo è inevitabile e potrebbe essere perseguita fuori dalla Cina, con joint ventures in Africa, in Asia e, forse, nell’Europa greco-balcanica.
L’alternativa è il profilarsi di conflitti di macro-area in Africa con effetti ‘benefici’ sulla produzione industrial-militare occidentale.
Meglio la prima, più probabile la seconda se la Cina non fa presto, ma in ambedue i casi il ‘profitto’, la ‘produzione’ e i ‘consumi’ sarebbero assicurati.
Oggi gli USA avvisano il mondo che ‘la crisi migratoria durerà 20 anni’ e l’Unhcr ha lanciato un appello per la ripartizione di almeno 200mila richiedenti asilo in Unione Europea nell’immediato.
Non ci vuole la sfera di cristallo per prevedere che anche per i prossimi 20 anni in buona parte si tratterà di profughi dall’Africa e dal Medio Oriente in fiamme … con effetti ‘benefici’ sulla produzione industrial-militare, sul ‘profitto’, sulla ‘produzione’ e sui ‘consumi’.
Erano anni ed anni che si ripeteva come la Cina Popolare avrebbe dovuto rallentare la crescita industriale, svalutare lo Yuan ed abbassare il costo del denaro, aprire agli investimenti stranieri, affrontare i costi di un Welfare State di tipo occidentale.
Avrebbe dovuto ma, per fortuna, così non è stato e l’Europa ha avuto il tempo di ricapitalizzare l’Euro, saccheggiato da speculatori e corrotti, mentre gli USA riconvertivano il settore metalmeccanico di base e parte del complesso industrial-militare ormai in dismissione.
Ora tocca alla Cina, però, e da quelle parti le cose si fanno seguendo un piano e non a casaccio.
La strada per ristrutturare il capitalismo collettivista cinese ha già percorso diverse tappe evidentemente prefissate:
crollo borsistico di Shangai controllato se non predeterminato (avvio della crisi prevenendo il fall out)
blocco parziale dei conti correnti e svalutazione dello Yuan (stabilizzazione dell’offerta e dei prezzi interni)
ristrutturazione di almeno due enormi Hub industriali e supporto alle commesse (gli incendi sono il modo più rapido …)
estensione per downgrade successivi della crisi sul sistema globale (misure antispeculative e antipanico)
Ovviamente in Cina è una ‘stampede’, una mattanza, come riporta Reuters, con migliaia di aziende a rischio, ma perdere il 30% del valore borsistico non significa aver perso anche il 30% di capacità produttiva o dei consumi.
Un esempio su tutti il crollo borsistico della Suntek Co. a causa di un’enorme truffa internazionale, con i titoli di allora che oggi son carta straccia, ma anche con le fabbriche tutte lì e con la Cina che continua ad essere il maggior produttore mondiale di pannelli fotovoltaici.
Dunque, è probabile che la Cina non sbloccherà i conti correnti finchè le previsioni non saranno stabili, ma potrebbe abbassare il costo del denaro sotto il 4% anche in tempi brevi e non è improbabile un ulteriore ribasso dello Yuan con un ammortizzamento delle perdite in borsa intorno al 40%. Anche in questo caso i danni (frenata della ripresa) per USA ed Eurozona potrebbero essere compensati da benefici (miglioramento del debito e dello spread).
La vera questione – quella per la quale da anni si attendeva la flessione dello Yuan e per la quale c’è oggi preoccupazione – è determinata dalla pressione interna ai consumi nelle città e nei distretti industriali che non poteva proseguire ad libitum. Specie se accadeva di non poter sviluppare i consumi interni (e il PIL) oltre un certo limite se un’altra parte consistente della popolazione non possiede una lavatrice e un frigorifero o un’automobile, oltre a maggiori tutele per la salute.
Qualunque sia la soluzione che la Cina intenda perseguire non è un processo di breve termine e se gestito male potrebbe portare alla stagnazione intere aree del paese.
Gli incendi e gli sgomberi o la distruzione delle merci negli Hub sono una soluzione a minor costo ed aprono la strada a nuovi investimenti, migliori ricollocazioni e nuove commesse (ndr. gigantesche infrastrutture sono rimaste inutilizzate, la carenza di domanda occidentale ha accumulato ingenti scorte), ma sarebbero un sistema pessimo quanto pragmatico ed atavico … forse l’unico.
Quello che maggiormente ci coinvolge è, però, l’apertura agli investimenti stranieri, un tasto abbastanza dolente per la Cina, memore sia della Guerra dell’Oppio anglo-americana sia della Manciuria giapponese. Allo stesso tempo è inevitabile e potrebbe essere perseguita fuori dalla Cina, con joint ventures in Africa, in Asia e, forse, nell’Europa greco-balcanica.
L’alternativa è il profilarsi di conflitti di macro-area in Africa con effetti ‘benefici’ sulla produzione industrial-militare occidentale.
Meglio la prima, più probabile la seconda se la Cina non fa presto, ma in ambedue i casi il ‘profitto’, la ‘produzione’ e i ‘consumi’ sarebbero assicurati.
Quanto ai fattarielli italiani, per ora il crollo cinese ci garantisce uno spread migliore ed una spesa petrolifera significativamente più bassa. Bene per le casse pubbliche, per banche e petrolieri, ma sarà del tutto ininfluente per la gente comune se, con le fabbriche cinesi in affanno, non fosse la volta buona di pensare all’occupazione e all’imprenditoria di casa nostra e ripristinare una parte del sistema manifatturiero che abbiamo smantellato con Prodi e Tremonti.
Un cielo pieno di nuvole fa presagire alla venuta della pioggia, che nutre i campi e permette la vita: non è la pioggia stessa che va attesa, ma il raccolto che ne verrà. (L’Attesa – L’Acqua sotto, il Creativo sopra – I Ching)
Un mese fa, era il 9 giugno 2014, ha fatto scalpore un test sottoposto ai bambini di una scuola elementare di Hong Kong come prova di ammissione e che va risolto entro 20 secondi.
Nel parcheggio ci sono 6 posti auto. Ognuno è numerato: 16; 06; 68; 88 e 98. Ne manca uno. La domanda è : in quale posto è parcheggiata la macchina?
Il test ha fatto il giro del web, appassionando non solo bambini ma anche adulti, sicuramente lo conoscete già e saprete che la soluzione è il numero …
E, se per sapere perchè, basta voltare la figura al contrario.
Il punto, però, è un altro: c’è un dettaglio che nessuno ha spiegato ed è il vero motivo per il quale un bimbo cinese risolve in meno secondi un quiz che da noi avrà richiesto ben altre risorse.
Infatti, il vero trucco è talmente semplice e sofisticato quanto, evidentemente, il metodo di insegnamento ad Hong Kong, a riprova che ad Oriente – superato il colonialismo – troviamo culture dalle basi ben più antiche, longeve e solide, cioè pragmatiche, di quell’impero romano che scriveva i numeri usando lettere. Dunque – almeno in Italia – dovremmo porci quesiti ‘epocali’; ad esempio, riguardo la nostra convinzione che le parole possano esprimere con completezza quello che un singolo ‘segno’ può comunicare.
Infatti, l’enigma non sarebbe stato tale se al posto dell’autovettura avessimo visto una semplice casella vuota: tanti o tutti ci saremmo accorti che mancava l’87.
E’ lì tutto l’enigma, non nella serie. Liberare il problema dagli elementi inutili e porre il centro dell’osservazione dove opportuno e non dove predeterminato.
I bambini cinesi hanno visualizzato la griglia ‘vuota’, escludendo l’oggetto perchè educati ad esplorare il foglio e perchè lì usano ancora l’abaco e hanno ‘visto’ l’elemento mancante della serie.
Ecco come si sarà presentato il nostro – ma non loro – enigma ai bambini di Hong Kong in termini cognitivi o, meglio, cosa hanno ‘visto’, non appena girato il foglio.
Qualcosa che dovrebbe farci riflettere su quale sia il gap culturale dell’Italia e su cosa significhi ‘valutazione’ di un sistema scolastico, di un docente, di una classe, di un alunno.
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