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Donbass: una guerra per l’energia in 7 grafici (commentati)

3 Ott

Era il 9 dicembre 2019, quando si incontravano a Parigi Zelenski e Putin, per discutere di pace, con la mediazione del presidente francese Emmanuel Macron e della cancelliera tedesca Angela Merkel.
Si arrivava così al cessate il fuoco permanente, completamento dello scambio dei prigionieri, sminamento, apertura di nuovi varchi per i civili lungo la Linea di controllo, arretramento dei militari e dei loro armamenti da altre tre zone
È disgelo, ma non ancora pace”, titolava il giorno dopo Le Figaro, se Putin continuava a confermare tutta la sua arroganza e – dall’altro lato – “a Kiev i dimostranti in piazza lo tenevano d’occhio, per assicurarsi che non concedesse niente ai russi. E quando, qualche settimana prima del vertice, Zelenskiy ha accettato la cosiddetta Formula Steinmeier (una revisione degli Accordi di pace di Minsk, elenco dei passi da compiere per stabilizzare il Donbass), i nazionalisti radicali ucraini lo hanno chiamato traditore.” (fonte ISPI)

Veniva anche previsto un nuovo incontro – a Berlino in primavera – per i nodi più importanti da sciogliere: restituzione all’Ucraina del controllo dei confini, elezioni locali e status futuro delle regioni separatiste, i termini di una reintegrazione del Donbass in Ucraina. 
Poi la pandemia e non se ne è fatto più nulla.

Così la Russia restava convinta di una minaccia ai suoi confini (e stiamo toccando con mano l’efficienza delle forze ucraine), quando un anno fa – il 31 ottobre 2021 – si concludeva il G20 di Roma con l’accordo sulla decarbonizzazione e l’avvio della transizione ecologica con l’obiettivo emissioni zero “entro o intorno a metà secolo”.

Una pessima notizia per i produttori di petrolio, anche se alcuni (USA e Cina) hanno un forte mercato interno che avrebbe consentito una transizione ‘soft’ e altri tre (Russia, Arabia Saudita, EAU) che – essendone privi – si trovavano alle porte di una recessione ultradecennale, specialmente per la Russia che ha un esercito mastodontico e in territorio enorme con 170 milioni di persone, che i paesi arabi non hanno e non devono sostenere.

Per il gas, invece, c’è una situazione diversa, dato che c’è ha un impatto molto minore del petrolio o del carbone, le emissioni sono più controllabili e filtrabili, solo un produttore – le repubbliche ex sovietiche controllate dalla Russia – è egemone ma comunque non è monopolista e c’è chi ancora lo considera una forma di energia ‘rinnovabile’, come scopriremo alla fine del post.

Pochi lo ricordano, ma venti anni fa la contesa Ucraina-Russia iniziò con la questione dei gasdotti che proprio nel Donbass e dintorni smistano verso l’Europa il gas russo e per l’esercito sovradimensionato ex Patto di Varsavia, che era lì a protezione dei confini … russi verso la Nato.

E durante la pandemia e tutti i guai che ha portato, con Zelenski alle prese con le tensioni interne nazionali e vista la dipendenza europea dal gas russo, non è stato difficile per Putin immaginare di riprendersi gasdotti, porti e fabbriche di avionica tramite una ‘liberazione del Don orientale’, cioè aggiungendo il “Donbass Stream Hub” al Nord Stream 1-2 e South Stream, con l’intento di diventare monopolista energetico verso l’Unione Europea dopo esserlo già verso la Cina.

Una tendenza che gravava diversamente sulle nazioni europee, se prive o meno di grandi porti sull’Atlantico, come vediamo nella mappa, e che solo la Germania (da tempo) aveva sterilizzato portando i fabbisogni di gas per la produzione elettrica sotto il 10%.

La Germania, dunque, dipende da risorse estere solo per il 16% nel caso del gas per la produzione di energia elettrica. Naturalmente il bilancio è diverso nel caso del gas per uso domestico, ma tanto vale ancora di più per le altre nazioni europee.
Ma è anche una Germania che dipende per circa il 20% della produzione elettrica dalla Cina, dato che il fotovoltaico è per la maggior parte prodotto lì. Tanto per comprendere le profonde cause dell’attenzione statunitense verso … Formosa.

E, come vediamo dal grafico, il bilancio energetico italiano è drammaticamente diverso da quello tedesco (e francese o olandese): dipendiamo dalle importazioni per circa il 75% a causa della storica (fin dai Savoia) incapacità geopolitica a sfruttare i giacimenti condivisibili con nazioni partner nel Mediterraneo, oltre che nei ritardi nell’innovazione generale e nella diffusione del fotovoltaico.

Ritardi a loro volta dovuti sia alla limitata formazione e dotazione di personale tecnico che c’è in generale in Italia sia all’incapacità delle Amministrazioni competenti (Regioni) di programmare oltre la mera sussistenza sia per lo storico rapporto esistente tra una parte del panorama politico-culturale italiano e la Russia.

Dunque, finora i dati ci hanno raccontano quali interessi muovono le alleanze (o le crisi) tra i 5 principali attori energetici mondiali e quali sia il diverso impatto sulle economie europee delle contro-sanzioni russe.

E, forse, questo accade perchè – mentre trascorrevano anni per arrivare al Protocollo di Roma per la decarbonizzazione – l’astrofisica ha confermato che gli idrocarburi potrebbero essere inesauribili, se esistono non solo su Marte e gli altri pianeti esterni del sistema solare, ma anche sulle comete Halley e Hyakutake, nella polvere cosmica, nelle nebulose e nel gas interstellare.
Già nel 2004, la Missione Cassini-Huygens (NASA ed ESA) aveva confermato l’esistenza di abbondanti idrocarburi (metano ed etano) su Titano, un satellite (luna) di Saturno come precedentemente suggerito dall’astrofisico Thomas Gold.

In altre parole gli idrocarburi gassosi potrebbero avere ‘origine abiotica’ anche sulla Terra, cioè provenire dalle sue viscere contaminandosi con batteri nell’attraversare la crosta terrestre ed … essere inesauribili.

Intanto, l’impatto ambientale delle nuove tecnologie per arrivare alla decarbonizzazione è incalcolabile, ma certamente pesante, come lo sarà quello della transizione ‘elettrica’ su economia e consumi, cioè sicurezza, pace, povertà eccetera.
Viceversa, l’impatto ambientale, economico e sociale degli idrocarburi sono ben noti, sappiamo che sarebbero ancor più contenibili con tecnologie ibride e politiche ‘a chilometro zero’ e di gas ce ne è davvero tanto. Anche senza la Russia.

E siamo tutti in attesa della ‘fusione nucleare pulita’ in corso di sviluppo in Francia sulla base di scoperte italiane e che risolverebbe all’origine la fornitura di energia industriale e domestica.

E il petrolio?
Gli USA dipendono dall’Arabia Saudita, tanto quanto la Cina dipende dalla Russia e le ex repubbliche sovietiche.

E da questo derivano i rischi di una terza guerra mondiale.
Specialmente se l’Unione Europea non individuerà una road map ed un mediatore (Mario Draghi?) per convincere i due presidenti a sedersi ad un tavolo: prima della pace ci sono gli armistizi, che a loro volta vengono predisposti mentre la guerra è ancora in corso.

Dopo Sarajevo e Danzica, facciamo che la Storia europea non si ripeta nel Donbass.

Purtroppo, i referendum svoltisi in Donbass somigliano molto a tanti altri che hanno legittimato annessioni e unificazioni negli ultimi 180 anni, con corrispettiva nascita di forme di anti-Stato ancora oggi persistenti. Non vanno legittimati nè per quel che rappresentano oggi nè per quel che comporteranno in futuro.

Ma non perseguire almeno un armistizio, almeno per mettere in sicurezza le centrali nucleari e le popolazioni, come per consentire l’intervento internazionale ed accertare crimini e deportazioni, creando le premesse per una ‘restituzione’ dei territori, oltre ad essere poco giustificabile è proprio il fattore che fa espandere i conflitti.

Demata

Isis, la cospirazione

6 Apr

2011 – Obama anticipa il ritiro delle forze USA in Iraq e l’ultimo battaglione attraversa (18 dicembre) la frontiera con il Kuwait. Più o meno contemporaneamente, promette di ‘isolare il brutale regime di Assad in Siria’.
Intanto, mentre la guerra civile scoppia in Siria dopo l’eccidio di 37 soldati governativi ad Homs, diverse organizzazioni ‘caritatevoli’ (fondazioni) del Golfo Persico finanziano i gruppi di opposizione ad Assad islamisti, in particolare alla nascente Isis.

Tra le banche più attive nei finanziamenti figura in primis l’Al Rajhi Bank, istituto finanziario saudita che da sempre finanzia i gruppi jihadisti, ma anche la Al Shamal Islamic Bank, co-fondata da Osama Bin Laden e principale finanziatrice del gruppo terroristico di Al-Qaeda. La National Commercial Bank invece avrebbe donato una parte dei profitti bancari sotto forma di zakat, ovvero come un atto di «carità» a numerose organizzazioni terroristiche. Il ministro dello Sviluppo tedesco, Gerd Muller, ha persino accusato Al-Thani, l’Emiro del Qatar, di essere il principale finanziatore dell’Isis.

In Turchia, due pubblici ministeri hanno indagato su quattro camion pieni di parti di missili, munizioni e mortai semi-assemblati consegnati in Siria ai ribelli  di Al-Nusra, la milizia siriana di Al-Qaeda.

L’Iraq – mentre gli eserciti occidentali si ritirano – cade in una grave situazione di instabilità interna, caratterizzata da un notevole incremento della violenza ed un susseguirsi di attentati da parte di milizie jihadiste ben organizzate da ex militari del regime di Saddam, con circa 10.000 morti l’anno e le forze di sicurezza estromesse da molte aree a maggioranza sunnita, come dal Kurdistan (autonomo) e dal Sud del paese (milizie scite).

 

2014 – ISIS conquista Mosul, la seconda città dell’Iraq. Nell’operazione, oltre ad ingenti armamenti dell’esercito irakeno,  i terroristi si impossessano dell’intera riserva aurea del ricco Kurdistan, per un valore di circa 500 milioni di dollari. Inoltre, a parte il controllo totale su merci, acqua e viabilità da Aleppo a Falluja, il gruppo terrorista ha ormai conquistato diversi giacimenti minerari e, soprattutto, di petrolio (circa sessanta pozzi) con una produzione si aggira intorno ai 25mila e i 50mila barili al giorno, mentre i giacimenti petroliferi non ancora conquistati pagherebbero una sorta di «pizzo» all’Isis.

Da allora, dal contrabbando di greggio entrano nelle casse del Califfato due milioni di dollari al giorno, quasi ottocento milioni l’anno. Ed in Iraq, più di  ogni altro stato produttore di petrolio, esiste da sempre – fin dalle prime sanzioni contro Saddam Hussein d quasi 30 anni fa – un florido mercato nero del petrolio tramite gli stati confinanti (Siria /Libano, Iran, Turchia) grazie a contrabbandieri (tribù) locali che ne fanno perdere le tracce. Ankara ammette che i sequestri di petrolio illegale in Turchia sono aumentati del 300% dal 2011, e si tratta solo della punta dell’iceberg.

Poi, a parte i proventi derivanti da sequestri di persona o dai reperti archeologici, ci sono le derrate alimentari, gli elettrodomestici e gli utensili da lavoro  a fronte di capillare tassazione (estorsione) a carico di una popolazione di otto milioni di persone.

2016 – Trovando difficile accettare che il ritiro dall’Irak voluto da Obama in nome della ‘pace tra i popoli’ si sia rivelato un disastro globale e che l’ennesima imposizione di un regime democratico (in Siria) abbia provocato una irrisolvibile guerra civile (come precedentemente in Francia con la rivoluzione o in Usa tra Unionisti e Confederati), anche per Isis è di moda ipotizzare ‘cospirazioni’ amerikane o sioniste, anche se quel che si prospetta è, caso mai, il redivivo intervento dei ‘crociati’ anglofrancesi sulle coste (e nelle retrovie) del Medio Oriente e, si spera, l’avvio di un dibattito generale sull’Islam e sulla sua coabitazione con altre culture, specie se diverse dal cattolicesimo.

Poco male … spulciando i libri di storia, gli appassionati di iperboli politiche finiranno prima o poi e comunque per scoprire che … i ‘cattivi’ non siamo noi: le Crociate del Medioevo furono in prima causa determinate dal blocco commerciale e dal ‘pizzo’ che gli Arabi (riformando il sistema tributario secondo la Sharia) avevano attuato impadronendosi del Medio Oriente, da cui andavano e venivano le merci tra Europa e Indie. E, 300 anni dopo, la spinta verso le Americhe fu dovuta alla medesima esigenza di aggirare questo blocco, dopo che Marco Polo ed altri avevano tentato la via di terra verso Oriente.
Ed, oggi come ieri, sono gli invasori arabi – mica europei – il problema quotidiano di curdi, yazidi, palestinesi, ebrei, siriani, libanesi, turchi, iraniani, giordani, libici, kenioti, nigeriani … eccetera eccetera.

Prima di percorrere ipotesi improbabili, andrebbe verificata quella che abbiamo davanti: i flussi di armi, denaro e petrolio parlano chiaro su chi abbia finanziato Isis e quali errori politici ne abbiano determinato l’affermazione.

Demata

Caro benzina, consumi in calo, il fisco perde oltre mezzo miliardo

30 Ago

Uno studio commissionato dal sito britannico Looking4Parking.com e pubblicato dal Daily Mail dimostra come i nostri automobilisti spendano mediamente ogni mese circa il 10,2% del proprio stipendio per rifornire di gasolio le proprie vetture.
Sulla base di un reddito medio degli italiani stimato in 19.655 euro annui, fanno circa 2.000 euro a testa in dodici mesi.

Il prezzo del diesel in Italia (1,71 euro al litro) è inferiore solo a quello della Norvegia (1,76 euro al litro), ma lì il reddito medio è di 37.920 euro annui e quella per il carburante rappresenta meno del 5% della spesa dei cittadini.

Tra crisi e lievitazione dei prezzi, calano sempre di più i consumi petroliferi italiani, con una diminuzione del 3,5% rispetto allo stesso mese del 2012, attestandosi a 2,8 milioni di tonnellate per quanto riguarda le benzine e il gasolio. (fonte Unione Petrolieri)

Una buona notizia, tenuto conto che l’Italia importa il 93,3% dei suoi consumi di petrolio e il 70% di quelli di gas naturale e che quei consumi dal 1973 al 2009 sono cresciuti del 359%. (dati 2009 – Sole24ore)
Un’ottima novità, risparmiare importazioni e consumi per 190.000 tonnellate di carburanti, mentre il saldo commerciale italiano ha registrato un surplus di 1,9 miliardi di euro, dopo un saldo negativo pari a 0,3 miliardi di euro lo scorso anno. Specialmente, tenendo conto che il surplus risulterebbe triplicato, se la nostra bilancia commerciale venisse calcolata al netto dell’energia.

E, invece, no. Non in Italia, affamata di risorse per sostenere una spesa pubblica eccessiva, disorganica e sprecona.

Tra gennaio e luglio, tenuto conto del calo registrato dai consumi, il gettito fiscale (accise + IVA) è risultato in diminuzione di circa 630 milioni.
E, così andando le cose, con redditi dimezzati rispetto al Nordeuropa, lo Stato continuerà a confidare nei nostri consumi d’importazione (sic!) e sulle tasse che può affibbiarci.

Intanto, le trombe di guerra che squillano in Siria stanno facendo lievitare il prezzo del greggio …

originale postato su demata

Italia in guerra senza Bossi e Bersani?

26 Apr

Sì ad «azioni aeree mirate» italiane in Libia. Questa la brief note con cui il Governo ha annunciato l’entrata in guerra dell’Italia.

Una decisione, come conferma il ministro degli Esteri Franco Frattini, che che poteva attuata ben quindici giorni fa, visti i toni tenuti dal rappresentante del governo provvisorio Jalil, in visita a Roma.
“Voi vi siete fatti ingannare dalla retorica di Gheddafi, ma noi che siamo i libici di Bengasi, i libici che dovrebbero odiare di più gli italiani, riconosciamo che voi non ci avete solo colonizzato: avete costruito il nostro Paese. E’ per questo ha continuato – che abbiamo bisogno di voi, proprio di voi, adesso: aiutateci.”
Un accorato appello, al quale Silvio Berlusconi aveva pubblicamente risposto, pochi giorni dopo, che “considerata la nostra posizione geografica ed il nostro passato coloniale, non sarebbe comprensibile un maggior impegno militare.”

Una mossa, imposta da Obama a nome evidentemente del Consiglio NATO, che potrebbe, almeno, riqualificare l’immagine italiana dall’imbarazzante amicizia di Gheddafi con Berlusconi, il quale, per l’appunto, si dichiara imbarazzato.

Una ripresa “obbligata” della politica italiana nel Mediterraneo, dopo 150 anni di stasi, che  riporterebbe le regioni ed i porti del Sud agli antichi fasti, con prevedibili ricadute (negative?) per le regioni padane e quelle “rosse”.

Infatti, se Calderoli annuncia un “Non con il mio voto”, aprendo un’ulteriore frattura nel governo, dalla riva opposta arriva un durissimo il comunicato di Emergency.
“Il governo italiano continua a delinquere contro la Costituzione e sceglie la data del 25 aprile per precipitare il Paese in una nuova spirale di violenza. Le bombe non sono uno strumento per proteggere i civili: infatti non sono servite a proteggere la popolazione di Misurata. La città di Misurata, assediata e bombardata da oltre due mesi, nelle ultime 24 ore ha vissuto sotto pesantissimi attacchi che hanno raso al suolo quartieri densamente popolati, anche per l’impiego di missili balistici a medio raggio”.
Intanto, il ministro della Difesa Ignazio La Russa precisa che  “non si tratterà di bombardamenti indiscriminati ma di missioni con missili di precisione su obiettivi specifici” per “evitare ogni rischio di colpire la popolazione civile”.
E Frattini conferma: «Bombarderemo obiettivi mirati, per esempio batterie anticarro, carrarmati, depositi di munizioni. Obiettivi pianificati dalla Nato, che ce li indicherà di volta in volta».

Quanto al popolo padano, Berlusconi rassicura (secondo lui) che “non occorre un nuovo voto del Parlamento, dunque non ci sarà nessuna spaccatura tra noi e la Lega come spera l’opposizione”.

L’opposizione?  Tace, imbarazzatamente tace, trincerandosi dietro “i limiti posti dalla risoluzione Onu”, come se non ci siano un popolo insorto, un dittatore efferato e tremila anni di storia comune.

Intanto, a Misurata l’assedio, la fame, la sete, le morti innocenti continuano.

Tutto sui ribelli libici

12 Apr

Il Consiglio nazionale ad interim di transizione è la guida politica della Coalizione della Rivoluzione del 17 febbraio, nata in seguito alle sommosse popolari in Libia contro il regime di Gheddafi.
Il manifesto politico del Consiglio, “Visione per una Libia democratica”, chiede una nuova costituzione, libertà di associazione, di opinione e di stampa, pluralismo e tutela delle minoranze; libere elezioni e separazione dei poteri, superamento delle discriminazioni di genere, colore, razza o posizione sociale, nuove relazioni lotta al terrorismo.

Nulla di inquitante, tutto sacrosanto e legittimo, ma il Consiglio Nazionale Libico è stato riconosciuto solo da Italia e Francia.  Eppure, è composto da 31 membri, governa le regioni liberate dalla Rivoluzione, si è riunito la prima volta a Beida il 24 febbraio 2011, i leader noti sono Mustafa Abdul Jelil (ex ministro della difesa ed attuale Segretatio Generale), Abdul Hafiz Ghoga (ex ministro degli esteri ed attuale Vicesegretario generale e portavoce), Omar el-Hariri, Alì Tarhuni,  Alì el-Essaui.

Con loro ci sono Fathi Mohammed Baja e Abdul Ilah Moussa al-Meyhoub (noti intellettuali democratici), Fathi Tirbil Salwa e Salwa al-Dighaili (attivisti dei diritti civili),

Il primo dei (presunti) problemi è che Mustafa Abdul Jelil  e Abdul Fatah Younis (ex ministro degli interni), pur essendo dei “traditori del regime”, appartengono al gruppo tribale di Omar Mokhtar El-Hariri, eroe della rivoluzione antimonarchica di Gheddafi e poi, nel 1975, leader del primo tentativo di rovesciamento del Raiss. Attualmente è il leader militare della “nuova” Libia, dopo 15 anni di carcere duro, dal 1975 al 1990, e 20 di arresti domiciliari: una sorta di Nelson Mandela della Cirenaica.

Certo, non sono l’ideale per le “big companies” che già  erano alla “Fase 4″ ed avevano acquistato il petrolio del 2030.

Di tutt’altra pasta sembra essere il colonnello Khalifa Haftàr (o Hifter), indicato da McClatchy Newspapers come “leader dell’opposizione”, che il  Washington Post del 26 marzo del 1996 indicava come “leader di un Lybian National Army” con base in USA e che, durante gli ultimi 20 anni, avrebbe vissuto in un sobborgo di Norfolk in Virginia, dopo essere stato catturato in Ciad ed aver disertato nel National Front for the Salvation of Libya.

Un’organizzazione, il NFSL, che nel 1984 fallì il tentativo di uccidere Gheddafi e guidata oggi da Ibrahim Abdulaziz Sahad, fortemente “voluta” dai sauditi e dagli statunitensi, come afferma il “libro bianco” Manipulations africaines, pubblicato da Le Monde diplomatique nel 2001, che indica il NFSL come “sostenuto dalla CIA”. Nonostante sia indicata come la principale organizzazione politica, poco si sa del National Conference for the Libyan Opposition, “braccio politico” del NFSL composto da esuli libici in Inghilterra e USA, e non sembra essere questo il circuito di riferimento per Mahmud Jibril, oggi a capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale.

Un battitore libero, economista, esperto in governance strategica, con un master in scienze politiche presso l’Università di Pittsburg. Mahmoud Jibril è l’uomo che ha ottenuto il riconoscimento diplomatico dei francesi e degli italiani, dopo essere stato un esperto della Monitor Group inc, (la “think tank enteprise” della Harward University di Cambridge, nel Massachussets), è rientrato in Libia nel 2007, con lo “sdoganamento” internazionale di Gheddafi, che lo pose a capo del National Economic Board che promuoveva rapporti con aziende globali.

Il timore principale degli osservatori è nell’incognita “del dopo”, in un paese dove un terzo della popolazione libica è affiliata o affine alla confraternita dei Senussi, che ebbero la corona libica nel 1951 con Idrīs I, che hanno sempre avuto un atteggiamento strumentalmente filo-britannico (come i “cugini” wahabiti d’Arabia) e  che furono fieri antagonisti della colonizzazione italiana. Non a caso Omar Mukhtar, il capo ribelle impiccato nel 1931 dagli Italiani, era uno di loro, come lo era Sharif El Gariani, anziano cofondatore della confraternita (Al Bayda 1844) e principale intermediario proprio con gli italiani.  Ahmed al-Zubair Ahmed al-Sanusi è l’ultimo leader senussi in vita nel territorio libico, ma, rilasciato nel 2001, è fisicamente distrutto da 31 anni di carcere duro ed isolamento.

La Sanusiya è una “tariqa” (ndr. confraternita) fondata agli inizi dell’800 dallo sharif Muḥammad ibn ʿAlī detto al-Sanūsī, appartenente alla tribù dei Awlād Sīdī ʿAbd Allāh, discendenti di Fāṭima figlia di Maometto, e propone un culto influenzato dalla visione spirituale salafita, che alimenta Al Quaeda in Magreb. In realtà, si tratterebbe di un movimento sostanzialmente  moderato: niente fanatismo, niente obbedienza cieca alle madrasse ed agli ulema, bensì “ijtihād”, ovvero ricerca e determinazione personale.

Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti,  si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha  il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.

Chi non è mio nemico, è mio amico? Forse.

Resta solo il dato, piuttosto allarmante, dimostrato da  uno studio del 2007, pubblicato dall’Accademia Militare di West Point, che evidenzia l’elevato numero di jihadisti in Irak provenienti dalla Cirenaica (Bengasi e Derna), reclutati dai militanti del Libyan Islamic Fighting Group, fondato nel 1985 da reduci della resistenza afgana, attualmente diretto da Anas Sebai.

Nel 2003 si stimava che i membri attivi fossero del LIFG fossero un centinaio con 2-3mila simpatizzanti, nel 2005 l’organizzazione divenne formalmente parte di “Al Quaeda in Maghreb” ed oggi i suoi sostenitori potrebbero essere diventati di più, grazie all’infiltrazione jihadista nella comunità dei Senussi fortemente radicata a Derna, Bengasi e Rimal ed alla disponibilità di armi saccheggiate.

E’ questo il dato che allarma gli analisti e che ispira prudenza nel supportare gli insorti.

E’ anche vero che, animate dall’originario “spirito beduino” o meno,  qualche centinaio di teste calde dovranno pur sempre esserci, sotto il sole del Sahara  come del Nevada, e, soprattutto, che una rivoluzione non è affatto un pranzo di gala.

leggi anche Libia, petrolio e guerra,

“La guerra ingiusta”

e “Massacri libici, affari italiani”

Libia, chi sono gli insorti

11 Apr

Il Consiglio nazionale ad interim di transizione è la guida politica della Coalizione della Rivoluzione del 17 febbraio, nata in seguito alle sommosse popolari in Libia contro il regime di Gheddafi.
Il manifesto politico del Consiglio, “Visione per una Libia democratica”, chiede una nuova costituzione, libertà di associazione, di opinione e di stampa, pluralismo e tutela delle minoranze; libere elezioni e separazione dei poteri, superamento delle discriminazioni di genere, colore, razza o posizione sociale, nuove relazioni lotta al terrorismo.

Nulla di inquitante, tutto sacrosanto e legittimo, ma il Consiglio Nazionale Libico è stato riconosciuto solo da Italia e Francia.  Eppure, è composto da 31 membri, governa le regioni liberate dalla Rivoluzione, si è riunito la prima volta a Beida il 24 febbraio 2011, i leader noti sono Mustafa Abdul Jelil (ex ministro della difesa ed attuale Segretatio Generale), Abdul Hafiz Ghoga (ex ministro degli esteri ed attuale Vicesegretario generale e portavoce), Omar el-Hariri, Alì Tarhuni,  Alì el-Essaui.

Con loro ci sono Fathi Mohammed Baja e Abdul Ilah Moussa al-Meyhoub (noti intellettuali democratici), Fathi Tirbil Salwa e Salwa al-Dighaili (attivisti dei diritti civili),

Il primo dei (presunti) problemi è che Mustafa Abdul Jelil  e Abdul Fatah Younis (ex ministro degli interni), pur essendo dei “traditori del regime”, appartengono al gruppo tribale di Omar Mokhtar El-Hariri, eroe della rivoluzione antimonarchica di Gheddafi e poi, nel 1975, leader del primo tentativo di rovesciamento del Raiss. Attualmente è il leader militare della “nuova” Libia, dopo 15 anni di carcere duro, dal 1975 al 1990, e 20 di arresti domiciliari: una sorte di Nelson Mandela della Tripolitania.

Certo, non sono l’ideale per le “big companies” che già  erano alla “Fase 4” ed avevano acquistato il petrolio del 2030.

Di tutt’altra pasta sembra essere il colonnello Khalifa Haftàr (o Hifter), indicato da McClatchy Newspapers come “leader dell’opposizione”, che il  Washington Post del 26 marzo del 1996 indicava come “leader di un Lybian National Army” con base in USA e che, durante gli ultimi 20 anni, avrebbe vissuto in un sobborgo di Norfolk in Virginia, dopo essere stato catturato in Ciad ed aver disertato nel National Front for the Salvation of Libya, di base in Ciad.

Un’organizzazione, il NFSL, che nel 1984 fallì il tentativo di uccidere Gheddafi e guidata oggi da Ibrahim Abdulaziz Sahad, fortemente “voluta” dai sauditi e dagli statunitensi, come afferma il “libro bianco” Manipulations africaines, pubblicato da Le Monde diplomatique nel 2001, che indica il NFSL come “sostenuto dalla CIA”. Nonostante sia indicata come la principale organizzazione politica, poco si sa del National Conference for the Libyan Opposition, “braccio politico” del NFSL composto da esuli libici in Inghilterra e USA, e non sembra essere questo il circuito di riferimento per Mahmud Jibril, oggi a capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale.

Un battitore libero, economista, esperto in governance strategica, con un master in scienze politiche presso l’Università di Pittsburg. Mahmoud Jibril è l’uomo che ha ottenuto il riconoscimento diplomatico dei francesi e degli italiani, dopo essere stato un esperto della Monitor Group inc, (la “think tank enteprise della Harward University di Cambridge, nel Massachussets), rientrato in Libia nel 2007, con lo “sdoganamento” internazionale di Gheddafi, che lo pose a capo del National Economic Board che promuoveva rapporti con aziende globali.

Il timore principale degli osservatori è nell’incognita “del dopo”, in un paese dove un terzo della popolazione libica è affiliata o affine alla confraternita dei Senussi, che ebbero la corona libica nel 1951 con Idrīs I, che hano sempre avuto un atteggiamento strumentalmente filo-britannico (come i “cugini” wahabiti d’Arabia) e  che furono fieri antagonisti della colonizzazione italiana. Non a caso Omar Mukhtar, il capo ribelle impiccato nel 1931 dagli Italiani, era uno di loro, come lo era Sharif El Gariani, anziano cofondatore della confraternita (Al Bayda 1844) e principale intermediario proprio con gli italiani.  Ahmed al-Zubair Ahmed al-Sanusi è l’ultimo leader senussi in vita nel territorio libico, ma, rilasciato nel 2001, è fisicamente distrutto da 31 anni di carcere duro ed isolamento.

La Sanusiya è una “tariqa” (ndr. confraternita) fondata agli inizi dell’800 dallo sharif Muḥammad ibn ʿAlī detto al-Sanūsī, appartenente alla tribù dei Awlād Sīdī ʿAbd Allāh, discendenti di Fāṭima, figlia di Maometto, propone un culto influenzato dalla visione spirituale salafita, che alimenta Al Quaeda in Magreb. In realtà, si tratterebbe di un movimento sostanzialmente  moderato: niente fanatismo, niente obbedienza cieca alle madrasse ed agli ulema, bensì “ijtihād”, ricerca e determinazione personale.
Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti,  si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha  il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.

Chi non è mio nemico, è mio amico? Forse.

Resta solo il dato, piuttosto allarmante, che uno studio del 2007, pubblicato dall’Accademia Militare di West Point, dimostri l’elevato numero di jihadisti in Irak provenienti dalla Cirenaica (Bengasi e Derna), reclutati dai militanti del Libyan Islamic Fighting Group, fondato nel 1985 da reduci della resistenza afgana, attualmente diretto da Anas Sebai.

Nel 2003 si stimava che i membri attivi fossero del LIFG fossero un centinaio con 2-3mila simpatizzanti, nel 2005 l’organizzazione divenne formalmente parte di “Al Quaeda in Maghreb” ed oggi i suoi sostenitori potrebbero essere diventati di più, grazie all’infiltrazione jihadista nella comunità dei Senussi fortemente radicata a Derna, Bengasi e Rimal ed alla disponibilità di armi saccheggiate.

E’ questo il dato che allarma gli analisti e che ispira prudenza nel supportare gli insorti.

E’ anche vero però, che, animate dall’originario “spirito beduino” o meno,  qualche centinaio di teste calde dovranno pur sempre esserci, sotto il sole del Sahara  o del Nevada, e, soprattutto, che una rivoluzione non è affatto un pranzo di gala.

leggi anche Libia, petrolio e guerra,

“La guerra ingiusta”

e “Massacri libici, affari italiani”