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La Scuola può produrre diseguaglianza e degrado?

7 Apr

Pattern in inglese sta per “modello, schema, configurazione”. Purtroppo, l’abuso di questo termine fatto in psicologia l’ha reso quasi sconosciuto negli ambiti gestionali pedagogici, anche se è in uso negli ambienti di lavoro sia per la produzione sia per la progettazione.

Il pattern è uno schema, un modello specifico che viene seguito e che tende generalmente a ripetersi. Tale schema è originariamente una bozza, un piano, una linea di base su cui impostare un lavoro.

Senza pattern ‘preliminari’, nessun progetto (e nessun project management) può garantire la pianificazione, l’esecuzione, il monitoraggio e il completamento: questo è il motivo per cui è ancora molto diffusa nelle scuole e nelle università una pianificazione in corso d’opera (sic!) e la rendicontazione ex post, ambedue poco legittime e certamente disfunzionali.

Risorse, strutture e organigrammi – ad esempio – sono inevitabilmente inadeguati, se manca la definizione di un modello non solo per la didattica, ma anche per il ruolo docente, per l’accesso dei discenti al lavoro e alle professioni, per la gestione locale del disagio e delle diversità.

Oggi, rispetto alla scuola degli Anni ’50, al pattern dei Programmi Ministeriali (cogenti) si sono sostituite le Indicazioni (discrezionali), a quello dei vincitori di concorso si è affiancato quello delle immissioni in ruolo, è cessata l’omogeneità di una formazione continua nazionale in servizio, la dispersione scolastica e la carenza di lauree STEM dimostrano che il divario tra istruzione e lavoro è ritornato quello di 100 anni fa, la gestione del disagio e delle diversità è a macchia di leopardo a seconda delle diverse norme sociosanitarie regionali, anche se si tratta di diritti costituzionalmente tutelati.

E non è che a questo possa sopperire la Scuola dell’Autonomia, che Luigi Berlinguer aveva pensato per essere ‘smart’, ‘friendly’ e ‘choosy’, cioè supportata dall’introduzione di un syllabus e di prove nazionali, di scuole in rete per acquisti, sponsor e rapporti locali, di docenti con funzioni ‘quadro’ qualificate, di dirigenti pubblici preposti eccetera eccetera.
Un’Autonomia ‘didattica’ che oggi dovrebbe funzionare con 40+40 ore all’anno di orario non d’insegnamento per i docenti con la dirigenza scolastica che prima di tutto deve gestire le migliaia di atti che una scuola emette in un anno, senza che la Regione o il Comune siano direttamente responsabilizzati in Consiglio d’Istituto.

Dunque, non è certamente con un piano di assunzioni su vasta scala che si può risolvere il problema e ridarci una ‘buona scuola’. Anzi, è solo possibile peggiorarla se si dovessero assumere docenti inadeguati o di ambito non necessario, come più o meno succede dall’Unità d’Italia per scopi occupazionali: così si aggraverebbe il gap esistente tra materie umanistiche dominanti nelle scelte universitarie e quelle tecnico-scientifiche che a malapena coprono il fabbisogno aziendale nazionale con buona pace della cattedre scoperte.


Ed è ancor più probabile l’insuccesso a lungo termine, se questi docenti neo-immessi in ruolo dovessero ritrovarsi ad operare in un sistema localistico, discrezionale e non monitorato, privo di un modello, proprio negli anni in cui accumulano esperienza e competenze. Lo stesso vale per la dirigenza e il personale ATA.
L’Italia è già messa male, se leggiamo strafalcioni grammaticali sui media, se troppi si sono laureati imparando solo la “kultura” di 50 anni fa, se la Scienza è un’opinione da talk show come è stato durante il Covid.

Prima di dare corso ad ulteriori assunzioni sarebbe importante definire il ruolo docente, l’iter concorsuale standard, la formazione in servizio, i criteri di accesso a posizioni di coordinamento o di staff, i saperi minimi in sede di esame annuale. E’ dal 1999 che l’Italia attende.

Sarebbe anche importante che lo Stato pubblichi non le Indicazioni e non i Programmi, ma i Saperi minimi necessari all’accesso alle classi successive e il Questionario nazionale delle prove annuali, visto che siamo nel III Millennio da una generazione. E’ l’elemento essenziale per veder riconosciuto un diploma all’estero, come sa chi ci ha provato.

E sarebbe essenziale – se non si vuol navigare a vista – aver delineato quale sarà il rapporto Stato-Regioni per istruzione e formazione – in relazione al mondo del lavoro che è cambiato (ndr. c’è crisi da 10 anni ormai) e cambierà (PNRR e guerre). A che scopo far funzionare licei e istituti se non c’è una politica univoca per sviluppare imprese, cultura e occupazione.

Senza pattern, senza un modello o uno schema, come fa una scuola a perseguire obiettivi con efficacia?
E quanta parte del personale scolastico è formata per definire, attuare e adeguare uno schema di lavoro?

Tra concorsi in atto, immissioni in ruolo, formazione in servizio e PNRR da spendere, abbiamo un anno o forse due per riportare la docenza (e la didattica) a degli standard qualitativi uniformi in tutto in Paese, ma gli Italiani hanno davvero voglia di rimettersi sui libri e … adottare dei pattern (‘modelli’ nazionali) per i ‘docenti quadro’, per i ‘programmi’, per la verifica annuale degli alunni, per l’aggiornamento, per i libri di testo, per la dotazione minima dei laboratori e delle aule?

A.G.

Autonomia legislativa e amministrativa: lo scenario regione per regione

13 Feb

Arriva l’Autonomia legislativa e amministrativa e già la chiamano la secessione voluta da Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna. 

True Numbers fornisce molte informazioni, a partire da quella che il risanamento  ha imposto molti sacrifici a regioni e comuni, anzi, ne ha limitato occupazione, benessere e crescita che una parte di loro avrebbero potuto finanziare, avendo i bilanci a posto.
Viceversa, lo Stato Centrale non ha adottato la stessa misura verso se stesso. Infatti, mentre dal 2012 il debito nazionale è costantemente aumentato, quello degli Enti Pubblici è sceso dal 7% al 5% del Pil nazionale.

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Inoltre, lo Stato in Italia non è qualcosa di astratto, bensì è ben ‘geolocalizzato’, come ci spiegano gli studiosi dell’Unificazione italiana. 
E lo Stato è innanzitutto Roma, con il Lazio che – sarà un caso – è la regione che non vede una reale diminuzione in 3 anni del debito consolidato degli enti locali (tutti, non solo la regione). 
Ma lo Stato in Italia è anche Torino e, anche questa volta sarà un caso, il ‘ricco’ Piemonte (Pil pro capite = 30.300 € annui) dove il debito consolidato degli enti locali tutti è intorno al 9% proprio come la Campania, che certamente non naviga nell’oro (Pil pro capite = 18.200 € annui).

Sempre come ‘geolocalizzazione’, su un totale dei debiti delle amministrazioni locali di 86 miliardi e 877 milioni, al primo posto ci sono i debiti consolidati delle Città Metropolitane e dei Comuni del Centro e del Sud, al secondo le regioni … del Centro e del Sud, che hanno anche un allarmante primato: enormi debiti non consolidati, saldati nell’arco di un anno ma … anche con gli interessi e le more di un anno.

L’Autonomia legislativa e amministrativa – liberando risorse della Cassa Depositi e Prestiti a favore delle regioni ‘virtuose’ comporta un ulteriore problema: il debito contratto con le banche italiane e con la Cassa Depositi e Prestiti ammonta a qualcosa come 63 miliardi e 124 milioni, ma il 30% di questo debito spetta al Lazio (oltre 11 miliardi) e al Piemonte (circa 8 miliardi), che vanta anche quasi 2 miliardi emessi dall’estero.

Al rovescio della medaglia troviamo che l’avanzo primario delle regioni contribuisce ormai al 30% circa di quello nazionale (più che raddoppiato in dieci anni), ma anche che il residuo fiscale che lo alimenta proviene pressochè tutto da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte.

Se questi sono i dati essenziali per comprendere “chi e quanto”, vediamo come andrà a finire, dato che è cosa certa che – inizialmente – avremo “due Italie”: quella delle tre regioni ‘più autonome’ più Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia e quella che dipende in tutto e per tutto da Roma.

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In altre parole, se Roma nei prossimi mesi non si dimostrerà pronta a legiferare, regolamentare e finanziare in modo tempestivo ed accurato, il debito incrementale che ricadrà sulle regioni ‘relativamente sane’ sarà insostenibile, perchè la farragine burocratica e le risorse a tal punto contingentate faranno risalire il debito non consolidato già nel 2019.

A tal punto, la Toscana e le Marche – avendo una situazione debitoria relativamente bassa (meno del 4% e circa il 5% rispettivamente) e un buon residuo attivo fiscale (oltre 6 miliardi annui ed oltre 1,5 miliardi ) dovranno scegliere da che parte stare. 

Anche il Piemonte potrebbe essere tentato dal rendersi autonomo, se il suo PIL avesse opportunità di risalita, visto che la sua esposizione consolidata equivale all’incirca al buon avanzo fiscale vantato verso Roma (oltre 6 miliardi). Un ragionamento simile potrebbe farlo la Liguria che ha sì un residuo passivo fiscale verso Roma (circa un miliardo annuo), ma inciderebbe poco (circa 3%) sul PIL regionale come è relativamente basso il debito consolidato (circa il 4%).
Naturalmente, è tutto da destinarsi a dopo che l’Italia avrà sistemato la questione dei passanti ferroviari ed autostradali che servono all’import-export, sempre che queste due regioni non siano indotte a rendersi rapidamente autonome a causa della farragine burocratica dello Stato centrale, cioè Roma.

La Toscana è anch’essa candidata all’autonomia, avendo quasi raggiunto i parametri finanziari “utili” con un debito consolidato al 5%, pagamenti relativamente buoni e un attivo fiscale di oltre sei miliardi annui.

Umbria, Puglia, Basilicata e Abruzzo, pur più o meno ‘risanate’ (debito consolidato intorno al 5%) hanno un importante dipendenza fiscale da Roma e di conseguenza lentezza nei pagamenti che cumula debito non consolidato ed interessi: anche in questo caso maggiore farragine e lentezza capitolina potrebbero spingere verso una scelta autonomistica.

Le restanti regioni hanno un elevato residuo passivo fiscale verso lo Stato oltre a debiti consolidati spesso proibitivi e spesa corrente in ‘ritardo di pagamento‘ con altrettanti debiti non consolidati proibitivi: senza un intervento dello Stato per decine di miliardi che cartolarizzi immobili e debiti, la situazione è troppo onerosa per ottenere dei rating minimamente accettabili.

Se parliamo del Lazio – ma vale anche per le altre regioni – il debito regionale è talmente elevato che rappresenta oltre il 50% della spesa prevista, cioè è come se una carta di credito avesse un massimale di 2.000 euro ma viene bloccata non appena spesi 860 euro. Inoltre, c’è l’emorragia di Roma ed il contraccolpo del trasferimento di risorse e uffici dalla capitale ai vari capoluoghi regionali.

Nel caso della Campania il problema ‘storico’ è che al suo PIL lordo a parità di prezzi di mercato ‘mancano’ almeno 50 miliardi annui per raggiungere il pareggio fiscale: pur essendo la regione molto ricca e possa vantare una tradizione produttiva millenaria, accade che – da che Napoli ha perso la sua dimensione originaria di città-stato estesa anche alla propria Terra di Lavoro , l’impresa è strozzata e l’occupazione affossata. Ben più florida Amburgo che nessuno ha privato dell’autonomia, delle banche, della flotta e dei distretti di Mitte e Harburg. 

Se parliamo del Molise, c’è solo da recepire che Termoli/Larino, Isernia e Campobasso sono separati dall’altipiano carsico del Matese, culminante nel Monte Miletto (2.267 metri), prima vetta dell’Appennino Lucano-Calabro. Discorso molto simile andrebbe fatto nello specifico de L’Aquila, che è separata dal resto dell’Abruzzo dal Gran Sasso d’Italia (2.914 m.), dal Massiccio della Maiella (2.795 m.) e da quello del Monte Velino (2.487 m.). Sarebbero forse più economiche ed efficienti una regione montana ed un altra costiera???

Della Calabria c’è poco da dire purtroppo: le Due Sicilie avevano iniziato lo sviluppo industriale ed attratto capitali stranieri, mentre l’Italia di oggi ha del tutto rinunciato all’industrializzazione e i capitali derivanti dalle attività locali sono reinvestiti altrove. Altrettanto per la Sicilia, che si trova anche a godere di un’autonomia politica  dall’Italia, la quale – fino all’inserimento del Fiscal Compact nella Costituzione – doveva provvedere a tutte le spese approvate dall’Assemblea Regionale Siciliana, anche fuori limiti di bilancio. 

Resta la Sardegna che – in comune con la Sicilia – avrebbe molto più da offrire che Ibiza, Corfù o Cipro, avendo ampi territori interni dove sviluppare le produzioni tipiche locali da esportazione: basta pensare a quanto PIL produce Cuba con i sigari e lo zucchero da canna, oltre al turismo. E la Sardegna è già una regione italiana a statuto speciale. 

Dunque, non è una secessione, ma qualcosa di molto diverso: decentramento.

Quel Decentramento che si invoca dagli Anni 70 e mai pervenuto, ‘grazie’ al quale non trascorrerebbero diversi anni dal momento in cui il Parlamento vota una legge fino a quando la spesa corrispondente ritorna per il riscontro consuntivo.

In altre parole, andando a quello che interessa alla Politica, la farragine burocratica e l’incertezza delle risorse causate dal sovrapporsi di decenni di micro-provvedimenti clientelari comporta che gran parte degli effetti di una norma annunciata da un parlamentare si vedranno dopo molti mesi e si rendiconteranno molto probabilmente a legislatura finita, demandando opportunità e/o correttivi ai posteri e lasciando i ‘demeriti’ a chi uscente …

E non è una questione di ‘ricchezza’, la differenza la fa l’innovazione tecnologica e la trasparenza (cioè efficienza) della Pubblica Amministrazione.
Ad averle, tempi, modi e costi diventano certi, ma senza di esse lo spreco di tempo, risorse e risultati è inevitabile, come il malcontento e la decrescita.

Demata

 

Autonomia legislativa e fiscale in arrivo. E Roma?

6 Feb

Mentre la Quota 100, il Reddito di Cittadinanza e le liti con l’Unione Europea attiravano l’attenzione della pubblica opinione, il 21 Dicembre 2018 è arrivata in Consiglio dei Ministri la legge sull’autonomia legislativa e fiscale regionale ed a breve sarà pronta, come annunciava il Premier Conte  che “vogliamo trovarci, verso il 15 febbraio, a incontrare i presidenti delle regioni interessate e sottoscrivere con loro un’intesa“.

Le regioni interessate sono Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, mentre l’autonomia da Roma che otterranno riguarda di tutto: rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; professioni; ricerca scientifica e tecnologica; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; finanza pubblica e sistema tributario; beni culturali e ambientali; casse di risparmio e rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Naturalmente, parliamo di soldi. Non soltanto le tasse raccolte sul territorio, ma anche la gestione dei fondi per le imprese, gli incentivi per lo sviluppo economico, per l’occupazione, le garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari, gli aiuti all’agricoltura. Centinaia di miliardi di euro che vorrebbero sottratti ai ministeri e alla Cassa Depositi e Prestiti, cioè a Roma e … il suo PIL. 

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Scrive Il Messaggero: “il Veneto ha chiesto che una quota dei 6 miliardi di euro del Fondo rotativo a sostegno delle imprese gestito dalla Cdp, passi sotto il controllo regionale. Siccome le imprese in Veneto sono quasi il 10% di quelle italiane, significherebbe che circa 600 milioni dovrebbero uscire dalla gestione della Cassa per trasferirsi in quella di qualche finanziaria pubblica veneta. Se la stessa idea fosse sposata da Lombardia ed Emilia Romagna, lascerebbero Roma oltre 2 miliardi di euro di risorse“.

O quella dell’istruzione – a dirlo è  Enrico Panini, assessore al Bilancio, al Lavoro e alle Attività Produttive del Comune di Napoli e segretario ‘storico’ della CGIL Scuola intervistato da Orizzonte Scuola – con la previsione che “programmi scolastici, organizzazione, assunzioni e trasferimenti saranno solo locali”, cioè con stipendi diversi e insegnanti regionali per quasi 200mila cattedre, un quarto del totale del Paese. 

Il “criterio è sempre lo stesso: il numero delle imprese presenti sul territorio. Solo nel Veneto, come detto, è circa il 9 per cento del totale di quelle italiane, che sale al 36 per cento se si aggiungono le altre due Regioni.
Ad esempio, ci sono  le decine di miliardi di euro dei Fondi di garanzia per le opere pubbliche e  per le piccole e medie imprese, quelli dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura o dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare. E poi ci sono porti e aeroporti civili, produzione e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa, sistema tributario, cioè molti più soldi e posti di lavoro delle scuole e dell’agricoltura.

Ricorda Il Messaggero che “se ad una struttura ministeriale viene sottratto oltre un terzo del suo lavoro, è evidente che quella stessa struttura è destinata a disarticolarsi. Diventa inefficiente, ridondante. Con tutte le conseguenze del caso su occupazione e indotto“.

Grandi nubi all’orizzonte per la Capitale, che dovrà inventarsi attività diverse dal gestire denari e servizi altrui, come fa da 150 anni, se persino i romanissimi Gianni Alemanno e Francesco Storace del Movimento per la sovranità devono riconoscere che «il vero rischio per l’unità nazionale, e anche per il suo sviluppo economico, è continuare a disconoscere l’enorme residuo fiscale che viene versato da queste regioni allo Stato centrale».

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Dunque, l’autonomia differenziata NON si qualifica come un razzismo territoriale nell’accesso a servizi di cui tutti gli italiani hanno diritto allo stesso modo.
Accadrà ‘solo’ che il gap di servizi (asili, scuole, sanità, ambiente, commercio, produttività, trasporti) diventerà “legittimo”, cioè ‘quantificabile’ e ‘rivendicabile’ dai cittadini come da parte delle regioni più povere.

E cosa  sarà di Roma nel trovarsi a fronteggiare l’inefficienza e il degrado che ha costruito ostinatamente, senza meritocrazia e innovazione per rendersi attrattiva, privata del potere sui flussi finanziari creati dall’enorme residuo fiscale del Settentrione e costretta a garantire la perequazione tributaria destinata alle regioni meridionali ?

Demata

La Catalogna e l’eterno dilemma europeo

3 Ott

Il New York Times aveva previsto che “il 2 ottobre il president Puigdemont potrebbe dichiarare l’indipendenza della Catalogna e la Spagna interverrà manu militari e i catalani resisteranno… Mariano Rajoy passerà alla storia come uno sciocco che a forza di scalare una piccola collina l’ha fatta diventare l’Everest.”

Infatti, se Josep Maria Jové, ministro degli esteri catalano, ben aveva spiegato che “non è un problema di economia, cultura, lingua, ma democratico” e che vogliono essere “meno legati ai pregiudizi ereditati e più basati sullo sblocco delle potenzialità che ci offre il presente e il futuro”JP Morgan  sta consigliando ai propri clienti di “vendere i titoli del debito spagnolo per spostarsi con titoli in Portogallo e Germania”. “Fatelo il prima possibile, perché il movimento indipendentista catalano comincerà a fare pressione nel breve periodo e si cominceranno a vedere le perdite.” 

La chiave dell’enigma spagnolo, dell’irritazione statunitense che minaccia il trasferimento delle sue aziende e del silente attendismo europeo è presto detta: vada come vada, la ‘revuelta catalunya’ è un incipit che potrebbe contagiare tutto il Mediterraneo e l’Eurozona.

Infatti, l’agenzia Fitch ben spiega a chi vuole intendere che “la Catalogna è una regione che dipende fondamentalmente dal Fondo di Liquidità Autonomo e dagli anticipi di denaro per attendere spese immediate”, pur rappresentando il 19% del PIL spagnolo, ergo è tenuta in condizioni di assoluta sussidiareità da Madrid.

2017-10-03

Una regione che i nostri media associano alla movida, all’intrattenimento ed all’effimero, che è riuscita a riemergere nonostante la sussidiareità imposta dal Potere nazionale centrale ed è oggi un polo industriale, oltre che finanziario, con una zona franca, amministrata da un consorzio pubblico-privato costituito da circa 300 imprese di spessore ed una esemplare digitalizzazione della pubblica amministrazione, con la quale già oggi il 45% della popolazione interagisce via internet.
A proposito delle banche, quelle catalane: è vero che sono indebitate, ma una bella parte dell’esposizione è verso la Spagna e l’amministrazione spagnola … ed a portagli via le fabbriche ci sarà da capire dove trovare la manodopera, salvo deportare i catalani …

Una regione storicamente a parte – come Napoli, Istanbul, Beirut, Venezia o Bengasi, con le quali condivide una solida tradizione industriale e commerciale – che, a quasi 10 anni dal massivo arrivo dei cinesi al Pireo, inizia ad riaccedere ai flussi mercantili dall’Oriente. Se l’Italia sta ripristinando di fretta e furia i porti di Ortona e Pescara ci sarà un motivo …

Dunque, quel che accade ed accadrà a Barcellona avrà un peso anche in Campania, nel Nordest italiano, come in Turchia, Medioriente o Libia, ed è facile intuire il timore che sta serpeggiando tra i sostenitori della Stabilità a tutti i costi, cioè tra i Difensori degli equilibri costituitisi cento e passa anni fa nel Mediterraneo, grazie a veri e propri atti di rapina messi in atto da “stati-canaglia”, come li definiremmo oggi.

Ritorna in auge, insomma, la primaria questione se viviamo in un’Europa degli Stati (e delle Banche) o dei Popoli e dei Cittadini.
A seguire quella di quanto si possa andare avanti con Costituzioni, Codici di giustizia, Sistemi sanitari e previdenziali divergenti, se non l’un l’altro incompatibili. 

Intanto, in Italia, ‘grazie a Barcellona’, potremmo scoprire che “i porti italiani sono sempre più stretti tra competitori agguerriti e la loro governance in grave ritardo. 23 autorità portuali separate senza autonomia di spesa li governano con modalità barocche. Le dogane si allineano: un container proveniente dalla Cina subisce 17 controlli da 3 ministri coinvolti e deve esibire 70 documenti. Tempo necessario da noi una settimana, a Rotterdam 48 ore al massimo.”
Cioè accade come a Barcellona, dove una governance centrale farragginosa e corrotta soffoca la crescita di una città e di una regione che trainano la crescita e lo sviluppo generali.

Come andrà a finire in Spagna?
Dipende dall’Europa: in caso di ‘autonomia’ valgono le stesse regole di Brexit e tutti i trattati restano vigenti fino ad esplicita disdetta o variazione?
Oppure, l’Europa intende considerare i Catalani come fossero degli ammutinati contro la Reale Corona di Spagna?

Demata

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Mario Monti, finalmente Supermario?

24 Lug

Domenica scorsa, Eugenio Scalfari, che per mesi aveva difeso a spada tratta il Governo Monti e la legislatura corrente contro pressappochismi e qualunquisti vari, in nome dello Spread e della Mitteleuropa, annunciava la necessità di terminare questo parlamento ed andare ad elezioni anticipate con una coalizione ‘montiana’ tra ‘Sinistra Democratica’ ed UDC, PdL e FLì … … …

Oggi, da Mosca, le agenzie battono la risposta di Mario Monti e, finalmente, assistiamo ad un ‘atto politico’ da parte del nostro Premier, che ci permette di capire – leggendo tra le righe – sia quali siano i suoi effettivi punti di vista, rispetto la crisi dell’Eurozona, sia quanti ‘piedi in due scarpe’ sia costretto a tenere dai partiti della ‘sua’ maggioranza e dai veti incrociati.

E così scopriamo che Mario Monti è tutt’altro che d’accordo con Angela Merkel e con la Deutsche Bank di Ackermann, che l’Italia non sta messa così male come sbraitano i media, che il suo è un governo tecnico, che a lui tocca salvare la ‘cassa’ e che la riforma della Casta e della PA compete al Parlamento, cioè ai partiti.

Era ora.

Mi hanno chiesto di assicurare la gestione del Paese fino alla primavera del 2013. A fine del mio mandato di premier io rimarrò, come lo sono adesso, un senatore a vita“.

Oggi ho il potere diretto dello Stato, rafforzato dalle leve predisposte dalla Costituzione.
Tenendo conto che non avevo mai desiderato tale potere, lo valuto come una possibilità unica di provare a cambiare la realtà politica, economica, sociale, spirituale, avendo a disposizione per questo delle leve potenti. Questo è al contempo il potere, ma anche un’enorme responsabilità“.

Il nostro paese si basa su fondamenta solide. E’ vero che abbiamo il debito estero più alto, è vero, altresì, che il livello dei debiti privati dei cittadini è uno dei più bassi in Europa, grazie ai risparmi accumulati nei decenni dalle famiglie italiane“.

La colpa non è dell’Italia, ma delle incertezze sullo scudo dell’Ue. E’ ovvio che c’è grande nervosismo sui mercati ma per motivi che hanno poco a che vedere con problemi specifici dell’Italia ma piuttosto con notizie, dichiarazioni o indiscrezioni sull’applicazione delle decisioni del Consiglio Ue“.

Ho avuto l’occasione di lavorare nella Commissione europea e in questo senso ho dei vantaggi.
Conosco abbastanza bene gli affari europei, ma il mio difetto è quello di essere un principiante in qualità del capo di un governo nazionale e non sono così esperto nelle questioni che riguardano la gestione politica“.

Pongo molta speranza e  auspico che in quel momento i partiti politici sappiano assumersi tutta la responsabilità.
Speriamo che una buona legislazione elettorale possa facilitare la vita politica“.

Prendiamo atto, dunque, che da oggi abbiamo un capo di governo a tutto tondo, capace anche di esprimere dissenso e disappunto verso le azioni politiche altrui.

Capace anche di prendere il toro per le corna come si chiedeva da tempo?  Che sia finalmente arrivata l’ora di Supermario, il tecnico ‘ammazzacattivi’ del videogame della Nintendo?

originale postato su demata

Scalfari, il PD ed il v(u)oto anticipato

23 Lug

Son trascorsi pochi giorni o settimane da quando Eugenio Scalfari, nei suoi domenicali, difendeva a spada tratta il Governo Monti e la legislatura corrente contro pressappochismi e qualunquisti vari, in nome dello Spread e della Mitteleuropa, e da quando Antonio Polito, in un editoriale, annunciava vittoria su un’adombrata lobby che mirava alle elezioni anticipate ed al ritorno al passato.

In effetti, a leggere giornali e ad ascoltare le dichairazioni di ‘leader’ di partito, nulla in quai giorni lasciava adombrare tutto questo, ovvero la necessità di un Monti bis o delle elezioni, se non qualche tentennamento di Pier Ferdinando Casini e le critiche di questo (e pochi altri) blog.

Al di la di quanto NON sono riusciti a raccontare i nostri media, andiamo a constatare che le crepe in questa maggioranza ed i dubbi sulla ‘cura che amamzza il cavallo’ erano esistenti e consistenti: fatto sta che Eugenio Scalfari, nel suo domenicale, se ne venga fuori con frasi eloquenti, quanto sorprendenti.

Il colloquio con il Quirinale (ndr. dell’altro ieri) aveva tutt’altro tema; un tema che Monti sta rimuginando da tempo e che al punto in cui siamo riteneva indispensabile sottoporre al capo dello Stato: l’eventuale anticipo delle elezioni entro il prossimo ottobre anziché attendere l’aprile del 2013 come finora si pensava e come i tre partiti della “strana maggioranza” si erano impegnati a garantire. Non crisi pilotata, dunque, ma scioglimento delle Camere e nuove elezioni.


Perchè mai questo parlamento dovrebbe voler approvare una legge elettorale per poi essere sciolto è un mistero, visto che sono sette anni – dai tempi del Prodi bis – che sussite il problema, che non riguarda solo il numero degli eletti e come sceglierli, ma anche l’ammissibilità dei pregiudicati, la formazione delle liste, l’effetto delle alleanze, i premi ed gli sbarramenti.

A partire dalla ripresa settembrina i partiti entreranno di fatto in campagna elettorale; le distanze e le crepe all’interno della strana maggioranza aumenteranno per ovvie ragioni elettorali e le forze d’opposizione a loro volta accresceranno i toni per convogliare i voti dei ceti che sopportano i maggiori sacrifici della politica di rigore. Insomma, l’atmosfera peggiorerà e l’azione di governo rischierà di risultare paralizzata, come in parte sta già avvenendo. I mercati ne approfitteranno spargendo sul fuoco politico il loro olio ribassista.”

Ma questo lo sapevamo già, egregio dottor Scalfari, dall’anno scorso, da prima o durante l’insediamento di Mario Monti. Forse è per questa incombenza che l’azione del governo ha sorpreso (deluso) tanti: tutto preso dai salvataggi della Cassa Depositi e Prestiti, di Finmeccanica, di Unicredit e degli altri orticelli della finanza italiana, Supermario s’è dimenticato (o ha tralasciato) la ‘politica’, ovvero la sua funzione di Presidente del Consiglio di una strana, provvisoria e grosse koalition da ristrutturare al più presto.

Che cosa pensi Napolitano su quest’argomento è impossibile dirlo, ma un punto è chiaro: il calendario è strettissimo. Se si decidesse di votare entro la fine di ottobre bisognerebbe sciogliere le Camere nella seconda metà di settembre. Prima di allora occorre che il Parlamento approvi una nuova legge elettorale perché andare a votare con questa è escluso“.

Eh già, il calendario è strettissimo … ma guarda un po’ …

La decisione naturalmente spetta al presidente della Repubblica al quale la Costituzione conferisce il potere di scioglimento anticipato della legislatura. Dice esattamente così la Costituzione e non mette alcun paletto a questa prerogativa presidenziale. Naturalmente non sarebbe certo uno scioglimento determinato dal cattivo esito della politica di Monti. Al contrario: proverrebbe da una valutazione positiva dell’operato del governo e dai suoi dieci mesi di attività.

Per l’amor di Dio, “non sarebbe certo uno scioglimento determinato dal cattivo esito della politica di Monti” e cosa mai allora, visto che Supermario poteva assumere un incarico puramente tecnico e temporizzato, con ben altri scopi, metodi ed esiti?

È possibile che un partito come il Pd proponga ai suoi elettori un’alleanza politica che attui il programma economico montiano ed abbia come alleato il partito di Berlusconi? La risposta è sicuramente no.Il tema di oggi è un altro e si risolve con un’alleanza della sinistra democratica con un centro liberale per proseguire il montismo dando spazio allo sviluppo e all’equità, naturalmente nel quadro europeo”, che “ha come obiettivo finale la nascita di uno Stato federale al quale gli Stati nazionali cedano una parte della loro sovranità, soprattutto per quanto riguarda la politica di bilancio e quindi il fisco, la spesa, la politica dell’immigrazione, le grandi opere infrastrutturali europee, i diritti e i doveri di cittadinanza. In questo quadro, la Germania ha un ruolo di grande rilievo.”

L’Europa del partito unico e della cleptocrazia, come tanti tedeschi (almeno il 30% tra Grunen, Linke e Piraten) lamentano riguardo la ‘Grosse Koalition” (si traduce Ammucchiata) che sostiene Angela Merkel?

Una parte notevole dei votanti per il Pd e del bacino potenziale ha la fisionomia di quella che un tempo si chiamava sinistra democratica. La sinistra democratica può essere disponibile ad allearsi con partiti d’ispirazione liberale, non certo con il partito proprietario berlusconiano. In esso i veri liberali non mancano. Si facciano avanti“.

Un Partito Democratico alleato dell’UDC di Cesa e Casini, del PdL di Alfano, Giovannardi e Pisanu, di FLi di Gianfranco Fini? Ma questo è un partito, un’alleanza di centrodestra, mica di ‘sinistra democratica’.

L’attacco in corso contro il presidente della Repubblica persegue un fine di destabilizzazione al tempo stesso istituzionale e politico. Vuole colpire Napolitano e indebolire Monti. … Qual è dunque l’accusa? Non c’è, è inventata, è una manipolazione di marca eversiva. Il tema è di capire se il ricorso – necessario – di Napolitano alla Corte impedisca l’accertamento della verità sulla morte di Borsellino. Un accertamento che non ha e non può avere come obiettivo la cosiddetta verità storica, ma la verità che riguarda i reati, quali reati e commessi da chi. Finora e da vent’anni questa verità non è stata accertata o lo è stata in modo drammaticamente sbagliato.

Finalmente, ci si pone il dubbio “se il ricorso – necessario – di Napolitano alla Corte impedisca l’accertamento della verità sulla morte di Borsellino”, ovvero se la trattativa con la Mafia – che non sarebbe di per se reato, incredibile ma vero – non abbia comportato, nella volontà di alcuni o come mera conseguenza, l’occultamento della verità.
Eppure, contestualmente, si rinuncia a lanciare il ‘sasso nello stagno’, paventando “un fine di destabilizzazione al tempo stesso istituzionale e politico“.

Se qualcuno si stava chiedendo quale abisso della politica ci dovesse attendere andando alle elezioni anticipate, eccone un preciso esempio.  Tra l’altro, i tempi non sono ‘strettissimi’, come solo adesso si sta accorgendo la vetusta intellighentzia italiana.

Anzi, a dire il vero i tempi sono ‘over’, la riforma della politica andava conclusa in primavera, lo si scrive da tempo. Adesso è troppo tardi per ripristinare un minimo di consenso diffuso e ricompattare ‘ideologie ed alleanze’ in vista di ottobre, mentre le prevedibilissime turbolenze finanziarie sconsigliano vivamente di votare tra novembre e gennaio.

La frittata, egregio dottor Scalfari, è fatta, anzi l’avete fatta.

Adesso, abbiate almeno il senso di responsabilità di prendere il toro per le corna e riformare Casta ed Amministrazioni locali nei due o tre mesi che ci restano, magari scopiazzando da Hollande una patrimoniale ‘patriottica’ sui redditi e collegandola a provvedimenti di riduzione della pressione fiscale a partire dal 2013, mentre la BCE di Draghi e la Deutsche Bank – finalmente libearatasi di Ackermann – si decidono a creare un’unione bancaria europea e por fine a questa mattanza.

Il voto? A febbraio o marzo, si spera. Non è con PD-UDC-PdL ‘contro tutti’ che si esce da questa situazione, la Grecia ed i suoi governi evanescenti dovrebbero  – almeno questo – avercelo insegnato.

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I furbetti del Settentrione

20 Lug

Uno dei tormentoni della settimana è consistito nel ‘default siciliano’ e nella stigmatizzazione dell’obsoleto modo di far politica di una certa classe di ‘notabili’, con il Presidente Lombardo in prima fila. Questa, almeno, la ‘linea del Governo’ e, conseguentemente, la ‘linea editoriale’ dei nostri media.

Una classe politica puntualemente descritta come inerte, populista e sprecona, circondata dai faccendieri, sostenuta da un esercito di sussidiati, eventualmente collusa con la mafia. Probabilmente, le cose stanno più o meno così, anche se sarebbe preferibile parlare di responsabilità individuali – e non di fare di tutta un’erba un fascio – visto che di siciliani onesti ed intraprendenti ce ne sono a bizeffe e visto in che stato Giulio Tremonti ha lasciato la Cassa Depositi e Prestiti, ovvero il cash delle nostre pensioni.

Daje addosso al meridionale, daje daje? Ancora una vota, sembra davvero così.

Il punto è che le cose non stanno solo così in Sicilia, ma anche in tutto il Meridione, nel Lazio e nel Molise, dove è solo la scarsa autonomia data alle Regioni che ha finora evitato l’implosione delle finanze e dei servizi: non dimentichiamo la crisi della Sanità o l’enorme situazione di precariato che affligge l’Italia a sud di Orte.

Un quadro del tutto analogo si presenta guardando al Settentrione, un quadro per certi versi ancor più fosco.

Iniziamo con il Piemonte, ricordando che oggi la FIAT, da quelle parti, si marchia JEEP, un salvataggio spericolato del mastodonte di Mirafiori che non è stato neanche tentato per Termini Imerese. Ma non solo.

A Novara, con il denaro pubblico, si edifica la fabbrica dei cacciabombardieri F-35, che diventerà il ‘core’ di Alenia, l’azienda nata dalla fusione e dal traasferimento di Aeritalia e Selenia, che 30 anni fa erano dislocate a Napoli e costituivano i gioielli di famiglia delle aziende di Stato italiane.  Un caso eclatante di de-sviluppo di Napoli e della Campania, che ripete quanto avviatosi col ricollocamento delle Cartiere Abete nelle Marche, intorno al 1880, e conclusosi con il recente trasferimento del Centro Ricerche della Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco a Detroit.

Dulcis in fundo, la Compagnia di San Paolo – e conseguentemente Intesa Sanpaolo – che deve la sua fortuna alle capitalizzazioni ed alle acquisizioni dei ‘beni dei vinti’ di 150 anni fa. Un caso per certi versi analogo a quello sollevato dagli Ebrei contro certe banche svizzere, per i capitali a loro sottratti durante e dopo la II Guerra Mondiale.

Dell’Emilia Romagna, che dire?
Bologna ed Imola sarebbero già fallite se non lucrassero ampiamente sul trattamento dell’immondizia napoletana? E della miriade di capannoni, non sempre ben messi e spesso finanziati con denaro pubblico, che abbiamo scoperto esistere, più o meno utilmente, con i recenti terremoti? O ancora del trasporto su gomma, la cui fine, oltre a migliorare l’ambiente e rilanciare Napoli, Civitavecchia, Bari e Palermo, renderebbe inutile la Via Salaria e l’apparato logistico padano, come è stato per più di un millennio? Per non parlare del noto settore agroalimentare (Coop, Barilla e Parmalat tanto per fare qualche esempio), che, in trent’anni, si è avvantaggiato dal puntuale affossamento della Cirio, dalla poca autonomia del Banco di Napoli, dei contributi UE al Sud per distruggere le produzioni (sic!).

Andando al Veneto come non notare l’enorme quantità di vini DOC e DOCG, praticamente uno per ogni colle, oppure la frammentazione del tessuto produttivo, che lascerebbe credere che chi è nato da quelle parti – salvo casi di grave sfortuna – stia lì a far l’imprenditore e che il lavoro ‘vero’ lo facciano tutto gli immigrati, meridionali, africani o slavi fa lo stesso.
E dell’evasione fiscale cosa ne possiamo dire, considerando che – per prossimità alle frontiere, parcellizzazione delle infrastrutture, forte presenza migratoria, vicinioreità culturale con il bacino germanico e slavo – stiamo parlando di un territorio ‘statisticamente’ a rischio?

Resta la Lombardia, quella del San Raffaele e delle filiali della ndrangheta, di Lele Mora, della Minetti e di Dell’Utri, di Formigoni, di Penati e della famiglia Bossi e del quella della Bocconi di Mario Monti e della Cattolica del Policlinico Gemelli.
Non più quella di Montanelli, Craxi ed Epaminonda, tre mondi che seppero restare contigui, ma l’un l’altro impermeabili.
Una regione dove sarebbe bello capire come produca le proprie risorse, visto che, a consultare l’ISTAT, ci ritroviamo con una miriade di piccoli centri che ‘dichiarano’ un PIL spropositato rispetto al numero di abitanti ed alle risorse in loco. Lavoro nero? Speculazioni finanziarie? Attività ‘sommerse’? Cos’altro?

Dunque, prendiamo atto che siamo un paese di ‘furbetti’ o, meglio, un paese dove i ‘furbetti’ hanno l’opportunità di fare i comodi propri. Un esercito di ‘notabili’, a quanto si vede, che altro non hanno fatto, in vita loro, che stare in politica, ovvero governarci, e che, con questi risultati, restano lì indefessi

Quello del ‘default della Sicilia’ appare, dunque, come un atto per certi versi dovuto che, però, fornisce un esito essenzialmente politico, che – attenzione – non viene esteso a tutti gli altri apparati pubblici ‘fuori bilancio’.
Un intervento molto ‘ambizioso’ e piuttosto spericolato, considerato che anche altre regioni sono in condizioni meno drastiche, ma tendenzialmente simili, e che è un ‘tecnico’ ed un senatore a vita, Mario Monti, a porre la questione.

Altro sarebbe (stato) se si fosse affrontata per tempo la riforma del sistema politico e delle competenze condivise, il cui fulcro è (era) nella legge elettorale e nell’abrogazione delle Province.

Il Partito Democratico e l’UDC auspicano un proseguimento della ‘linea Monti’ anche dopo il 2012, mentre Berlusconi ha ormai chiarito che ‘quando si candida intende scherzare’: non dovrebbero esserci intralci, dunque, per un uomo competente e determinato nel prendere il toro per le corna e riformare Casta ed Amministrazioni locali nei due mesi che ci restano, magari scopiazzando da Hollande una patrimoniale ‘patriottica’ sui redditi, collegandola a provvedimenti di riduzione della pressione fiscale a partire dal 2013.

In caso contrario, non resterà che constatare che di furbetti, nel Settentrione liberale, socialista e giansenista, ce ne sono davvero tanti. Forse troppi.

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La Sicilia, Lombardo, il crack e la marijuana

17 Lug

Posso capire il parossimo di chi pensava di ‘salvare l’Italia’ e si ritrova con amici e colleghi – Fondo Monetario Internazionale, Agenzie di Rating e Jet Set – che di giorno in giorno diventano sempre più dubbiosi, talvolta caustici, puntualmente drastici.

Ma leggere le news e scoprire che la Sicilia è a rischio crack, che Monti è in pressing e che ‘pretenda’ che «Lombardo confermi le dimissioni» è davvero un qualcosa di inaspettato.

Il buco è da 5 miliardi di euro, come certificato dalla Corte dei Conti.

La soluzione del Governo Monti? Gestire tramite un Commissario Governativo la Sicilia, quella insorta con i Forconi ed i blocchi stradali tempo fa, quella super-astensionista alle ultime amministrative, quella con decine di migliaia di precari semisussidiati dalla regione.

Praticamente gettare benzina sul fuoco. Specialmente, se questo accade mentre tra il Presidente della Repubblica e la Procura Antimafia di Palermo sussiste un conflitto costituzionale.

Anche perchè il bilancio della Regione Sicilia è “reso non trasparente da poste dubbie e residui inesigibili”, ovvero da contributi statali ed europei. Mai pervenuti o mai esistiti resta ancora da chiarire e farebbe una certa differenza.

“Tanti crediti inesigibili, i famosi residui attivi, sui quali si regge il bilancio. Penso ai famigerati cantieri di lavoro che hanno dato una mancia a 20 mila persone per un mese o due. La Regione anticipava i soldi iscrivendo a bilancio un credito verso i fondi Fas, fondi che non ci sono più e che non avrà mai”.

A denunciarlo è il numero due di Confindustria, Ivan Lo Bello, una vita nella lotta al racket e alla corruzione, che tiene a ricordare come “il problema non è solo Lombardo. C’è un pezzo della società siciliana che non ha colto i segnali. Il paradosso riguarda direttamente i ventimila dipendenti regionali. Nessuno di loro si rende conto del rischio che corrono. Come i pensionati della Regione pagati qui direttamente”.

“La Sicilia rischia di diventare la Grecia del Paese e il Paese deve intervenire anche superando gli ostacoli di una Autonomia concessa nel dopoguerra”.

Più chiaro di così non si poteva, ma  nessuno dice se la Sicilia riceverà comunque gli aiuti finanziari che le sono indispensabili, se ci saranno come atteso licenziamenti e mobilità, se la Mafia starà a guardare …

Intanto, dalla Sicilia arrivano le prime reazioni.

Francesco Cascio, presidente dell’Assemblea della Regione Sicilia, parla di “forma inusuale e anomala” e precisa che “faremo in modo di acquisire le motivazioni quanto prima possibile”.
Per Carmelo Briguglio, vice presidente dei deputati e coordinatore siciliano di Fli, la lettera del presidente del Consiglio è “una gaffe istituzionale” ed è “irrituale”, oltre a violare “le regole fondamentali dell’autonomia regionale e della democrazia politica”.
L’assessore regionale all’Economia della Sicilia, Gaetano Armao, replica seccamente che “in Sicilia non c’è alcun rischio default”.

Se son rose fioriranno, ma chi semina vento raccoglie tempesta …

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La Lega e la democrazia interna

14 Gen

Il caso Maroni-Lega ripropone la questione inerente la democrazia interna dei partiti.

Infatti, mentre tra i Lumbàrd  continuano le proteste per il no all’arresto dell’on. Cosentino, il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, “ha sospeso tutti gli incontri pubblici dell’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni. Secondo l’agenzia Tmnews, la decisione è stata comunicata oggi al consiglio direttivo della Lega che si è riunito in Bellerio.” (fonte Repubblica)

Un caso gravissimo – parliamo del “numero due” del Partito e dell’ex-ministro degli interni – che va ad assommarsi alla recente lotta senza quartiere per l’elezione del nuovo segretario della Lega a Varese, dove la base elesse Marco Pinti e Bossi impose Maurilio Canton.

E non parliamo solo della Lega, ma anche del Popolo delle Libertà, allorchè Fini ed altri, prima di fuoriuscire e, peggio, essere espulsi, divennero una scomoda minoranza interna.

O, anche, dell’Italia dei Valori e la gestione autocratica del “dominus” Di Pietro, fortemente contestata da personaggi del calibro di Giulietto Chiesa e Paolo Flores D’Arcais.

Per finire al Partito Democratico, che, ricordiamolo, a Torino, Napoli e Bari ha visto i candidati “di partito” fortemente contestati, se non rifiutati, dalla base.

Se, in termini generali, l’urgenza di una legge elettorale “diversa” è impellente, ritornando alla Lega che sembra il caso più serio ed ormai palesemente manifesto, va ricordato che un partito che non garantisce la democrazia interna non può sedere in Parlamento e che sarebbe ora che qualcuno, nella Milano “capitale morale”, aprisse un’indagine.

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PD a San Giovanni: una manifestazione pacifica

6 Nov

A due settimane dalla guerriglia dei Blck Bloc, Piazza San Giovanni è tornata a riempirsi di gente, il popolo del PD, dimostrando che si può manifestare per ore anche senza sfilare in corteo, come il sindaco Alemanno aveva imposto.

Un primo ed evidente dato che dovrebbe convincere anche i non pochi politici del PD accorsi, 24 ore prima, in soccorso di 500 studenti romani, bloccati dalla polizia per un corteo non autorizzato.

Speriamo che questo sia l’inizio d una riflessione e di una moratoria generalizzata sulla necessità (in un mondo di 7 miliardi di persone, di manifestare la propria opinione senza turbare l’attività di quei cittadini che la pensano diversamente.
A prescindere da vandalismi e violenze, bloccare strade, treni, ambulanze, persone al lavoro non è più tollerabile: i danni per la società intera sono troppo elevati rispetto al “diritto” (presunto) di una limitata parte dei cittadini di sfilare nelle zone strategiche delle nostre metropoli per ore ed ore.

La Costituzione garantisce lo sciopero, la libertà di riunione, il diritto d’opinione, cose che non richiedono necessariamente sfilare in corteo, che dovrebbe rimanere un evento straordinario, rispetto ad un’ordinarietà fatta di incontri pubblici, di scambi d’opinioni, di resistenza eventualmente passiva (lo sciopero).

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