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Obama e la Siria: ultima corvée per i Democratici?

2 Set

Obama dovrà attendere il voto parlamentare per attaccare la Siria, dopo aver baldanzosamente annunciato: «ho deciso che gli Stati Uniti conducano un’azione militare contro il regime siriano», «ho il potere di ordinare l’attacco senza il via libera di Camera e Senato»

Una catastrofica figuraccia, perchè l’iter si concluderà intorno alla metà di settembre e, in caso di rinuncia all’attacco, con grande spreco di carburante che si è reso necessario per trasferire un’intera flotta di fornite le coste libanesi a carico dei contribuenti statunintensi.

La defaillance presidenziale era stata ampiamente annunciata da questo blog, in due post: Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca, dove si riportava la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gove Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente, e Guerra in Siria, tutto quello che c’è da sapere, dove si raccontava del’interferenza saudita, della sua capacità di pressione su Wall Street e Londra e dell’antico vezzo dei presidenti statunitensi di far guerra altrove quando in homeland le cose non vanno bene per la fazione d’appartenenza.

Così, infatti, sono andate a finire le cose, con la Gran Bretagna che ha congelato le velleità belliche di Cameron e con la Francia di Hollande unica e sola nell’appoggiare Mr. President.

Le ricadute globali di questo disastro politico obamiano sono e saranno pesantissime, forse epocali, anche se dovesse riuscire a lanciare i suoi ‘attacchi mirati’ senza subire ripercussioni dalla reazione siriana, senza i ‘danni collaterali’ causati in Iraq, Libia e Afganistan e senza scatenare l’Armageddon in Medio Oriente.

Infatti, quello che viene drammaticamente a cadere è tutto il modello politico democratico e progressista di cui Obama (e Hollande) erano gli ultimi alfieri.

Un approccio internazionale ‘orientato al confronto’ che non ha saputo risolvere la questione Guantanamo, nè quella afgana o quella israelo-palestinese. Che ha visto esplodere drammatiche rivoluzioni nordafricane e mediorientali contro dittatori appoggiati dai poteri mondiali, a tutt’oggi non stabilizzate. Che non ha avviato una politica ‘atlantica’ di superamento della crisi mondiale, con tutte le conseguenze date da una Germania egemone e prepotente. Che ha permesso una notevole crescita dell’instabilità nell’Oceano Indiano e nell’America Meridionale.

Cartoon da Cagle.com

Cartoon da Cagle.com

Una esibizione di muscoli – in Libia come in Siria – decisamente pletorica e controproducente. Questo è uno dei verdetti relativi al presidente Barack Obama, ma non è tutta colpa sua.

Infatti, quale futuro può esserci per l’ideale ‘democratico’ (o meglio progressista), se il mito del Progresso è stato infranto già dalla fine degli Anni ’70? O, peggio, se gli stessi Progressisti hanno provveduto – venti e passa anni fa – a sdoganare la Cina Popolare, la Russia di Eltsin e Putin, il Venezuela di Chavez, la strana federazione indiana della famiglia Gandhi, un tot di regimi islamici e qualche residuale dittatura fascista o socialista?

Che farne del costo del lavoro e dei salari minimi, della sanità pubblica, delle pensioni, del welfare, se il sistema globale necessita, per alimentarsi e fluidificarsi, di ignorare l’elemento fondante una società organizzata, ovvero la solidarietà umana?

Come offrire ‘progresso’ in cambio di ‘tradizione’ e ‘pace’ in vece di ‘cambiamento’, se l’effetto conseguente è ‘meno solidarietà’, ‘meno uguaglianza’?

E come esprimere qualcosa di ‘progressivo’, in una società dove non è il lavoro l’elemento alienante delle nostre esistenze, bensì lo sono i consumi e l’iperconnessione?

Dopo un quinquennio di pessime mosse in politica estera e di tagli continui al Welfare, la figuraccia di Obama – nel suo quasi solitario tentativo di inaugurare una nuova guerra mondiale, sulla base dei soliti e sacrosanti doveri morali – è la ciliegina sulla torta per chi cercasse una riprova che o si ritorna ad uno stato etico e liberale oppure progresso, democrazia e welfare diventeranno sempre più una chimera.

Una questione che coinvolgerà tutti i partiti progressisti nel mondo, già vessati da oscene storie di corruttela o di sliding doors in cui tanti dei suoi leader sono stati coinvolti. Ed, infatti, Hollande si è ben guardato da intaccare l’autorevolezza delle istituzioni francesi e l’accessibilità dei servizi ai cittadini, mentre i ceti popolari metropolitani slittano sempre più a destra in Francia, dopo che alcuni leader socialisti sono transitati con non chalance dall epoltrone di partito a quelle degli organi di garanzia per pervenire, sistemate le cose a modo loro, ai vertici di alcune maggiori holding francesi.

Andando all’italia, dove la sola e solitaria Emma Bonino ha avuto il coraggio di ricordare il ‘rischio di una guerra mondiale’, ci troviamo con l’Obama di casa nostra, Matteo Renzi che si propone insistentemente per la guida del Partito Democratico.

Non è che storicamente il Partito avesse brillato per la presenza di leader nati e cresciuti in una qualche metropoli, ma c’è davvero da chiedersi cosa mai potrà permettergli di chiamarsi ‘progressisti’, se il leader è un uomo, che arriva ‘fresco fresco’ da una piccola città di provincia in un mondo miliardario e globale, che deve la sua sopravvivenza alle vestigia – mai rinverdite o rinnovate – del suo lontano Rinascimento e delle speculazioni finanziarie dei loro antenati?

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Egitto, un nuovo flop per la Casa Bianca?

14 Ago

Dieci giorni fa, il Washington Post ha raccolto una rara e stringata intervista concessa dal Generale Abdel Fatah al-Sissi, uomo forte dell’Egitto ed esponente di punta di una leadership militare, ma laica.
Un’intervista che arrivava nello stesso giorno in cui il Segretario di Stato John F. Kerry aveva espresso frasi di sostegno, affermando che l’esercito egiziano è intervenuto per “ripristinare la democrazia.”

Non a caso Al-Sissi accusa l’amministrazione Obama, nel tentativo di restare neutrale, di aver alienato entrambe le parti in un Egitto profondamente polarizzato e instabile, che tenta di diventare una democrazia moderna.
Anche i sostenitori di Morsi, i Fratelli Musulmani, accusano regolarmente gli Stati Uniti di acconsentire ad un colpo di stato militare, ma sembra che si sia dimenticato che “l’esercito è stato chiesto di intervenire da milioni e milioni di persone”. E, come ha dicharava Kerry durante una visita in Pakistan, giorni fa, “i militari non sono subentrati nel potere, non ancora, almeno secondo il nostro giudizio”.

Una delle questioni che anima la querelle tra gli Stati Uniti e l’Egitto è l’obbligo federale di sospendere l’assistenza non umanitaria quando un governo democraticamente eletto viene rimosso dal suo incarico da un colpo di stato militare. Una misura che l’amministrazione Obama sembra voler evitare con un taglio di 1,3 miliardi di dollari degli ‘aiuti’ che dagli Stati Uniti arrivano in Egitto ogni anno. Ancheil rinvio della consegna di quattro caccia F-16 sarebbe, secondo il Washington Post, un dettaglio “puramente simbolico”.

La questione che, a monte, mette in fibrillazione il politically correct che impera nella White House di Barack Obama, è che dal 3 luglio, dalla cacciata di Morsi, è che la situazione dell’ordine pubblico egiziano potesse involversi in un bagno di sangue come accaduto oggi, che favorirebbe solo gli integralisti e i terroristi. Un timore condiviso dal fisico el Baradei, importante figura dell’opposizione laica ed ex-capo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (Aiea), dimessosi oggi dall’incarico di vice-presidente delle relazioni internazionali della giunta provvisoria egiziana.

Una scarsa capacità politica internazionale della Casa Bianca, come accusano i Repubblicani statunitensi, se al-Sissi va dichiarare che il segretario alla Difesa Chuck Hagel “quasi ogni giorno” lo consulta, ma che il presidente Obama non lo mai ha chiamato dopo cacciata di Morsi.
Non a caso i legami tra Cairo e Washington rimangono, ma da tempo è cresciuto il peso dei poteri regionali, come l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti.

Al-Sissi, nell’intervista concessa al Washington Post, si è detto irritato perchè gli Stati Uniti non appoggiano in pieno “un popolo libero che si ribella contro un potere politico ingiusto.”
“Il Comandante generale dell’Egitto ha ipotizzato che se gli Stati Uniti vogliono evitare ulteriori spargimenti di sangue in Egitto, dovrebbero convincere i Fratelli Musulmani a fare marcia indietro dal Cairo sit-in che ha mantenuto dal 3 luglio.”
“L’amministrazione degli Stati Uniti ha molta influenza e un largo margine di azione con i Fratelli Musulmani e l’amministrazione statunitense potrebbe utilizzare sul serio questa leva verso di loro per risolvere il conflitto”.

Così non è stato.

Intanto è di questi giorni la notizia che anche Bill Clinton, in un suo libro in uscita, si è aggiunto a Gore Vidal e Rupert Murdoch nella considerazione che Barack Obama è un incompetente.

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Presidenziali USA: vince il New Deal

7 Nov

Barak Obama ha vinto, sarà il presidente degli Stati Uniti d’America per altri quattro anni.
Nel suo breve discorso di ringraziamento agli elettori ha ricordato che ciò che ha vinto è stato  ‘lo spirito che ha risollevato questo paese dalla guerra e dalla recessione. Se avete votato Obama o Romney, comunqe vi siete fatti sentire ed avete fatto la differenza.”

Un discorso ‘americano’ non ‘solo democratico’, dove si è ricordato che “la nostra strada è stata difficile, il viaggio lungo, eppure ci siamo rialzti e per gli Stati Uniti deve ancora venire il meglio”, che ‘ognuno di noi condivide una serie di speranze per un futuro migliore pe rl’America. Vogliamo che i nostri figli crescano in un’America che non sia appesantita dal peso della diseguaglianza e dal debito, libera dal fardello del pterolio estero. Un paese che possa dar forma alla pace fondata sul progresso e la dignità’.

“Noi vogliamo un’America aperta e tollerante, per i giovani che possono avere l’opportunità di vedere dietro l’angolo un futuro migliore”.

E’ finito il decennio di guerra. Con le vostre storie e con le vostre lotte la Casa Bianca avrà la spinta per darvi un futuro migliore di prosperità e di pace. Voi ci avete eletti per mettere l’accento sul vostro lavoro, non il nostro. Quello che ci rende forti sono gli obblighi reciproci che ci rendono, seppur diversi, un paese unito.”

 Un discorso tenuto dinanzi ad una platea di 30-40enni in visibilio, preceduto dalle note di un rythm & blues, poche cravatte, molto casual.
Il segno di un’America che è cambiata, dopo l’involuzione subita sotto la presidenza di George Walker Bush.
Un’America che, mentre eleggeva il suo nuovo presidente, cambiava regole e stili di vita con una mezza dozzina di referendum: via libera ai matrimoni gay negli stati di Washington, del Maryland e del Maine, secondo i primi risultati,  ed alla legalizzazione della marijiuana per uso generale nel Washington, Massachussets e Colorado.

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Ritornare a Sanremo

15 Feb

Lo scorso anno, l’audience massima del Festival della Canzone Italiana di Sanremo si  era registrata durante la serata finale,  alle ore 22:13, mentre una Lorella Cuccarini “desnuda” attraeva ben 15.195.000 telespettatori, secondo Auditel. Mediamente, la serata si era mantenuta su un tetto di 14 milioni di telespettatori.

Un anno fortunato per Sanremo, il 2010, che aveva conquistato uno share elevato, ovvero vicino o superiore al 50% dei telespettatori nei momenti di punta, relegando le altre reti a quote infime, fatta eccezione per qualche singolo programma come Santoro od il Milan in Champions oppure il Kubrick di “Eyes wide shout” o, ancora, la prima visione Premium Crime.

Auditel, però, non ci dice che età abbiano e dove vivano i telespettatori di Sanremo.

Un dato di cui Auditel è in possesso certamente e che andrebbe reso pubblico, come andrebbe reso pubblico il bilancio finanziario, a consuntivo, del Festival di Sanremo e che invece viene fagocitato nel rendiconto generale della RAI.

Tre o quattro informazioni, da cui farci un’idea di possa essere “il popolo di Sanremo”, però, le abbiamo ed arrivano proprio da Auditel per Sanremo 2010.

  • Prima serata: la partita del Milan in Champions tiene un 15% dello share, Canale5 va sotto il 10% con Notting Hill, Ballarò mantiene comunque un modesto share
  • Terza serata: RaiDue con Michele Santoro si avvicina al 20% di share, mentre il Festival raggiunge una punta di 28 milioni di contatti durante la serata “revival” dedicata ai festeggiamenti della 60° edizione.
  • Quarta serata: Premium “Crime” si attesta tra i 2 ed i 4 milioni di telespettatori.
  • Finale: RaiUno si attesta sui 3 milioni con il Kubrick di “Eyes wide shout”

L’impressione che si riceve da questo questo quadro è che questi telespettatori – che evitano il festival – siano relativamente giovani, preferibilmente maschi, probabilmente acculturati, “più europei e meno italiani”. Altra impressione è quella di ritrovarsi dinanzi ad una sorta di rito da teledipendenza che si perpetua di generazione in generazione.

Tenuto conto che sul palco ci sono Morandi (1944) e Celentano (1938) e che sempre e solo di “canzone melodica” parliamo, il “quadro d’insieme” coincide con i pochi dati di confronto.

Potremmo, addirittura, approssimare l’ipotesi – viste le percentuali “bulgare” di share pro Sanremo – che una buona parte dei telespettatori del Festival siano coloro che comunque vedono la televisione in quella fascia serale, ovvero che la costosa iniziativa della RAI non comporta un incremento “importante” del pubblico televisivo, bensì sottrae semplicemente attenzione a quant’altro accade in televisione in quei giorni.

In termini di “democrazia” non è una gran bella notizia, quella di sapere che c’è una settimana in cui gli italiani vedranno “solo” Sanremo e TG RAI, ma non è questo il problema, anche se dovremmo sempre ricordare che la televisione pubblica dipende direttamente dal governo e non dal parlamento, tramite un consiglio d’amministrazione ed un ministero affidatario.

Il problema è che il Festival di Sanremo si è già ampiamanete dimostrato un costoso carrozzone, afflito da scandali ed indagini, che non ripaga l’investimento fatto – a carico delle tasse degli italiani e delle aziende che sponsorizzano – nè in termini di notorietà della musica italiana all’estero, nè in termini di maggiore opportunità di intrattenimento, nè, visto a cosa assistiamo, di qualità – minima e dovuta – di un servizio pubblico e di una televisione di Stato.

Infatti, il solo cachet per “una serata con” Adriano Celentano è costato alla Rai quello che costano “le sedi giornalistiche Rai nel Sud del mondo (in Africa, in Asia, in Sud America) e farle funzionare per un anno intero”.

In un’Italia che si dibatte tra la neve e gli arrangiatevi, mentre l’Euro affanna, con Monti ed i partiti che perdono consenso interno, non resta che chiederci quanti telespettatori seguirebbero il Festival di Sanremo – per cosa è diventato – se non spendessimo i soldi dei contribuenti per ospiti e star “fine a se stessi”.

L’epoca dei festival si conclude nel lontano 1976, quando venne abbandonata la sede del Casinò di Sanremo, che originariamente – e più propriamente – gestiva l’evento, per trasferire il tutto presso il Teatro Ariston di Sanremo. Uno “snaturamento” che segnò il passaggio dalla manifestazione canora al format televisivo, per un’iniziativa che, originariamente, nasceva dall’esigenza, in febbraio, di offrire un evento di rilievo – tra Natale e Pasqua – per i VIP che americani ed europei che venivano a “svernare” sulle rive del Tirreno.

Riportiamo il Festival agli splendori di una manifestazione canora italiana: neanche uno share del 50% in 4 giorni può giustificare un evento televisivo, sprecone e fine a se stesso, visto che i cachet più alti vanno agli ospiti e che le vendite discografiche raramente, ngli ultimi decenni senremesi, riflettono l’andamento effettivo di royalties e vendite nel corso dell’anno, nè abbiamo visto proseguire nella carriere molti, probabilmente troppi, dei tantissimi partecipanti a Sanremo.

Chiudiamo con “questa” “Sanremo – RAI” e ritorniamo al  Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

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La CIA nei guai a Beirut

22 Nov

Maurizio Molinari, accreditato corrispondente da New York per il quotidiano La Stampa, racconta del disastro dell’intelligence statunitense in Libano ed Iran, causato dall’individuazione di decine di migliaia di agenti e spie.

In poche parole, Hezbollah, con il supporto iraniano,  ha utilizzato strumentazioni di intelligence “made in USA” per monitorare il popolare Pizza Hut di Beirut, la capitale libanese, che era, in realtà, un ufficio di copertura della CIA, individuando un enorme numero di agenti operanti in Libano, Siria e Iran. Praticamente l’intero network CIA.

Gli Hezbollah sono arrivati alla centrale grazie ai messaggi di testo che un gruppo di agenti della CIA si scambiava tramite il messenger dei propri cellulari, facendo cenno dei luoghi dove si trovavano o dove sarebbero andati. La facile intercettabilità dei messenger e, soprattutto, il riferimento “pizza”, piuttosto inusuale in Medio Oriente, avevano messo sulla buona strada per cancellare la rete di intelligence.

Era lì, scrive Molinari, “che la Cia incontrava non uno, due o tre informatori ma dozzine di libanesi e cittadini di altri Paesi che consegnavano, o più spesso vendevano, notizie sul Partito di Dio.

“Il risultato è uno dei più pesanti bilanci per l’intelligence americana in Medio Oriente perché lo sceicco Hassan Nasrallah lo scorso giugno ha annunciato in tv la «cattura di due agenti della Cia» e ieri fonti statunitensi hanno confermato che gli agenti «smascherati e catturati» sono molti di più, «dozzine di persone».”

“E se la notizia trapela sui media degli Stati Uniti è perché l’amministrazione Obama non ha idea di che fine abbiano fatto. I miliziani hanno ascoltato, fotografato e schedato chiunque entrava e usciva per settimane, forse mesi. Il risultato è stata una mappa del network della Cia in Libano nonché la scoperta di una rete parallela di spie, questa volta in Iran.” (link all’articolo integrale)

Non poche critiche “dall’interno del Pentagono” sono arrivate sia per il grave errore di incontrare molti agenti in un solo luogo, che ha fatto compromettere l’intero network, sia per quello di aver usato gli stessi telefoni per chiamate dirette negli Stati Uniti, cosa “sospetta” da quelle parti e rilevabile di tracciati delle celle telefoniche, sia per aver confidato in una leggenda metropolitana, come quella dell’inviolabilita dei messenger.

La vicenda si trascina da mesi, dato che sembra siano stati catturati anche cittadini americani, è l’amministrazione USA vuole attendere di avere il quadro completo dei danni e, soprattutto, che i rapitori si facciano avanti.

Ad ogni modo, agiugno, lo sceicco Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, si era vantato in televisione di aver scoperto due spie della CIA, infiltrate nella sua organizzazione e l’ambasciata americana a Beirut aveva negato.

Oggi, inizia ad emergere la verità sull’ennesimo flop libanese della Central Inteligence Agency e, come da standard, i media statunitensi riportano la dichiarazione di un portavoce della agenzia d’intelligence statunitense: “La CIA non rilascia dichiarazioni, di regola, per accuse inerenti attività operative.”

Oltre a danneggiare pesantemente la possibilità per gli Stati Uniti e la Nato di acquisire informazioni in Libano, Siria ed Iran, lo smacco subito dalla CIA crea non pochi problemi e non solo per  un eventuale intervento militare in Iran.

Gli eventuali “ostaggi” americani potrebbero essere usati per influenzare l’opinione pubblica durante la corsa presidenziale di Obama, visto che i, come accade, per l’appunto in Iran, per Jimmy Carter.

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Obama ed il debito USA allo shut down?

8 Apr

Se il braccio di ferro che Obama ha instaurato con il Congresso non troverà una rapida soluzione, tra pochi giorni 800mila dipendenti federali resteranno a casa senza stipendio.
Ma non solo.

Si spegneranno decine di migliaia di Blackberry “di servizio”, i neopensionati dovranno attendere per lo smaltimento delle loro pratiche, sarà rallentata l’approvazione di nuovi prodotti farmaceutici e medicali, cesseranno i contributi a garanzia dei mutui-casa.
Gli stipendi dei militari non saranno incassabili, dato che “la Casa Bianca prepara gli americani alla chiusura del governo facendo sapere che «la crescita economica ne risentirà» e tutti i militari, anche quelli in Afghanistan e Iraq, «saranno pagati ma non riceveranno gli assegni finché il Congresso non ridarà i fondi necessari al governo».”
Inoltre, siccome Washington è un distretto federale, nella capitale andranno in difficoltà diversi servizi, tra cui la raccolta dei rifiuti, che altrove sono gestiti dagli Stati.

L’origine dello scontro istituzionale è ben sintetizzato dal corrispondente da Washington di La Stampa, Maurizio Molinari: “Barack Obama chiede al Congresso di approvare un piano decennale di uscite per 45.950 miliardi di dollari che porterà la spesa al 24% del Pil nel 2021, mentre il piano redatto dal repubblicano Paul Ryan, capo della commissione Bilancio alla Camera, somma uscite per 39.960 miliardi in dieci anni promettendo di far scendere la spesa al 20% del Pil.”

Una differenza di circa 5mila miliardi di dollari, come dire due anni di PIL italiano; non è poca cosa.
Gran parte della differenza (oltre 3500 miliardi) riguarda settori diversi dalla Sanità, Previdenza e Difesa, che sono specificamente attribuiti al Governo Federale. Un’enorme quantità di risorse pubbliche che si perdono in mille rivoli clientelari, dal Festival della Fioritura dei Ciliegi di Washington alle quasi inutili previsioni del tempo “a cinque giorni”.


Una differenza che conta, se addirittura Mr. President pretende di incrementare le spese del 20%, a fronte di dati forniti dal suo stesso governo, che indicano una previsione di 2162 miliardi di dollari di entrate fiscali a fronte di 3456 miliardi di spese nel 2010.

 

Un crash istituzionale e politico atteso da un anno, dato che, già nel 2009, il noto storico Niall Ferguson, professore ad Harvard, dichiarava che: “Gli Stati Uniti si sono messi su un sentiero fiscale non sostenibile. Sappiamo anche che il percorso si conclude in due modi: o si azzera il debito o si svaluta la moneta.”

Dunque, non è improbabile che questo braccio di ferro sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini statunitensi sia l’ultima spiaggia di Barak Obama.

Un fallimento che i Tea Party avevano presagito e che, comunque andrà, peserà moltissimo sulla futura rielezione del presidente.

Se dovessero passare tutte le proposte della Casa Bianca, non è improbabile che ci ritroveremo ad assistere ad un progressivo indebolimento del dollaro e ad un calo del potere d’acquisto negli States, ovvero ad un generale impoverimento degli Stati Uniti .

Intanto, a tanti ormai appare evidente che Obama sia di fronte al fallimento del suo programma politico, sia come politica interna insostenibile fiscalmente sia come politica estera con i fronti regionali che si allargano e con gli alleati, vedi Francia o Germania, che prendono iniziative.