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Tagli alla Sanità, la verità: la Politica ha abdicato, si tagliano servizi ma non la Casta

17 Gen

La Legge di stabilità permette ai Consigli Regionali di intervenire sulla Sanità entro il 31 gennaio per determinare i nuovi piani di bilancio dei rispettivi Servizi Sanitari Regionali ed attuare le economie necessarie.

Qualcuno li chiama ‘tagli alla sanità’, ma non sa o non ricorda che 30-40 miliardi del buco nero delle pensioni ex Inpadp (dipendenti pubblici) si creò proprio per ‘anticipazioni’ al sistema sanitario sotto l’egida di Tremonti e se oggi le pensioni di tutti ed il turn over della PA sono bloccati è a causa di questo.
Una vera vergogna, dato che quelli ‘anticipati’ (e mai tornati indietro) erano i soldi versati dai lavoratori.

Ancor più vergogna, se ricordiamo la deontologia che dovrebbe caratterizzare il settore Salute e poi scopriamo di intere ASL arrestate per mafia, di enormi policlinici saccheggiati da qualche ‘mondo di mezzo’ e ora sull’orlo del fallimento, di centinaia di migliaia di risarcimenti assicurativi per responsabilità professionale eccetera.

Dunque, non parliamo di tagli, bensì di RISANAMENTO e la stampa seria dovrebbe pur raccontarlo a qualcuno, specialmente se – andando alla pagina dell’economia – leggiamo le storie non edificanti di cui sopra.
Storie di cui la Rete gronda e che non stiamo qui a raccontar tutte, tanto ne bastano un paio per capire da che parte dovrebbero andare i ‘tagli’ e dove reinvestire le ‘economie’.

Roma è l’esempio ideale: ha un’enorme disponibilità ospedaliera e specialistica, ma il Recup ti da appuntamento a sei mesi forse meno forse più, anche se poi i conti presentano una spesa ospedaliera che che sfora del 50% la media nazionale e si paga un Irperf da record. Bella anomalia, eh?

Analizzando lo scenario troviamo che interi reparti e schiere di malati sono affidati a medici che sono nati nel 1948 o giù di lì, dimenticando che si va in pensione anche per sopravvenuti limiti di età biologica e tecnologica, ma soprattutto che ci costano il doppio.

Questo il motivo per il quale il Lazio taglia posti letto e prestazioni ai malati, ma non posti di lavoro. Secondo questa logica, ma non la nostra, costerebbe di più azzerare un reparto o un ambulatorio, che ‘si ripagano mentre funzionano’, piuttosto che ridurre di uno specialista, pagato decine e decine di migliaia di euro all’anno, se non centinaia, in un reparto dove ce ne sono già sei o sette della stessa specialità.
Perchè continuare a riconfermare medici ormai ultrasessanticinquenni e pure pensionati su incarichi, funzioni e poltrone che – di norma – dovrebbero almeno essere occupate da personale in effettivo servizio, che percepisce uno stipendio anche dimezzato rispetto ai soliti ‘ex sessantottini’.
Perchè tenerci un medico di sessanticinque anni a passa, che ha difficoltà persino con la posta elettronica, quando ne potremmo avere uno di quaranta con pedegree internazionale a metà del costo, senza dover licenziare due ausiliari o chiudere un ambulatorio oppure alzare Irperf e ticket?

Detto tutto no? No, manca ancora qualcosa.

Ad esempio il Contratto di lavoro dei medici, che possono essere adibiti a mansioni diverse, ma solo “fatte salve le eventuali specializzazioni di cui è in possesso ed esercitate all’interno della Struttura sanitaria”. Una vera mattanza, se vent’anni fa assumemmo tanti cardiologi e gastrenterologi ed oggi la prevenzione e i farmaci migliori ne hanno ridotto l’esigenza, teniamo aperti lo stesso i loro reparti consumando le risorse che andrebbero ai ‘nuovi’ settori e specialità mediche e raccondando ai cittadini che la colpa è dei tagli.
Risultato? Un intero ambulatorio di gastroenterologia che in una giornata fa la metà delle gastrocolonscopie o dei test al lattosio, ad esempio, con il doppio del tempo, il triplo del personale ed il quadruplo dello spazio rispetto a un ottimo poliambulatorio privato o convenzionato. Ci può stare.

Il risultato però è che i malati (speccie i quattro milioni di ‘rari’) che non trovano allocazione in un simile girone infernale vagano da uno specialista all’altro, con esami costosi, che – incredibile ma vero – vanno a dissanguare le loro tasche e quelle dei loro corregionali, manentendo funzionanti interi reparti che senza questo vagare non avrebbero ragione di esistere.
E tutto accade mentre nel Lazio vige una delle Irperf più gravose d’Italia, mentre oltre il 40% della popolazione è anziano, con il risultato che chi oggi contribuisce vede gran parte delle risorse destinate non a se o ai propri figli, bensì ai servizi geriatrici, come accade sia per la Sanità che per il Welfare.

E poi, c’è la questione che un privato assumerebbe un medico come direttore sanitario, un manager come direttore amministrativo. Una questione di buon senso, giusto? A Roma no e non solo lì.
Una vera e propria occupazione dei vertici amministrativi, se accade che siano dei laureati in medicina (e non in economia) a coordinare management, servizi, prestazioni, forniture eccetera per milioni e milioni di euro e di persone. Una mostruosità facile da comprendere, se si sa che i dirigenti scolastici non possono accedere a qual livello di dirigenza, soprattutto perchè molti non hanno le lauree in diritto o economia e che nel Lazio si rende possibile grazie a quasi quindici anni di Commissariamento più o meno ininterrotto.

Cosa pensare se la norma ha previsto un Commissario ad acta se la politica è incapace a governare /risanare e ci ritroviamo che il Presidente della Repubblica ha nominato non un manager, non un notabile o un contabile, ma lo stesso Presidente della Regione che è finita nel commissariamento e che questo accade praticamente da 15 anni?
Prendiamo atto che dietro l’opaco scudo di un Commissarimento ‘politico’ ed ‘eterno’, tutto il Sistema Sanitario del Lazio è in mano a laureati in medicina (non politici, non manager), cosa che ci indica ‘senza se e senza ma’ quale sia l’origine del problema.

Ma al peggio non c’è limite, perchè lo stesso problema lo ritroviamo in Parlamento, dove circa il 10% degli eletti proviene dal sattore sanitario, e al Senato, dove la Commissione Igiene e Salute è composta quasi completamente da ‘tecnici’ e non ‘politici’: su 28 componenti ben 13 sono medici, altri 5 sono biologi, farmacologi o infermieri e sono 6 i dipendenti di Inps o enti locali. Solo due gli esponenti di partito e due gli economisti.
Zero esponenti dell’associazionismo (malati e/o consumatori). Zero rappresentanza per ricerca (scienza) e mondo civile (etica). Di cittadini ‘qualunque’ zero, proprio zero. Zero, persino, le onnipotenti case farmaceutiche.

Se qualcuno si chiedeva chi/cosa rappresentasse la Casta nel Parlamento eletto nel 2013, questo potrebbe essere un indizio rivelatore. Anche perchè … grazie ad una recente norma, se un medico lascia uno sbrego a un malato (colpa lieve) praticamente non gli capita nulla, mentre se lo fa un genitore al figlio o un insegnante ad un alunno son sette anni di guai.
Ma il colmo è che, andando per tribunali, con buona parte della PA che ogni tanto incappa in qualche sentenza, accade che non v’è traccia di sanitari che incappino in irregolarità amministrative pur essendo cartelle e certificati atti come tutti gli altri. Come sia possibile, dato che molti potrebbero non aver studiato una riga di diritto, resta un mistero, ma i risultati del ‘va tutto bene’ … ce li troviamo poi nelle fatture e nei ticket per i farmaci e i laboratori.

Con uno scenario così – e ci siamo soffermati solo sugli aspetti ‘strutturali’ – non ci vengano a parlare di ‘tagli alla sanità’ chiedendo al governo di sborsare altri 4 miliardi che verranno sottratti agli esodati, ai pensionandi ed ai giovani disoccupati che attendono, per salvare posizioni apicali e dirigenziali mentre si tagliano i servizi ai malati.
Iniziamo, dunque, a parlare di tagli del personale sanitario, almeno per quanto riguarda coloro che abbiano l’età di pensionamento e/o doppi incarichi, se vogliamo dare più servizi con meno spese iniziamo a fare reparti e ambulatori dove ci sono due infermieri, un medico assistente e un medico strutturato, come ovunque, e non un infermiere e tre medici, di cui due primari ed uno pensionato riconfermato … e pretendiamo che tutti sappiano usare il computer a menadito, che già per stampare un’impegnativa, a volte è un’avventura.

E basta commissariamenti ‘politici’: o la Politica ci mette la faccia oppure – se i conti non tornano – che intervegano i pubblici ministeri od i super magistrati come Cantone, come per tutto il resto della pubblica amministrazione.

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Il giorno dei malati rari

28 Feb

Oggi è la Giornata Mondiale delle Malattie Rare. Lo slogan di quest’anno è “Malattie Rare Senza Frontiere”. In molti paesi non ci sono possibilità o conoscenze per la corretta diagnosi o per i trattamenti. Secondo gli esperti la collaborazione internazionale è l’unico modo perché si possa raggiungere ovunque un alto livello di accesso a cure e farmaci.

Ma come vanno le cose in Italia?

Secondo un recente report del Comitato Nazionale di Bioetica le malattie rare comportano situazioni molto gravose per il milione di italiani che ne è ufficilamente affetto, a fronte di forse due milioni di persone che ancora attendono una diagnosi.

Il tutto accade non tanto per le patologie in se, per altro spesso gravi e croniche, quanto per l’assoluta fatiscenza del nostro Sistema Sanitario Nazionale e gli sprechi del nostro Sistema Sanitario Regionale, oltre al disinteresse profondo dei politici, della classe medica e dei funzionari preposti.

Secondo il report, infatti, le problematiche individuali e familiari dei malati riguardano principalmente:

  1. la difficoltà, o l’impossibilità, di accedere alla diagnosi corretta – dovuta alla mancata individuazione di un centro clinico di riferimento specializzato nella patologia in questione – con il conseguente aggravio psicologico e peggioramento dello stato di salute del paziente;
  2. il ritardo nella diagnosi che incide negativamente sulla prognosi;
  3. l’isolamento e la mancanza di conoscenze scientifiche e di informazioni sia sulla malattia, sia sulle leggi e i diritti esistenti;
  4. la mancanza di assistenza medica adeguata e di terapie riabilitative e psicologiche necessarie, tenuto conto della natura cronico-invalidante di gran parte delle malattie rare e dello sconvolgimento e destabilizzazione che l’esperienza della patologia comporta per il paziente e la famiglia;
  5. la difficoltà d’accesso al trattamento e alle cure, che riguarda sia la reperibilità-disponibilità di farmaci innovativi, ad alto o altissimo costo, specifici per una data malattia rara e già in commercio in Europa, sia, quando non vi sono terapie eziologiche specifiche, l’accesso ad altri possibili trattamenti;
  6. le forti diseguaglianze esistenti, a livello regionale e locale, nell’accesso alla diagnosi, alle terapie innovative e, più in generale, alle cure sanitarie e ai servizi sociali;
  7. i costi elevati dei trattamenti, complessivamente considerati, e la mancanza di misure di sostegno rispondenti ai bisogni di assistenza quotidiana e continuativa determinati dalla patologia, il cui carico ricade quasi interamente sul nucleo familiare, causandone l’impoverimento e spesso l’allontanamento dal mondo del lavoro;
  8. le condizioni precarie, di frequente percepite come gravi o gravissime, delle persone affette, anche dopo avere ottenuto la diagnosi;
  9. le conseguenze sociali pesanti per il paziente (stigmatizzazione, isolamento nella scuola e nelle attività lavorative, difficoltà di costruirsi una rete di relazioni sociali).

Con tutti i soldi che spendiamo e con tutti gli invalidi che abbiamo, questo ‘bollettino degli orrori’ avrebbe dovuto riguardare, da anni, la Corte dei Conti e l’Ordine dei Medici, oltre che la società civile tutta.
Tra l’altro, esisterebbe anche un ‘colpevole’ di tutta questa iattura: Rosy Bindi, presidente del Partito Democratico ed ex ministro della Salute, che ha emanato le disastrose leggi che abbiamo sulla salute mentale, sul servizio sanitario, sulla disabilità, sulle malattie rare (link).

Ma non finisce qui, è solo la punta dell’iceberg.

Infatti, il rapporto del Comitato Nazionale di Bioetica non racconta che:

  1. le malattie rare inserite nella lista delle patologie invalidanti sono solo cinque, a fronte di oltre 3.000 classificate;
  2. lo Stato Italiano ha accolto solo sulla carte le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Salute, emesse nel 1992, riguardo lavoro e disabilità, che si fondano sulla limitazione funzionale e non sulla classificazione della malattia od il danno biologico irreversibile;
  3. gran parte dei fantomatici Centri regionali per le Malattie Rare non sono mai stati istituiti o sono stati esternalizzati su strutture private in convenzione, solitamente cattoliche;
  4. spesso anche il semplice invio di campioni biologici – dato che nella Regione non si provvede o non si coordina – è a carico del malato. Il Coordinamento è inesistente;
  5. la gestione delle eventuali altre patologie non avviene in funzione della malattia rara che è la patologia primaria;
  6. chi deve sottoporsi a terapie continue percorre ordinariamente decine e decine di chilometri per cure infermieristiche o parainfermieristiche.

Peggio ancora se andiamo a vedere la situazione delle onlus.
Una realtà estremamamente parcellizzata, spesso fidelizzata da un centro medico o di ricerca, che così ottiene donazioni e mezzi a prescindere dal dato qualitativo o di eccelelnza, ma solo in base alla visibilità che l’associazione riesce ad ottenere. Basta avere tra i malati un personaggio famoso od influente per portare alle stelle un centro mediocre e viceversa.

Inoltre, una parte di queste associazioni esistono solo sulla carta, dato che assorbono gran parte delle donazioni per funzionare ed il resto finisce ‘per la ricerca’ o per ‘il centro sanitario’ od ‘il reparto’. Salvo alcune tipologie di malattie, per le quali è previsto l’accompagno e la contribuzione pubblica, non offrono servizi diretti ai malati: si è soli in ospedale, a casa, nei taxi o nelle ambulanze.
Addirittura, alcune diffondono informazioni sanitarie scorrette, anche tra quelle ‘validate’ o pubblicizzate dal ministero e dall’Istituto Superiore di Sanità.

Abbiamo speso milioni di euro per l’informazione tramite medici, associazioni e onlus, ma saranno forse migliaia quelli spesi per, almeno, contare i malati e sapere se e perchè non sono soddisfatti.
Davvero inspiegabile perchè ciò sia accaduto, se non si vuole pensare davvero a male.

Un problema confermato dal ‘Dossier in tema di malattie rare del 2008-2010, a cura di Cittadinanzattiva, Tribunale per i diritti del malato, Coordinamento nazionale associazioni malati cronici, che segnala:

  1. le difficoltà nel godere effettivamente dei benefici previsti dalla legge
  2. le forti differenze che si riscontrano tra regione e regione,
  3. più del 40% dei pazienti non ha spesso accesso ai farmaci indispensabili o ai farmaci per la cura delle complicanze.

Un Dossier, quello di Cittadinanzattiva e del Tribunale per i diritti del Malato, che però dimentica di dirci quanti sono i casi di malasanità od il numero dei contenziosi avviati dai malati e non ci spiega perchè queste potenti associazioni non diano assistenza legale alle vittime di malasanità, nè si lagnino di leggi e tribunali, che impiegano decenni per far giustizia e riparare il danno subito dal malato.
Di Class Actions, ad anni dalla legge che le consente, neanche a sentirne parlare, mentre i casi di malasanità registrati dalle compagnie che assicurano medici e ospedali ammonterebbero a centomila annui, Figuriamoci quanti sono quelli, minimi od eclatanti, per cui v’è rassegnazione e non li si denuncia.

Secondo Il Sole 24 ore “Focus sanità” del 11-17 Novembre 2008, l’inadeguatezza sanitaria e il mancato accesso ai diritti, ovvero ‘costi e disagi, determinerebbero la rinuncia alle cure da parte di 1 paziente su 4 a cui andrebbe aggiunto un 37% che desiste per gli ostacoli burocratici’, che evidentemente vengono posti dai diversi ospedali e ASL.

Altri studi hanno rilevato che:

  1. il 57,9% dei pazienti è costretto a sostenere personalmente le spese della terapia con una spesa annua che va da un minimo di 800 euro a un massimo di 7.000 (studio del 2008 del Tribunale dei diritti del malato);
  2. per molti genitori far fronte ai bisogni assistenziali significa peggiorare la propria condizione lavorativa, se non interromperla (Studio pilota ISFOL13)
  3. tra le famiglie partecipanti allo studio molte versano in condizioni reddituali assai basse e quasi il 20% è stato costretto a ricorrere a prestiti finanziari, per far fronte alla gestione della malattia.

E’, dunque, un eufemismo parlare di Malasanità, quando si ha a che fare con un malato raro italiano. Dovremmo parlare di martiri.

Alle domande ‘di repertorio’ vanno ad aggiungersene altre due, rivolte alla nostra classe medica:

  1. come può l’Ordine dei Medici non pretendere un repulisti e far giustizia per i malati, se 370.000 dei malati rari (il 37% di quelli noti) rinuncia alle cure, per altro dovutegli gratuitamente, o se le norme in materia sono inconcludenti, inadeguate, omissive? E se non i sanitari, come può la Magistratura e l’Istituto Superiore di Sanità non intervenire?
  2. quale è il grado di conoscenza delle malattie rare, delle procedure sanitarie e delle leggi a riguardo, da parte sia dei medici in servizio sia soprattutto di quelli che si sono laureati in questo decennio e sono ‘figli del disastro’?

Quanto al resto, inutile chiedersi quanti soldi abbiamo buttato in questi dieci anni ed in quali tasche siano finiti.

Leggi anche ‘Sanità: basta sprechi sulla pelle dei malati

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La Capitale della malasanità

10 Gen

Martedì sera, una signora romana quasi novantenne veniva prelevata da un’ambulanza per un sospetto ictus e trasportata al policlinico di Tor Vergata, dove rimaneva ben 15 ore in barella, bloccando, tra l’altro l’ambulanza.
Un episodio eclatante, non affatto infrequente a Roma, la Capitale italiana, come documentano le vicende recente di un’altra donna con un’emorragia cerebrale, trasportata in ambulanza prima da Acquapendente a Viterbo e poi al Gemelli di Roma.

Ricordiamo tutti il tragico caso del giornalista RAI Lamberto Sposini, conduttore de “La Vita in diretta”, che, colpito da un ictus al lavoro e soccorso in tempo,  pervenne con enorme ritardo all’ospedale dove venne operato d’urgenza.
O come è drammaticamente comprovato da fatto che ieri, per ben due ore, su 80 ambulanze che Roma dispone per circa 4 milioni di abitanti, ben «25 mezzi erano bloccati nei Dea occupati dai pazienti da ricoverare e tutte le altre 55 ambulanze erano impegnate in servizio per chiamate già ricevute» (fonte 118).

Tutti a prendersela, giustamente, con il Governatore regionale dimissionario, Renata Polverini, visto che un misfatto simile è certamente causato da carenze profonde nella governance sanitaria, anche se la questione dei posti letto ‘chiusi’ di recente è fuorviante.
Infatti, in termini di governance le questioni da porre, se non si volesse fare solo mera demagogia, sono altre e ben più fattuali:

  1. le ambulanze sono sufficienti oppure in una metropoli come Roma ne servirebbero di più? Sono dislocate solo negli ospedali od anche all’altezza di importanti snodi di viabilità, come accade a Milano da trent’anni, per accorciare i tempi di intervento?
  2. i Pronti Soccorsi sono dislocati in modo da garantire il pervenimento del paziente in tempi inferiori alla mezz’ora? Sono strutturati e coordinati con i reparti dell’ospedale cui solitamente afferiscono i casi che richiedono interventi tempestivi, ovvero cardiologia, neurologia, allergologia e malattie rare?
  3. la centrale che invia le ambulanze (il 118) opera in stretto coordinamento con un corrispettivo coordinamento dei siti ospedalieri, in modo da garantire il rapido pervenimento del paziente nell’ospedale giusto? E, nel caso esistesse questa interazione, esiste qualche software gestionale oppure è tutto affidato al caso ed al fattore umano?

Domande semplici, che chiunque abbia vissuto al Nord come in Europa od in USA  non può evitare di porsi, visto che la percezione che si riceve dalla (mala)Sanità romana è quella di un enorme sistema di monadi autoconsistenti che opera in modo autoreferenziale e caotico.
Domande alle quali dovrebbe aggiungersene un’altra, ben più amara e complessa: perchè i Comitati Etici, l’Ordine dei Medici laziale, la magistratura del luogo, i Consigli di Laurea cui afferiscono i policlinici, gli enti religiosi che gestiscono strutture in convenzione non hanno ancora preso posizione dinanzi ad una situazione che dura da decenni e che a Milano come a Bologna sarebbe del tutto inconcepibile, come probabilmente anche a Napoli ed a Palermo?

Domande che, diciamolo, qualunque ‘professionista della politica – od aspirante tale – dovrebbe porsi, visto che i soldi per sostenere un sistema elefantiaco e clientelare non li stampa più nè la Banca Romana d’infame memoria nè la più virtuosa Banca d’Italia di Via de’ Mille.

Ad esempio, come garantire agli abitanti del IV Municipio (ufficialmente almeno 250.000, probabilmente molti di più) dei tempi di pervenimento al Pronto Soccorso, dalla chiamata, inferiori ai 30 minuti, visto quello che ci raccontano sia i navigatori delle autovetture sia Google Maps, in termini di tempi di percorrenza da/per l’ospedale più vicino.

Oppure i malati rari che sono seguiti spesso da esperti collocati in ambulatori mal dislocati e che, in caso di urgenza, vengono, in prima battuta, trasportati in ospedali non immediatamente operativi per quel tipo di patologia, visto che il farmaco salva vita è dato in esclusiva all’ambulatorio, che – ovviamente – chiude alle due del pomeriggio e nel week end (sic!).

Per non parlare dell’enorme ammasso di casette, tra Tiburtina e Casilina, dove vive forse più di un milione di persone con servizi decisamente scarsi, a causa del fatto che quelle periferie crebbero abusivamente, esattamente come quelle delle città sudamericane, e quando le si volle condonare, non si decise di abbatterne almeno un tot per creare viabilità, piazze, ospedali, scuole eccetera.

Il tutto a fronte di un enorme sito ospedaliero, l’ex sanatorio San Camillo Forlanini, pressochè privo di parcheggi e scarsamente raggiungibile dal resto della città, che inspiegabilmente è ‘da salvare’, mentre le sue dimensioni e la sua parcellizzazione in piccoli edifici dimostrano che deve essere destinato ad altro.
Od a fronte del Sant’Andrea, collocato nel nulla, cui si arriva praticamente solo tramite Grande Raccordo Anulare. Come anche per l’enorme IFO San Gallicano, anch’esso poco raggiungibile e che, nonostante la penuria in quel settore della città di pronti soccorsi con reparti alle spalle in grado di gestire casi gravi, è destinato solo alle malattie dermatologiche.

Ovviamente, la campagna elettorale in città verte tutta su ‘chiudere o non chiudere il San Filippo Neri’, un ospedale d’eccellenza, dicono, che ha avuto il grande (de)merito di operare al di fuori delle grandi logiche baronali e che avrebbe dovuto essere trasferito da tempo in una sede più ampia e facilmente raggiungibile di quella attuale.
Anche in questo caso un disastro causato da un deficit di governance regionale, ben più antico della presente gestione, che ha sempre e solo perseguito lo scopo di mantenere l’esistente senza considerare che dalla nascita dei vari Forlanini, San Filippo Neri, Addolorata, Gemelli, eccetera sono trascorsi decenni, che la popolazione è più che raddoppiata ed abita in quartieri distanti ore dai siti ospedalieri dove sono disponibili posti letto e dove sono attivati gli ambulatori per le cure ricorrenti.

Un vero calvario per chiunque abbia necessità di terapie continuative e parenti lungodegenti, specialmente se ricordiamo che è vietata la somministrazione in strutture non pubbliche dei cosiddetti ‘farmaci orfani’, di per se già difficili da trovare in dotazione negli ospedali, con centinaia di migliai di persone nel Lazio che percorrono chilometri ed ore per ottenere un’infusione od una dialisi in centri collocati in luoghi impossibili.

Come andrà a finire? Che la prossima Giunta continuerà a mantenere l’esistente, confidando in qualche decisione politica che appiani i soliti debiti, come ha fatto il governo uscente che, in piena crisi, ha finanziato la sanità laziale con quasi un miliardo di euro.

D’ altra parte, a leggere la storia di Roma, non sembra che in 2500 anni la Caput Mundi abbia scelto organizzazioni e forme di finanziamento differenti.

Intanto, nessuno si chiede quanti possano essere i morti romani causati dalla lentezza di accesso al pronto soccorso ed alle terapie d’urgenza. Non dovrebbero essere così pochi, però.
That’s Rome.

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Malattie rare, un caso diffuso di malasanità

30 Mag

Secondo un recente report del Comitato Nazionale di Bioetica le malattie rare comportano situazioni molto gravose per il milione di italiani che ne è affetta, non tanto per le patologie in se, per altro spesso gravi e croniche, quanto per l’assoluta fatiscenza del nostro Sistema Sanitario Nazionale ed il disinteresse profondo dei politici e funzionari preposti.

Secondo il report, infatti, le problematiche individuali e familiari dei malati riguardano principalmente:

  1. la difficoltà, o l’impossibilità, di accedere alla diagnosi corretta – dovuta alla mancata individuazione di un centro clinico di riferimento specializzato nella patologia in questione – con il conseguente aggravio psicologico e peggioramento dello stato di salute del paziente;
  2. il ritardo nella diagnosi che incide negativamente sulla prognosi;
  3. l’isolamento e la mancanza di conoscenze scientifiche e di informazioni sia sulla malattia, sia sulle leggi e i diritti esistenti;
  4. la mancanza di assistenza medica adeguata e di terapie riabilitative e psicologiche necessarie, tenuto conto della natura cronico-invalidante di gran parte delle malattie rare e dello sconvolgimento e destabilizzazione che l’esperienza della patologia comporta per il paziente e la famiglia;
  5. la difficoltà d’accesso al trattamento e alle cure, che riguarda sia la reperibilità-disponibilità di farmaci innovativi, ad alto o altissimo costo, specifici per una data malattia rara e già in commercio in Europa, sia, quando non vi sono terapie eziologiche specifiche, l’accesso ad altri possibili trattamenti;
  6. le forti diseguaglianze esistenti, a livello regionale e locale, nell’accesso alla diagnosi, alle terapie innovative e, più in generale, alle cure sanitarie e ai servizi sociali;
  7. i costi elevati dei trattamenti, complessivamente considerati, e la mancanza di misure di sostegno rispondenti ai bisogni di assistenza quotidiana e continuativa determinati dalla patologia, il cui carico ricade quasi interamente sul nucleo familiare, causandone l’impoverimento e spesso l’allontanamento dal mondo del lavoro;
  8. le condizioni precarie, di frequente percepite come gravi o gravissime, delle persone affette, anche dopo avere ottenuto la diagnosi;
  9. le conseguenze sociali pesanti per il paziente (stigmatizzazione, isolamento nella scuola e nelle attività lavorative, difficoltà di costruirsi una rete di relazioni sociali).

Con tutti i soldi che spendiamo e con tutti gli invalidi che abbiamo, questo ‘bollettino degli orrori’ avrebbe dovuto riguardare, da anni, la Corte dei Conti e l’Ordine dei Medici, oltre che la società civile tutta.

Nulla di tutto questo.
Il ‘Dossier in tema di malattie rare del 2008-2010 (a cura di Cittadinanzattiva, Tribunale per i diritti del malato, Coordinamento nazionale associazioni malati cronici), segnala:

  1. le difficoltà nel godere effettivamente dei benefici previsti dalla legge
  2. le forti differenze che si riscontrano tra regione e regione,
  3. più del 40% dei pazienti non ha spesso accesso ai farmaci indispensabili o ai farmaci per la cura delle complicanze.

Secondo Il Sole 24 ore “Focus sanità” del 11-17 Novembre 2008, l’inadeguatezza sanitaria e il mancato accesso ai diritti, ovvero ‘costi e disagi, determinerebbero la rinuncia alle cure da parte di 1 paziente su 4 a cui andrebbe aggiunto un 37% che desiste per gli ostacoli burocratici’, che evidentemente vengono posti dai diversi ospedali e ASL. 

Altri studi hanno rilevato che:

  1. il 57,9% dei pazienti è costretto a sostenere personalmente le spese della terapia con una spesa annua che va da un minimo di 800 euro a un massimo di 7.000 (studio del 2008 del Tribunale dei diritti del malato);
  2. per molti genitori far fronte ai bisogni assistenziali significa peggiorare la propria condizione lavorativa, se non interromperla (Studio pilota ISFOL13)
  3. tra le famiglie partecipanti allo studio molte versano in condizioni reddituali assai basse e quasi il 20% è stato costretto a ricorrere a prestiti finanziari, per far fronte alla gestione della malattia.

E’, dunque, un eufemismo parlare di Malasanità, quando si ha a che fare con un malato raro, dovremmo parlare di martiri.

Le domande che nascono spontanee dinanzi a questo girone infernale dei ‘rare disease’ italiani sono quelle di repertorio, allorchè si parli di medici e di medicina in Italia:

  1. le università rilasciano medici e specialisti preparati, soprattutto in conto che le malattie rare sono oltre seimila e che spesso riguardano il metabolismo?
  2. cosa fa l’Ordine dei Medici che dovrebbe vigilare almeno sulla deontologia dei medici e dove finisce l’enorme massa di reclami che pur dovranno esser stati presentati?
  3. cosa fanno i Revisori dei Conti delle ASL e delle Regioni, allorchè i bilanci non tengono conto del numero e tipo di malati presenti nel territorio e non sono rivolti a garantire innanzitutto le prestanzioni essenziali o ‘salva vita’?
  4. cosa hanno fatto finora al Ministero della Salute come al MEF se, a 11 anni dall’introduzione della normativa sulle malattie rare, i dati devono fornirceli le associazioni dei malati?

Alle domande ‘di repertorio’ va ad aggiungersene altre due, rivolte alla nostra classe medica:

  1. come può l’Ordine dei Medici non pretendere un repulisti degli incapaci e giustizia per i malati, se 370.000 dei malati rari (il 37% di quelli noti) rinuncia alle cure, per altro dovutegli gratuitamente?
  2. quale è il grado di conoscenza delle malattie rare, delle procedure sanitarie e delle leggi a riguardo, da parte sia dei medici in servizio sia soprattutto di quelli che si sono laureati in questo decennio e sono ‘figli del disastro’?

Inutile chiedersi quanti soldi abbiamo buttato in questi dieci anni ed in quali tasche siano finiti.

Leggi anche ‘Sanità: basta sprechi sulla pelle dei malati

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Sanità: basta sprechi sulla pelle dei malati. Cosa fare?

10 Mag

Quando si parla di sprechi in Italia, la Sanità è sempre al primo posto, addirittura davanti alla Casta, se vogliamo prestar fede ai drammatici dati che sono riportati in commissariamenti, cessioni del credito, (s)vendite di strutture, vertenze sindacali.

Sprechi, ancor maggiori, se, invece di conteggiare ciò che “viene buttato”, si va a considerare quello che “dovrebbe essere ma non è”.

Il dato più impressionante della Malasanità italiana è nella condizione del personale infermieristico e del personale tecnico-scientifico.

Gli infermieri guadagnano 3-4-5 volte in meno dei medici, pur sottoponendosi a lavoro notturno e festivo per incrementare il magro bilancio e non possono svolgere alcuna attività professionale esterna, neanche una puntura ad un vicino di casa. Inoltre,  i regolamenti universitari e le statistiche ci dicono che è praticamente impossibile, per loro, diventare medici o, peggio, specialisti ed, ancor meno, far “carriera interna”.

I tecnici, in particolare i biologi, sono gestiti come “uno strumento”, nonostante le poche (scarse?) conoscenze che le università italiane forniscono ai medici nel campo della chimica e della biologia. Al giorno d’oggi, la “diagnosi” viene emessa (proposta?) dal biologo od dal tecnico radiologo – se non addirittura “dalla macchina” come sembra dai primi prototipi realizzati dal prof Veronesi e le sue equipe – ed al medico consta di determinare la clinica, la terapia, la gestione del malato. Non può essere altrimenti se per ogni sintomo ci prescrivono puntualmente accertamenti biomedici o radiologici senza i quali, altrettanto puntualmente, ci rispondono che “bisogna attendere il responso prima di parlare”.

Medici “ingombranti”, “oligarchici”, ma bravi?

No, non sempre almeno, fosse solo perchè i nostri dottori sono dei dirigenti “amministrativi” – lo dice la legge – e, in quanto tali, combinano un ordalia di irregolarità nel compliare modulistiche, cartelle cliniche, certificazioni e … ordinativi. Non è un caso che nessuno sia in grado di fornire informazioni certe sulla spesa per farmaci e dotazioni sanitarie, come non è un caso che la cessione dei crediti maturati dalle ASL o dai Policlinici sia un settore finanziario “ad alto rischio”.

Fatti, numeri, soldi, non parole.

Se questo è il problema “all’origine”, c’è, poi, l’elemento strutturale a caratterizzare negativamente il bilancio finanziario ed i servizi resi ai cittadini.

Ad esempio, le strutture obsolete, fatiscenti e mal dislocate come un noto ospedale pugliese presso il quale, dopo due giorni di ricovero in urgenza, chiesi di essere dimesso perchè era spaventosamente caldo. Un anno dopo, ovvero pochi mesi fa, quell’ospedale ha entusiasticamente annunciato di essersi dotato della climatizzazione.
Domanda: Quell’ospedale era agibile quando mi recai io? Quanti malati hanno sofferto o visto le proprie condizioni peggiorare stando in camerate a sei posti con temperature sotto i 40 gradi? Quanti ospedali fatiscenti od inadeguati, restano aperti pur essendo potenzialmente dannosi alla salute, grazie a qualche comitato di zona “interessato” ed alla voglia della Politica di non programmare o “governare” assolutamente nulla?

La maggior parte degli ospedali  non offre “ospitalità” per i malati a consulto ed i loro familiari, che son costretti a ricorrere ad alberghi e pensioni non sempre viciniori, se non, peggio, al mercato nero degli affittacamere che qualche “solerte” ospedaliero indica.
Domanda: perchè non garantire diritti, decenza e ricavi? Perchè “tutti” gli ospedali pubblici italiani rinunciano ai “servizi alberghieri”, mentre quelli privati lucrano anche oltre il necessario?

Dopo anni di “vacche grasse”, è diventato molto difficile ottenere la concessione delle invalidità “gravi” e delle inidoneità al lavoro, come anche gli scivoli pensionistici e dei part time o del telelavoro. Così accade che negli ultimi tre anni (ndr. giusto per ragionare su un tempo “lungo”) decine e decine di migliaia di lavoratori italiani, malati rari o cronici, hanno dovuto usufruire di permessi per L. 104 sul lavoro, si sono assentati con una certa frequenza, sono ricorsi a costose o costosissime cure e terapie più frequentemente, hanno fornito una produttività limitata. In tutto ciò, nonostante il 5xmille, hanno coinvolto intensamente i propri familiari, dato che quasi non esistono organizzazioni per il supporto o l’accompagno.
Domanda: quanto sarebbero costati in meno in termini di spese di personale questi lavoratori se fossero stati prepensionati o collocati in part time/telelavoro? E quanto sarebbero costati in meno, se, avendo qualche tutela e minore stress, fossero ricorsi in misura minore a cure e terapie? Quanta parte del 5xmille si “trasforma” in servizi effetti per i malati e quanta minor spesa dovrebbe ricadere sugli Enti Locali per sussidi e supporto? Perchè le stesse patologie e gli stessi sintomi vengono considerati molto, molto diversamente dalle diverse commissioni mediche e dalle differenti regioni?

Chiunque (parente o malato) si sia cimentato con la gestione di malattie croniche o complesse sa che i medici ospedalieri, specialmente se universitari, raramente consultano altri colleghi e raramente accedono alle documentazioni scientifiche in inglese (cioè tutte). Ogni specialista cura la propria specialità e bisogna essere fortunati a non avere sintomi sovrapponibili o concomitanti, caso mai si fosse malati di più di una patologia. In tutto ciò, se parliamo di malattie rare (ndr. rare per modo di dire visto che sono croniche e che sono almeno 4 milioni i malati affetti), la libertà di scelta è inficiata dato che spesso i farmaci sono erogati in pochi ospedali ed i malati sono costretti a percorrere anche centinaia di chilometri sia per le cure ordinarie sia per le urgenze, inclusi i trattamenti “salvavita”.
Domanda: con tutti i soldi che spendiamo per network e congressi medici, per quale motivo accade questo? Chi è il folle legislatore che ha imposto i Centri Regionali per le Malattie Rare, attivi secondo discrezionalità delle Regioni (ndr. ergo molte non li hanno istituiti), dove devono recarsi malati che hanno necessità terapeutiche e di monitoraggio diagnostico anche molto frequenti? Perchè qualunque medico fa sempre ripetere tutti gli esami presso un “laboratorio di fiducia”? Perchè l’uso di molti farmaci salvavita è consentito solo presso gli ospedali pubblici, obbligando milioni di malati a non potersi recare presso strutture convenzionate (o private) per un qualsiasi intervento chirurgico?

Che dire, poi, dei medici di base, a volte demoni poco competenti e distratti, a volte angeli acuti ed obiettivi resi impotenti dalla burocrazia, ma tutti accomunati dalle lunghe attese a studio e dall’indisponibilità fuori dall’orario di apertura.
Domanda: Cosa si fa se siamo un paese di vecchi privo di centri per anziani e di assistenza domiciliare adeguati (ndr. non il fai da te dei “comitati di zona” o delle parrocchie) e poi accade che i “vecchietti” assediano con pretesti ridicoli lo studio del medico di base? E’ mai possibile che un lavoratore che sta male si debba recare a studio ed attendere ore per ottenere un certificato “regolare” per il lavoro e … poco più, visto che senza le indicazioni di uno specialista i medici di base possono prescrivere solo le aspirine ed il buscopan?

Dulcis in fundo, gli accertamenti biomedici e il sistema di prenotazioni degli URP ospedalieri e delle ASL, che vengono svolti con mesi di ritardo rispetto all’evento patologico e, soprattutto, non vengono svolti in modo coordinato se non “simultaneo”, con il risultato che diventa un bel puzzle riconoscere una malattia “seria”, se gli esami del sangue standard sono di febbraio, il sintomo è di gennaio, il test allergologico è di giugno, quello ormonale o enzimatico di aprile eccetera. Per non parlare dei cardiopatici ed i diabetici, che dovrebbero essere riconosciuti con “facilità” e che non di rado vengono “salvati per i capelli”, visto che in Italia, il rapporto medico-paziente, evidentemente, non prevede “l’alto là” per bevitori, fumatori, pigri e mangioni … basti vedere quanti uomini over50 sono consapevoli e monitorati per il rischio coronarico.
Domanda: ma il gioco d’azzardo non era vietato?

Un vero disastro, oltre che una sanguinolenta e purulenta cambiale da pagare, che qualunque Ordine dei Medici non esiterebbe a risanare, ma non, a quanto sembra, nel paese del Dottor Balanzone, dei Dottori del buon Pinocchio e … dei miracoli.

Una vergona epocale che si sostanzia su un unico dato: quasi la metà degli italiani non ha un diploma e dei restanti solo un risicatissimo 15-20% ha una sufficiente cultura scientifica. Come pensare che costoro non siano del tutto in balia di questa Sanità impazzita e che non siano ampiamente disposti a credere nei “santi”, nella “fatalità” e nei “miracoli”, come tante fanzine ospedaliere citano di frequente ancor oggi?

Di sicuro, non è semplicemente ope legis od appellandosi alle “best practices” che si potrà risanare questo serraglio, che ci uccide e ci salassa. E non prendiamocela con le farmaceutiche, i cui bilanci periodicamente sussultano a causa di crediti per forniture andate disperse, nel caos di cui sopra, o di pagamenti degni di aggettivazione biblica.

Cosa fare, allora, se vogliamo evitare che al “risanamento italiano” sfugga proprio la Sanità, protagonista “storica” dell’emorragia finanziaria del denaro pubblico, visto che, prima della “deregulation” e del “decentramento” degli Anni ’90, i bilanci ospedialieri venivano bloccati di anno in anno per irregolatità diffuse riscontrate dagli allora “famosi” CoReCo, con tanto di massivi arresti e processi?

Poche cose, ma molto radicali.

  1. Rimappare la distribuzione dei siti ospedalieri in funzione della densità demografica, specialmente nelle grandi città che vedono le periferie del tutto sguarnite. Capisco che i “salotti buoni” vivano tutti nei centri storici e che potrebbero sentirsi “defraudati”, ma i fatti dicono che nel centro di Roma ci sono decine di ospedali, mentre nella fascia del GRA (dove vivono circa 3 milioni di romani) ce ne saranno 3-4.
  2. Aggiornare i servizi di pronto soccorso, DH per terapie “ambulatoriali” e guardia medica incrementandone la presenza sul territorio. Altrove i pronti soccorsi e la clinica per le urgenze sono gestiti a parte, rispetto al sistema ospedaliero, spesso da un apposito “servizo emergenze” che include anche i pompieri e la “riserva” (in caso di calamità o inquinamento grave). La vita delle persone non ha chilometri da percorrere in eccesso.
  3. Prevedere per i medici di base l’apertura dello studio per cinque ore quotidiane e la reperibilità nelle ore diurne, la gestione dell’attesa (ndr. certe ASL non contemplano le urgenze) a studio e la gestione del percorso di accertamento biodiagnostico e della clinica per le patologie croniche
  4. Attribuire all’Istituto Superiore di Sanità le competenze di legge in materia di regolamenti e classificazioni delle malattie e delle condizioni invalidanti
  5. Prevedere, per l’accesso alla dirigenza medica, lo stesso tipo di prove richieste per gli altri dirigenti riguardo il diritto, le procedure, la governance, il management, la gestione dei lavoratori ed il customer care
  6. Incrementare gli studi di medicina generale, di biologia e di farmacologia, di management nelle facoltà di medicina. Facilitare l’accesso alla professione medica per infermieri e biologi che operano all’interno di strutture ospedaliere
  7. Obbligare che i finanziamenti 5xmille siano destinati almeno per il 50% a servizi per i malati e le loro famiglie. Ma soprattutto verificare (sono anni che dovrebbe esser fatto) che il 5xmille non vada utilizzato per servizi istituzionali da parte degli ospedali, che sarebbero quelli costituzionalmente garantiti, o peggio ancora per scopi privati (ndr pagare i rimborsi degli associati …)
  8. Diritti per lo Stato su quei farmaci o quelle tecniche, che vengano sviluppati grazie al 5xmille od a donazioni comportanti sgravio fiscale, e che, viceversa, ci vengono rivenduti a caro prezzo
  9. Istituire Centri nazionali di coordinamento per la Malattie Rare (anche in joint venture tra diversi ospedali) e trasferimento di tutte le gestioni per questi malati (che spesso sono soggetti a problematiche continue od imprevedibili e serie) negli ospedali generali e nei presidi ambulatoriali delle ASL
  10. Introdurre un maggiore coordinamento per la biodiagnostica, introducendo sanzioni per i medici e gli ospedali che non operano in network o che lo fanno con modalità poco efficienti. Eliminare tutte le sale d’attesa che abbiano una capienza maggiore di 4-5 persone, come nel resto d’Europa: gli appuntamenti e le tempistiche vanno rispettati, le astanterie appartengono ad un poco scientifico e incivile passato. Tra l’altro, lo spazio ha un costo ed una utilità ed utilizzarlo per ammassare persone a causa della propria disorganizzazione è uno spreco talmente vistoso che riusciamo a non vederlo.

Richieste impossibili, vero?

Ma allora, se garantire un Servizio Sanitario Nazionale “normale” è impossibile, perchè non interviene la Magistratura, sia come Corte dei Conti sia come Presidenza della Repubblica?

Quanti cadaveri e quanti sprechi dovremo ancora subire per la ‘pazza’ governance sanitaria (il cosiddetto “buco nero”) e per l’intoccabilità dei medici – le statistiche professionali dimostrano” che, da noi, sono infallibili – visto che gli ospedalieri ed i sanitari sono stati, finora, degli ottimi collettori di voti per l’imperante cleptocrazia italiana?

E, soprattutto, perchè il Vaticano – notevolmente ed eticamente involved nella sanità e nella farmaceutica – tollera tutto questo, dimenticando che “di buone intenzioni è lastricata la strada per l’Inferno”?

N.B. Le immagini sono tratte da inquadrature del clip originale  “Natural Blues” di Moby, la canzone che fu utilizzata dalla RAI durante gli europei di Calcio di Euro 2000 come sigla iniziale dei programmi sportivi.
Bene, giusto per “visualizzare” quanta disattenzione vi sia in Italia verso la salute e la dignità della persona, guardatelo e, per piacere, chiedetevi come sia stato possibile per la RAI, televisione di stato, abbinare “questa canzone” ad una manifestazione sportiva dedicata a fiorenti e salubri atleti.


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Spending review: come dire tagli

18 Dic

Il ministri dello Sviluppo e quello della Coesione territoriale, Passera e Barca, che il governo Berlusconi aveva accantonato e che andranno a finanziare infrastrutture: ferrovie, porti, scuole, carceri.
Non è una gran cifra, solo per le scuole ne servono almeno il doppio, se non il triplo, e, dunque, non ci saranno infrastrutture se non arriveranno economie, ovvero tagli.

D’altra parte, è notorio che non si rilancia a costo zero la crescita, lo sviluppo, l’innovazione.

Così andando le cose, il governo ha avviato la mappatura della “spending review”, che Tremonti aveva previsto in Finanziaria e che l’Europa si attende.
Si tratta, in parole povere, di tagli di spesa “mirati”, per almeno 10-15 miliardi di Euro.

Un’anteprima sono quelli già contenuti nel decreto “Salva Italia” relativamente la Sanità, che ricadranno inevitabilmente sui malati e che, per ora, colpiscono medici e paramedici.
Visto che anche la lobby dei farmacisti ha ottenuto la sua postilla, la cosa inizia a sembrare paradossale.

Ma non solo.
Dove pensa di prendere, il governo Monti, le risorse necessarie a finanziare il rilancio della domanda e il welfare che serve per “gestire” almeno due milioni di disoccupati?
Dalla lotta all’evasione fiscale ed agli sprechi … in un paese dove il falso in bilancio è depenalizzato e dove i dirigenti pubblici sono assicurati, in caso di condanne, a carico dello Stato.

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Salute: chi è Renato Balduzzi

16 Nov

Il professor Renato Balduzzi è il nuovo ministro della Salute italiano.

Dal 2002 al 2009 è stato presidente nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale (MEIC, già Movimento Laureati di Azione Cattolica) e attualmente è componente per l’Italia dello European Liaison Committee di Pax Romana-Miic (Mouvement international des intellectuels catholiques) – Icmica (International Catholic Mouvement for Intellectual and Cultural Affairs).

Costituzionalista ed esperto di diritto sanitario, ha ricoperto l’incarico di Capo dell’ufficio legislativo del Ministero della sanità dal 1997 al 1999, presiedendo altresì la Commissione ministeriale per la riforma sanitaria.

Sappiamo tutti come è andata a finire quella riforma: più caos, meno servizi, più sprechi, più tagli, meno diritti, più costi.

Una riforma, quella sanitaria, che non era errata nei presupposti giuridici, quanto nelle managerialità, nei protocolli e nelle procedure.
Ci saremmo aspettati un tecnico e non un giurista, visto che i principali problemi che si abbattono sui nostri malati sono di tipo organizzativo, gestionale, procedurale, operativo.

Il postino bussa sempre due volte … speriamo che, almeno stavolta ci sia anche qualcosa per i malati, nel “pacco” di Natale, e non solo per i medici.

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