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Diritto alla salute: l’Italia deregola l’inquinamento?

10 Lug

Non tutti si sono accorti che il Governo Letta ha inserito nel “Decreto del Fare” una modifica del Testo Unico sull’Ambiente D.lgs. 152/2006, che prevede come, “nei casi in cui le acque di falda determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile, devono essere adottate misure di attenuazione della diffusione della contaminazione”.

Eliminazione della fonte di contaminazione, solo “ove possibile ed economicamente sostenibile”? Solo misure di “attenuazione della diffusione della contaminazione”? E se l’attenuazione non bastasse, come sembrano necessitare alcune località campane, cosa si fa? Si procede allo sgombero dei residenti che siano in “una situazione di rischio sanitario”, come a tal punto di dovere?

Una testo normativo, dunque, che afferma la prevalenza degli interessi economici sul diritto alla salute, garantito dalla Costituzione e tutelato dalle istituzioni, e ad un ambiente salubre, in contrasto con diversi principi affermati dall’Unione europea in sede di propria normativa. Vale la pena di sottolineare che persino in Danimarca accade, ormai, che la classe politica sia accusata di inerzia ed inettitudine verso i sempre maggiori problemi ambientali e le ricadute sulla salute delle persone (Rapporto Sundhed).

Il punto è che in Italia la situazione per la salute pubblica in diversi territori è particolarmente critica, come denunciato dalle autorità sanitarie e come accluso ad atti processuali, al Nord come al Sud.

Una situazione che Donato Greco, epidemiologo e consulente dell’Istituto Superiore della Sanità, – pur contrario ad allarmismi a proposito del Rapporto Balduzzi sulla situazione epidemiologica in Campania – non esita a definire “ciclo degenerato”, parlando non di ‘meridionali incivili’ bensì di “responsabilità politiche del passato”.
Infatti, nella sola Campania – secondo il rapporto Ecomafia 2010 di Legambiente – sono oltre 5.200 i siti potenzialmente inquinati, soltanto 13 siti hanno ottenuto la certificazione di avvenuta bonifica e si stima che nell’intera fascia di territorio fra Napoli e Caserta solo il 15% dei siti sia stato liberato dai rifiuti e dai loro resti. Secondo  l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania (ARPAC) sono almeno 461 quelli con un alto livello di inquinamento.

L’Unità del 10 dicembre 2012 raccontava come gli “scarti industriali tossici dell’Acna di Cengio finivano nelle discariche del napoletano e nella falda acquifera, inquinando acque usate per irrigare e per bere, grazie a un’azienda, la Ecologia 89, costituita appositamente dallo storico boss dei «Gomorra» Francesco Bidognetti e da altre persone contigue al clan dei Casalesi di Casal di Principe.”
Lo Studio SENTIERI dell’Istituto Superiore di Sanità ha dimostrato l’enorme impatto sanitario con migliaia di morti in più rispetto al campione di controllo nei 37 siti monitorati, per patologie causate dalle sostanze e dai materiali sversati dai clan camorristici per due decenni, con un via vai lungo la penisola di rifiuti pericolosissimi, senza colpo ferire.
Una situazione che ha avuto origine da una legge sui danni ambientali che consente la prescrizione a cinque anni ed, evidentemente, anche da criteri nazionali di controllo  inefficaci, vista l’assenza di indicatori che evidenziassero, fin da principio, la facilità ed i bassi costi con cui tante aziende del settentrione smaltivano di tutto di più in Campania.

Siti inquinati in Campania

Storia passata, ormai archiviata dai Palazzi di giustizia, spesso prescritta, ma in alcune località della Campania la situazione è gravissima, con allarme internazionale per la salute delle persone, e, passando al resto delle regioni meridionali, basta un click su Google per trovare decine di link alle news locali, che raccontano di tanti e troppi smaltimenti ‘fai da te’, come accaduto per i comuni della ‘valle del fiume Oliva’, di Cadelbosco, Gualtieri e Amantea, Bagnolo, Rende e  Rapino, Melfi e Novellara, eccetera.

Una norma, quella introdotta nel “Decreto del Fare”, particolarmente scandalosa, perchè in Campania – visto il tasso di malati di tumore e di altre patologie causate dall’inquinamento – dovrebbe essere lo Stato ad intervenire, perchè non ha adeguatamente vigilato a suo tempo, perchè, oggi, una parte dei luoghi inquinati sono sotto sequestro e, soprattutto, perchè i Comuni preposti non hanno risorse e territorio per intervenire per portare a conclusione un’emergenza in cui, ricordiamolo, è nata e cresciuta ormai un’intera generazione di bambini e di giovani aldulti.

Infatti, è accaduto che un enorme massa di rifiuti ‘classified’ si spostasse per anni e anni ‘dal Nord passando da Roma per arrivare in una delimitata area della Campania’, nonostante il «97 per cento del territorio della provincia di Napoli sotto vincolo», come scriveva, nel 2011, il presidente della Provincia di Napoli, Luigi Cesaro, a Gianni Letta, chiedendo poteri speciali per l’ennesima emergenza rifiuti.
Come è lo Stato che dovrebbe tutelare cittadini, famiglie, bambini, rimuovendo gli agenti inquinanti che sono collocati in aree sotto sequestro amministrativo.

Un inquinamento del sottosuolo, in alcune zone della Campania, che raggiungerà  il suo culmine nel 2064 quando le oltre 65.000 tonnellate di percolato contamineranno irrimediabilmente le falde acquifere sottostanti uno dei territori più fertili del Mondo, dove vivono circa due milioni di persone.

Un diritto alla salute che si prospetta salatissimo per le casse dello Stato se la missione della Protezione civile incaricata di chiudere la contabilità di 17 anni di emergenza si è vista presentare, due anni fa, un conto da 3,5 miliardi di auro da quasi un migliaio di creditori, tra cui in prima fila Fibe e Fisia, le imprese del gruppo Impregilo che pretendono 2 miliardi e 400mila euro, dei quali 1,5 solo per il danno d’immagine.

E’, dunque, difficile comprendere come possa uno Stato di diritto, incardinato nell’Unione Europea, legiferare di provvedere “all’eliminazione della fonte di contaminazione (solo) ove possibile ed economicamente sostenibile” e di poter adottare “misure di (sola) attenuazione della diffusione della contaminazione” in Terra di Lavoro.

Difficile da comprendere, ma non impossibile se, poi, l’Italia è anche il paese del ‘trasporto su gomma’, in cui non ha avuto nessun riflesso nè che l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) aveva proposto pedaggi stradali per i veicoli pesanti “inclusivi” dei costi/gli effetti sulla salute causati dall’inquinamento nè, soprattutto, che, dal 2011, la direttiva Eurovignette prescrive agli Stati membri dell’Ue di integrare i costi sanitari da smog per gli oneri darivanti dal traffico ‘industriale’ sulle strade di grandi dimensioni e sulle autostrade.
Secondo l’Aea, l’inquinamento atmosferico causa 3 milioni di giornate di malattia e 350 mila morti premature in Europa e, secondo gli autori del rapporto, il ‘danno’ economico in termini di salute e impatto ambientale, derivante dai soli autocarri in Europa, è quasi il 50% del totale derivante dall’inquinamento dell’aria di tutti i veicoli, imbarcazioni e velivoli. tutti i trasporti, nell’ordine dei 45 miliardi di euro annui.
I residenti di tante città letteralmente attaversate o abbarbicate da/ad autostrade sono avvisati, come lo sono gli amministratori delle loro Regioni e dei loro sistemi sanitari.

Un diritto alla salute costituzionalmente garantito, che se – in barba a qualunque elementare diritto derivante dalla cittadinanza o anche dalla mera sudditanza – non venisse tutelato, almeno nel caso campano, diventerebbe l’ennesima conferma delle tesi che, nel 1861, si trattò di annessione coloniale, specialmente dopo che i dati ‘storici’ ci raccontano come il Meridione venne deindustrializzato, agli inizi degli anni ’90, proprio mentre aveva superato il livello di produzione del Settentrione ed aveva, evidentemente, un potenziale che, oggi, farebbe comodo all’Italia tutta.
Non una pulizia etnica come quella messa in atto dagli Yankee a danno degli Indiani, diffondendo coperte infettate di vaiolo, ma la questione degli scarti industriali del Settentrione – ILVA di Taranto inclusa – porterà lacrime e lutto per troppo tempo per poter essere abbandonata al corso degli eventi.

Una questione non del tutto desueta,  se nel circuito europeo delle autonomie locali rimbalza la rivendicazione dei Meridionalisti Democratici, che ricordano ai “parlamentari eletti nel Sud” come la norma in questione “intacchi ulteriormente la salute dei loro elettori, mentre tutela le imprese del Nord che sono responsabili, secondo recenti rivelazioni di magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine, dello sversamento di rifiuti tossici che hanno causato l’inquinamento territoriale delle falde acquifere di ampie zone della Campania, Puglie e Calabria”.

Una questione – quella dell’inquinamento e della salute pubblica – in cui campani e meridionali sono accomunati ai settentrionali ed ai romani, visto che quella che crolla oggi è anche l’economia ‘drogata’ dai bassi costi di smaltimento, dalla troppa facilità operativa e dai rapporti con le Ecomafie, ma anche un sistema dei trasporti su gomma che funge da volano occupazionale e che produce ‘qualcosa’ che non solo viene respirato, ma finisce anche nei materiali che ci circondano, nelle falde acquifere e sulla nostra tavola.

A proposito, nella spesa pubblica degli stati europei, oltre a spendere meno di noi in generale, riescono anche a metterci le risorse per evitare, controllare e sanare i rischi per la salute dei cittadini derivanti dall’inquinamento dell’ambiente …

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Senza informazione non c’è democrazia

13 Giu

Ripubblico, in stralcio, un articolo (link) di Alessandro Citarella, segretario provinciale per Napoli del Partito del Sud .

Gli stessi poteri che vogliono che il Sud rimanga una colonia interna cercano di ridurre lo spazio democratico ed eliminare la pluralità delle fonti d’informazione.”

“E’ particolarmente interessante notare che esiste un fondamentale accordo, anche se tacito, fra gli attuali e i recenti governanti neoliberisti di centrodestra e quelli precedenti della coalizione pseudo socialdemocratica di centrosinistra, sia nella trasformazione in senso negativo della prassi politica, sia nella sottomissione degli interessi della popolazione rispetto a quelli della Banca Centrale Europea.

La stessa entrata dell’Italia nell’Euro, eseguita con condizioni capestro e di sicuro svantaggio per i lavoratori e per i risparmiatori, è stata gestita proprio dalla coalizione di partiti della coalizione pseudo socialdemocratica di centrosinistra, la quale, almeno in linea teorica, dovrebbe essere più vicina alle classi più deboli.

In questo quadro di riferimento, si è potuto assistere alla trasformazione dell’uso degli organi d’informazione, sia televisivi sia in carta stampata, che sono diventati dei semplici strumenti di propaganda e di orientamento politico che mirano a catalizzare l’attenzione dei cittadini verso argomenti frivoli e secondari per distrarli totalmente dall’involuzione della democrazia e dall’assoggettamento ancora più marcato della politica economica nazionale nei confronti dei poteri forti europei e internazionali.”

I pochi organi di stampa e le televisioni non in linea con il potere fanno battaglie in salita, specialmente a causa della concorrenza sleale fatta da sovvenzioni pubbliche generosamente elargite ai vari personaggi del sottobosco politico corrotto e corruttore, e da un drogaggio dei “mercati dell’informazione”, dove cambiando troppo spesso burocrazia e i relativi costi si piega o si elimina la concorrenza di quei soggetti inclini all’autonomia e all’imparzialità.

“Non è un caso che l’Italia continua a scendere nelle classifiche mondiali relative alla corruzione e all’obiettività dell’informazione, ma è una precisa scelta di potere: portare il pubblico verso una rosa ristretta di testate televisive e giornalistiche fortemente orientate dalle proprietà verso un preciso quadro politico, distraendolo del tutto o in larga parte da scenari “socialmente pericolosi” per chi detiene il potere.

In un quadro di forte interferenza nel mondo dell’informazione, diventa semplice creare notizie su persone e organizzazioni puntualmente pubblicizzate in maniera scientifica in precisi momenti, anche nella forma dei famigerati “dossier” che sembrerebbero, a prima vista, ben documentati, dando vantaggi strategici apparenti a una delle parti politiche contrapposte.

In realtà il gioco delle parti, le finte opposizioni, i richiami a fantomatiche unità nazionali e a sensi di responsabilità servono solo a conservare il potere detenuto dai soliti noti, con l’obiettivo di emarginare e sopprimere quei movimenti realmente capaci di proporre cambiamenti alle regole del gioco e che vorrebbero restituire la decisionalità ai cittadini, togliendola a quel ristretto novero di “decisori” in cima alla piramide economico-finanziaria.

E’ questa la stessa piramide che nel nostro Paese è stata responsabile della creazione della colonia interna chiamata “meridione” attraverso l’annessione forzata al Piemonte dei territori del Regno delle Due Sicilie 151 anni fa.

Il massacro della popolazione e la spoliazione dei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie hanno permesso che l’Italia “unita” seguisse un modello planetario dove ci sono un “nord” ricco e un “sud” colonia, cardine di un sistema di disuguaglianza dei diritti, dove l’uno non può essere uguale all’altro.

Insomma, “liberté, égalité, fraternité”, ma solo per chi appartiene al “club”.

“E’ necessario, pertanto, per un Partito che vuole difendere gli interessi delle popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, lottare a livello nazionale con forza contro i poteri che oggi cercano di ridurre lo spazio democratico ed eliminare la pluralità delle fonti d’informazione, perché questi sono gli stessi poteri che vogliono che il Sud rimanga una colonia interna.

La lotta politica per la difesa della democrazia e della pluralità dell’informazione è una lotta meridionalista a tutti gli effetti, che deve essere abbinata a quella per la verità storica, per l’uguaglianza dei diritti e delle opportunità.

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Comune di Bologna: uno schema finanziario collaudato

17 Mag

Virginio Merola (Partito Democratico) è il sindaco di Bologna, un comune che è il maggiore azionista di Hera S.p.A. con una quota di azioni pari al 14,76 % e, tramite questa, controlla (100%)  HERA COMM, la quale si occupa di vendita di gas ed energia elettrica ed a sua volta detiene il 50,01% di HERA COMM MEDITERRANEA la quale si occupa di produzione, acquisto, trasporto e vendita di energia, mentre il restante 49,99% è detenuto dalla società S.C.R. s.r.l. con capitale coperto da segreto fiduciario e scelta senza gara ad evidenza pubblica. Il Gruppo Hera è il secondo operatore italiano nella gestione del ciclo idrico integrato, ovvero dalla raccolta alla depurazione delle acque reflue fino alla distribuzione di acqua potabile, ed è anche il principale operatore nazionale nel settore ambiente per quantità di rifiuti raccolti e trattati.

Tra l’altro, come formalmente dichiarato a bilancio comunale, “la raccolta differenziata è particolarmente bassa nel Comune di Bologna (36%),  rispetto agli standard richiesti in sede comunitaria (65% entro il 2012).”

Un Comune, quello di Bologna, che alla chiusura del consuntivo 2011 metteva a bilancio ben 12.5 milioni di euro di avanzo economico di parte corrente pari. Risorse che non il sindaco della città ed il consiglio comunale non intendono destinare alla spesa corrente, riducendo tributi e invrementando i sussidi, e che verranno destinati “cura della qualita’ urbana della città” pur di non protestare contro il Patto di stabilità.

Un bel conflitto di interessi, di questi tempi, visto che la crisi dovrebbe indurre il Primo Cittadino a non innalzare il costo delle forniture acqua-gas-luce, se si volesse essere attenti ai cittadini, e non viceversa innalzarlo, come accade, dato che si pensa solo alla cassa ed alla spesa.

Utile aggiungere che il Comune di Bologna controlla anche Interporto Bologna  S.p.A. (35,1%), con ricavi, nel 2007, superiori ai 22 milioni di Euro, e che dagli utili, che questa società  si propone di ottenere, dipende sostanzialmente il prezzo al banco di qualunque prodotto transiti da lì.

Un bel balzello sulle spalle degli altri italiani che permette al Comune di Bologna di mantenere “fiori all’occhiello” a spese di altri.

Un Comune che annuncia (esultante?) che “tra i principali risultati ottenuti con le più recenti modifiche normative, vi sono l’esclusione dall’IMU degli immobili comunali e la possibilità di assimilare alla prima abitazione quelli non comunali (di proprietà Acer) destinati a Erp o Ers, così come quelli dei soci di cooperative a proprietà indivisa” , oltre che forti riduzioni per le imprese.

Mica alleviare i cittadini, visto che si tratta di “un Comune quasi totalmente autonomo da un punto di vista tributario e finanziario”, bensì finanziare la Casta e la folle spesa pubblica, per sostenere la quale il Sindaco e la Giunta bolognesi hanno già introdotto, per i servizi educativi nel corso del 2012, alcune significative innovazioni nell’utilizzo dell’ISEE (Indicatore di situazione economica equivalente) e che ulteriori modifiche saranno introdotte “al fine di conseguire maggiore equità e selettività nelle modalità di accesso e contribuzione ai servizi”.

Ma non solo, visto che la Giunta di Virginio Merola, con i tempi che corrono è riuscita a deliberare, per il 2012, · risorse aggiuntive per 1,6 milioni di euro “per estendere la rete e potenziare la manutenzione degli impianti di rilevazione automatica delle infrazioni al codice della strada”, mezzo milione di Euro per il bike-sharing ed un altro mezzo milione per “potenziare le azioni di recupero dell’evasione”. Importante aggiungere, riguardo ll’utilità di queste spese, che l’Emilia Romagna nel solo 2010 ha speso quasi 2 milioni di euro per il bike sharing, che è la regione con il più basso rischio di evasione fiscale e che il numero di feriti negli incidenti stradali a Bologna è relativamente costante dal 1995.
Tra l’altro, essendo il debito comunale nell’ordine dei 300 milioni, secondo alcune stime, davvero non si comprende come possano i revisori dei conti tollerare interessi passivi a fronte di somme eccedenti od accantonate.

Ritornando ad Hera spa, sia il Fatto Quotidiano sia la Voce di Romagna, raccontano una “strana” vicenda iniziata dieci anni fa, quando la società SCR – quella coperta da “segreto fiduciario” e indicata dal Fatto Quotidiano come vicina alla famiglia Cosentino tramite una fiduciaria – compra per tre miliardi e 715 milioni di lire (1,9 milioni di euro) l’area industriale della ex Ceramiche Pozzi di Sparanise (CE), un prezzo a dir poco stracciato, dato che il sito non aveva  i permessi per ospitare impianti energetici o per il trattamento rifiuti.  Nel 2001, l’area viene rilevata da AMI spa (azienda controllata dal Comune di Imola) proprio poco prima che il Comune di Sparanise cambi la destinazione d’uso dei terreni, consentendo la costruzione di una centrale a turbogas da 800 megawatt, e prima che la stessa AMI spa si fonda con altre ditte emiliano-romagnole, diventando Hera. Un’area che già nel 2003 Hera aveva provveduto a vendere a Calenia Energia, a sua volta ricomprata, nel settembre 2004, dalla  “stessa” Hera e dalla “quella” Scr collegata all’onorevole Nicola Cosentino per il 15%  e per il restante  85% del capitale dalla svizzera Egl.
Nel 2008 Hera Comm Med, società commerciale di Hera (nel cui cda siede Giovanni Cosentino, fratello di Nicola), cui è intanto è passato il controllo del 15 % della centrale, dichiara ricavi per 40 milioni di euro ed utili per 6 milioni e mezzo, dei quali  non vi è traccia nei dividendi e nei bilanci delle giunte romagnole e della multiservizi bolognese (fonte Voce di Romagna).

Non deve dunque meravigliare se il sindaco bolognase Virginio Merola segua con trepido interesse le vicende campane sia riguardo i rifiuti sia riguardo il caso Equitalia e sulle proteste scoppiate in tutto il paese, chiedendo «una grande manifestazione contro l’evasione fiscale», aggiungendo  «non come a Napoli dove contro Equitalia sono scesi in piazza cittadini e camorra».

Ciò che dovrebbe meravigliare è che nessuno ancora si sia accorto di come l’Emilia Romagna e le sue giunte rosse e bianche vantino un “successo gestionale” che si fonda su indebitamenti sine die, gestioni separate o parallele come quelle delle ex-municipalizzate, speculazioni su aree meno sviluppate del paese amministrate da “giunte amiche”, pressione fiscale ossessiva o poco trasparente.

Non meraviglia neanche che, ancora oggi, proprio negli impianti di Imola vadano a finire migliaia e migliaia di tonnellate di rifiuti campani e che a lucrare sulla “monnezza di Napoli” ci siano emiliani e romagnoli.

Come non meraviglia che, non Bersani e non Vendola, ma Giovanni Favia, consigliere comunale bolognese del Movimento Cinque Stelle (link), sostenuto dal Partito del Sud campano (vedi link) abbia presentato un ordine del giorno dove si chiede al Sindaco di Bologna di “adoperarsi affinchè persone delle quali non può essere garantita l’onestà e l’estraneità al mondo della camorra, non siedano all’interno di società partecipate dal comune”.

Utile sapere, però, che Virginio Merola è bolognese d’adozione, essendo nato a Santa Maria Capua Vetere, comune casertano limitrofo proprio a Sparanise, dove è nata anche la moglie dell’ex ministro alle telecomunicazioni, Mario Landolfi (PDL), rinviato a giudizio per presunti favori alla camorra, e dove dal 16 al 26 gennaio scorso è stato cercato come “sparito” l’ex sindaco, Salvatore Piccolo, un avvocato che aveva difeso gli interessi del boss Giuseppe Papa, poi “riapparso” adducendo «questioni strettamente personali».

… e che, come riportato dal giornalista Massimiliano Amato nel libro “Il casalese”, edito da “Cento Autori”, la centrale di Sparanise (una “creatura” di Giovanni Cosentino, fratello del deputato Nicola) sancisce l’inizio di un “consociativismo” negli affari tra imprenditori collegati alla camorra e politici, che travalica qualsiasi possibile distinzione tra sinistra e destra.

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Equitalia is evil !!!

9 Mag

Ripubblico in stralcio un interessante post di Alessandro Citarella, Segretario Provinciale di Napoli del Partito del Sud, intitolato: Equitalia: un “carrozzone” come mano del demonio.

 

“Equitalia è una S.p.A. a capitale interamente pubblico, detenuto per il 51% dall’Agenzia delle entrate e per il restante 49% dall’INPS, e svolge attività di agente della riscossione per conto dell’Erario, degli enti pubblici di previdenza e assistenza, e di altri numerosi enti pubblici statali e non statali.  Dalle analisi svolte dalla Corte dei Conti, l’attività di riscossione coattiva dei tributi e dei contributi svolta da Equitalia negli ultimi anni si è notevolmente intensificata, tanto che gli incassi sono più che raddoppiati nell’arco di un quinquennio, passando da 3,8 miliardi di euro a quasi 8,9 miliardi di euro.”

“Purtroppo, la crescita degli incassi dipende, in buona parte, dall’inasprimento delle forme di coercizione e delle sanzioni accessorie addebitate ai destinatari delle cartelle esattoriali.  In particolare, negli ultimi tempi si sono  moltiplicate le norme per eliminare ogni possibile ostacolo alla riscossione degli importi, attenuando le garanzie che  nostro ordinamento riserva al contribuente. Equitalia ha intensificato  la propria attività , producendo nel solo 2010 oltre un milione 800 mila cartelle esattoriali, 577 mila fermi amministrativi, iscrivendo 135 mila ipoteche e 133 mila pignoramenti, e sono state 542 mila le istanze di fallimento di imprese e contribuenti direttamente ascrivibili alle azioni di Equitalia nei loro confronti.”

“L’aggio di riscossione riconosciuto a Equitalia sulle cartelle esattoriali è oggi stabilito nel 9%, di cui 4,65% cento a carico del contribuente se il pagamento avviene entro 60 giorni dalla notifica della cartella esattoriale o per intero se si supera tale limite; se un debitore dovesse saldare una propria cartella esattoriale dopo un anno dalla notifica si troverebbe a pagare oltre l’11% a titolo di vari interessi più una sanzione  del 30% e un aggio di riscossione nella misura del 9%, per un totale superiore al 50%; la norma contenuta nel decreto  “salva-Italia” prevede la revisione della misura del predetto aggio, ma  dalla fine del 2013, troppo lontana nel tempo per le imprese che chiudono per la crisi economica.

È grave che a fronte dell’intransigenza con la quale la Pubblica Amministrazione richiede alle imprese l’adempimento degli obblighi fiscali, poi paghi i propri fornitori con un ritardo medio di 86 giorni e punte di 500 giorni — in Francia i tempi medi di pagamento sono di 22 giorni, nel Regno Unito di 19 giorni e in Germania di 11 giorni.”

“Ogni cittadino o impresa vuole invece un comportamento leale e trasparente dello Stato sia quando è creditore sia quando è debitore.”

Leggi anche l’intervento del Presidente Onorario della Corte di Cassazione su Equitalia, il diritto di protestare

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