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La dignità (a tempo) dei riders

3 Lug

imagesIl comparto delle consegna a domicilio è in piena crescita ed i fattorini (riders) delle piattaforme online ricevono paghe bassissime, con assurdi algoritmi e condizioni di lavoro stressanti.

Il Governo è intervenuto e Foodora, Deliberoo, JustEat, Social Food, Mooveda, eccetera si sono (tardivamente) trovate d’accordo sulla carta dei diritti dei riders, ma la Cgil è sconfitta sulla natura subordinata del rapporto di lavoro.

Dovrebbe essere il classico ‘lavoretto’ per studenti e per lavoratori temporanei senza una qualifica, di sicuro non ci si arriva a fine mese, ma in Italia ci sono famiglie che cercano di tirare avanti così e ci sono persone che fanno questo lavoro da anni ed anni: questi i due focus.

Il Decreto Dignità risolve il problema?
Certamente.

Quello delle consegne a domicilio ritornerà ad essere il classico ‘lavoretto’ per studenti e per lavoratori temporanei senza una qualifica: massimo due anni e poi la Ditta chiama un nuovo fattorino e l’ex rider si cerca un altro lavoro … presso un’altra ditta di consegne a domicilio.

Demata

Google è un servizio pubblico

29 Nov

L’Italia e la Francia sono i due paesi dove la carta stampata è da cento e passa anni un enorme business, oltre che il principale fattore di controllo sociale.

Paesi dove da decenni accade che – grazie alla scarsa conoscenza delle lingue – si legge solo quello che gli editori decidono di tradurre e pubblicare, magari 20-30 anni dopo che l’opera, altrove, è diventata un best seller.
Paesi dove la produzione della carta è ‘da sempre’ una sorta di monopolio e dove le tipografie, ormai, sono in mano a pochi.

Va da se che Italia e Francia non vedano di buon occhio Google (come Amazon ed altri) e dove la francese Aurélie Filippettì, ministro, annuncia che ‘varerà una legge per obbligare la società di Mountain View (ndr. Google) a remunerare i giornali dei quali elenca i contenuti’, e come il Ministero del’Economia e Finanze italiano che vuole lanciare una battaglia, su segnalazione dell’on. Stefano Graziano (PD) contro l’erosione di base imponibile causata “dallo spostamento artificioso degli utili verso giurisdizioni maggiormente attraenti dal punto di vista fiscal”, come fa Google Italy, che imputa i suoi proventi alla casa madre in Irlanda.

Idee ed eventuali norme che stridono con il buon senso, se non addirittura con il diritto naturale.

Infatti, non sarà una gran perdità per l’Umanità non trovare i giornali francesi indicizzati sui motori di ricerca, visto che, a parte inglese, spagnolo, indiano e cinese, le notizie le possiamo leggere anche in giapponese, italiano, portoghese, cingalese, ashanti e urdu.

Ed infatti, non v’è alcun motivo per cui Google debba dotarsi di una filiale italiana, espondeosi ai balzelli die nostri governanti, se la casa madre di diritto e di norma sta in Irlanda. Anche in questo caso, non sono sessanta milioni di italiani a spaventare un network che copre 7 miliardi di persone e riesce ad andare d’accordo anche con la Cina Popolare e l’Iran.

Capiamo tutti – francesi, italiani od irlandesi – che, in tempi di magra, la gallina della uova d’oro di Mountain View faccia gola alle sanguisughe del fisco od agli editori di carta stampata. Purtroppo per loro, la Rete ha bisogno di un motore di ricerca per esistere ed un motore di ricerca non funziona, se viene condizionato da mille brame.

Forse sarebbe il caso di prendere atto che alcune tecnologie sono obsolete: è accaduto con il telefono a cavo, la macchina a vapore, il disco od il cd musicale, il montaggio cinematografico.
Non accadrà per il libro, non per i libri ‘veri’. Ma rotocalchi, quotidiani e foullieton sono robe dell’atro secolo.

Non sarà tassando la rete che si arresta il presente e si rallenta il futuro. Idee come quelle francesi ed italiane implicheranno solo che le nostre culture, già decadenti e recessive, finiranno per impoverirsi sempre di più e ad arricchire sempre di meno le altre.

Che altri risultati attendersi da due nazioni che da 200 anni, invece di rinnovarsi, vivono un delirio culturale anti-anglosassone – ieri verso austriaci e tedeschi, oggi che si oppone ad inglesi ed americani – con la Francia che, ormai da decenni, ha perduto ogni risonanza culturale a livello mondiale e con l’Italia che continua a partorire personaggi geniali, ma paradossalmente tutti o quasi figli di quel Sud che non esiste nei libri di storia, nei programmi finanziari e nelle scelte internazionali.

E poi ci sono le astruserie.

Ad esempio, le tasse od il ‘pedaggio’ lo si paga in base agli eventuali pagamenti oppure a fronte del traffico effettivo o anche in base alla nazionalità del visitatore e, infine, anche a seconda di dove effettivamente si trova il server?

Lasciamo, dunque, lavorare in pace Google, che è uno dei pilastri su cui si regge la bolgia di massa che sta diventando questo pianeta. E’ un servizio pubblico, anche se qualcuno proprio non riesce a capirlo.

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L’anacronistica Francia contro Google

23 Nov

In un mondo dove ormai solo i fratelli Wachowski od i Coen riescono a scrivere/girare film che trattino tematiche sociali, dove imperano i Bmovie (si fa per dire) di Tarantino e Rodriguez, dove il cinema inglese ‘vende’, arriva la ‘figlia della classe operaia’ Aurélie Filippettì, ministro francese, a spiegarci che così non va.

Non finanziamo film di nicchia senza mercato. Il cinema francese è fatto di pellicole d’autore, molti film di budget medio (sui 3 o 4 milioni di euro) ma anche film di cassetta come Asterix“.
Che bravi questi francesi … peccato che Luc Besson, Kassowitz ed altri ormai vadano ad Hollywood da anni per girare qualcosa di buono.

All’ultimo Festival di Cannes i cineasti di tutto il mondo in competizione erano quasi sempre co-finanziati dalla Francia“.
Qualcuno ci spieghi perchè a Cannes non vanno i film prodotti fuori della Francia, forse perchè non hanno alcuna possibilità di vincere? Protezionismo culturale o cosa?

Chiarito quanto sia bello (o meno bello) il cinema francofono, il ministro Filippettì ci spiega che, “se gli editori francesi, italiani e tedeschi non troveranno un accordo con Google entro la fine dell’anno, a gennaio la Francia varerà una legge per obbligare la società di Mountain View (ndr. Google) a remunerare i giornali dei quali elenca i contenuti. Vogliamo ribadire un principio: chi fa profitti distribuendo i contenuti deve contribuire a finanziarne la creazione.”

La Filippettì, evidentemente, non conosce Walter Benjamin, autore nel 1930 di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e si arrampica con precarie riflessioni affermando che “non è vero che i prodotti culturali sono prodotti come gli altri. Le leggi del mercato hanno difficoltà a funzionare in generale, come si vede, figurarsi nella cultura. Non è una questione morale, semplicemente a mio avviso solo così il sistema può funzionare, anche dal punto di vista economico“.

Lasciamo perdere la ‘strana idea’ di far pagare a Google l’indirizzamento verso i quotidiani ed i magazine on line, che, inevitabilmente, provocherebbe sia il definitivo trasferimento dell’informazione on line a favore dei blog (liberi e gratuiti a differenza dei media) sia serie difficoltà per i governi mitteleuropei, nei cui paesi i Piraten hanno conquistato anche il 10% dei consensi.

Lasciamo perdere anche perchè Aurélie Filippettì si dice «molto preoccupata per come Amazon si comporta in Europa. Ha un peso tale che rischia di trovarsi ben presto in posizione ultradominante. Sono andata a parlarne alla Commissione di Bruxelles, ma trovo il loro atteggiamento deludente».
Forse, se qualcuno del suo entourage le spiegasse che ormai esistono gli Ebook ed i formati pdf, la Filippettì si sarebbe risparmiata qualche delusione.

Parliamo della cultura e dell’arte, forse è meglio.

Il cinema, come la carta stampata, è industria ed intrattenimento, non cultura.

Solo una minima parte dei libri circolanti possono dirsi effettivamente originali, solo una parte, effimera, dei film esistenti può dirsi arte. Ed, in ambedue i casi, ‘arte’ è un canone fissato durante la seconda metà dell’Ottocento, partendo da una supposta creatività ed originalità dell’autore.
Peccato che Michelangelo, Delacroix e gli altri dipingessero quasi esclusivamente su commissione, che la ‘sequel’ degli artisti maledetti è durata la generazione di Van Gogh e Rimbaud, dopo la quale son diventati tutti miliardari, e che cosa diventi arte o cultura lo decidono i distributori, ovvero editori e produttori.

E prendiamo anche atto che, oggi, chi scrive un romanzo all’anno – come quelli che invadono librerie, scaffali e case – è considerato un artista ed una persona di cultura, mentre fino a 30-40 anno fa si intendeva ben altro, si parlava di feuilleton e romanzi d’appendice ...

L’arte non è di chi la fa, ma di chi se la compra. O, meglio, di chi la vende.

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Legge anti-Amazon: via al caro-libri

26 Set

Dal primo settembre non si possono più effettuare sconti sui libri superiori al 15%.

La soglia potrà arrivare al 20% durante le fiere librarie o per le offerte destinate ad istituzioni. Sono consentite le promozioni speciali, fino al 25%, dagli editori per una durata non superiore al mese.

Amazon, come diretto risultato di questa nuova legge, ha risolto il problema con un supersconto del 40% (fino al 1 settembre …) sugli oltre 235mila libri in italiano presenti nel suo catalogo. Dopo di che, difficilmente il colosso mondiale del libro si avvicinerà con interesse al paese, l’Italia, dove cartiere e stamperie sono quasi considerata come un affare di interesse nazionale.

Esultano librai, grande distribuzione ed alcuni editori, come riporta La Stampa: “È una legge fatta all’unanimità – spiega Paolo Pisanti, presidente dell’Associazione Librai Italiani (Ali), aderente a Confcommercio – e fissa quei limiti che ci permetteranno di competere su un mercato meno aggressivo di quello in cui ci troviamo oggi”. Non solo, “permette agli operatori indipendenti di evitare la concorrenza selvaggia delle massicce campagne di sconto delle grandi catene, dei supermercati e dei siti di vendita online” – aggiunge l’editore Giovanni Laterza.”

Protezionismo? Forse, ma non solo.

Non è un caso che la stessa Aie (Associazione italiana editori) sia disunita, dopo la presa di posizione dell’editore Mario Grimaldi in polemica con il presidente Marco Paolillo, convinto sostenitore della legge.

Infatti, i libri daranno maggiori maggiori ricavi sia per il prezzo bloccato e sia perchè ci arriveranno attraverso i supermercati e le librerie in cui non di rado gli editori hanno una compartecipazione.

I cittadini, viceversa, compreranno sempre meno libri e, comunque, di varietà minore, specialmente se non vivono con una libreria dietro l’angolo di casa.

Quanto ai libri, ne saranno tradotti di meno dalle lingue straniere, dilagheranno quelli di grande consumo, i poco redditizi “grandi classici” saranno sempre pù sommersi da “nuovi autori” dal successo breve.

Più che un’industria culturale, quella del libro in Italia somiglia sempre più alla televisione: intrattenimento e consenso.

Questi sono i risultati, piuttosto prevedibili anche se non auspicabili, della legge Levi, conosciuta anche come “legge anti Amazon” e già a luglio l’Istituto Bruno Leoni aveva presentato al Presidente della Repubblica una petizione, firmata da associazioni ed esperti del settore contro l’introduzione della legge.

Ovviamente, in un paese dove il mercato del libro vale solo 1,5 miliardi di euro l’anno (la metà di quello della sola Nutella), nessuno pensa che docenti e genitori potrebbero educare maggiormente alla lettura i bambini ed i giovani. Oppure che in una penisola zeppa di stazioni televisive, si possa sostenere la lettura (e la cultura) senza ridurre l’enorme fetta pubblicitaria che viene fagocitata dalle televisioni?

Così andando le cose, da circa un mese, abbiamo una legge che di fatto limita l’accesso all’informazione ed all’istruzione, sia come pari opportunità sia come libertà individuale, obbligando l’acquisto dei libri ad un prezzo “uguale per tutti” stabilito all’origine.

Non ci resta che prender atto della necessaria ovvietà di tutta questa storia: che, in Italia, il paese di Berlusconi e Di Benedetti, il valore di un libro è predeterminato sulla copertina dall’editore e non risponde alle logiche di libero mercato.

Incredibile, ma vero.

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