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Finmeccanica, un imperdibile futuro italiano

24 Ott

Finmeccanica è un’azienda a partecipazione pubblica, di cui il MEF ha il controllo con il 30,2% del pacchetto azionario, mentre il 70% degli azionisti detiene il resto, diviso tra diversi  investitori istituzionali (46%) e privati (23,8%). Il Capitale sociale è di euro 2.543.861.738,00,  rappresentato da 578.150.395 azioni ordinarie del valore nominale di Euro 4.40.

Una colosso industriale mondiale controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, non da quello delle Infrastrutture come logica vorrebbe. Nel primo caso una rendita, nel secondo un investimento. Nel primo un costo per lo Stato che immobilizza capitali, nel secondo caso un ricavo per il paese in termini di valore aggiunto, know how, occupazione, rendita fiscale e previdenziale, autonoma capacità difensiva ed energetica.

Finmeccanica, un gigante italiano che rischia di implodere se, come sembra, si andrà alla fusione tra il colosso franco-tedesco Eads e quello britannico Bae Systems, mentre  Thales, Dassault, Safran – sono da sempre il ‘core’ del complesso industrial-militare della Francia post-coloniale. In un mondo dove sempre più brevetti e tecnologie saranno registrati in Cina Popolare e in India.

Finmeccanica, un’azienda che è innanzitutto scossa dagli scandali che raccontano di tangenti e big della politica, ma che preoccupa ancor di più per le scalate o le svendite che potrebbero spoliarla dei suoi gioielli od da salvataggi dalle gambe corte, come quello dispendiosissimo di Alitalia, azienda che ha notevolmente contribuito ad affossare il debito pubblico italiano.

Scrive “lo Stato è il socio di controllo di Finmeccanica, soggetto venditore, ma anche della Cassa depositi e prestiti che sta costruendo una proposta d’acquisto alternativa a quella di Siemens per Ansaldo Energia, e pure delle Fs, principale cliente e partner tecnologico di Ansaldo Trasporti, oggetto del desiderio della giapponese Hitachi. Qual è l’interesse del Paese? Lo dovrebbe stabilire la politica industriale. E però se il governo non vuole o non sa dare linee guida al management , allora dovrebbe assumersi la responsabilità di mettere all’asta Finmeccanica. Scelga. Non si lasciano languire così le aziende di cui si è padroni. A beneficio dei padroni prossimi venturi.”

Stiamo parlando, infatti, della ‘corporation’ pubblica molto interessante per investitori e speculatori, oltre che strategica nel settore ‘difesa’, dato che controlla (asset più asset meno) AgustaWestland N.V., Agusta S.p.A., ST Microelectronics Holding II B.V, STMicroelectronics N.V., Aeromeccanica S.A., gruppo Avio, Alenia Aermacchi, Ansaldo Energia, AnsaldoBreda, BredaMenarinibus, Fata, Oto Melara, Trimprobe, Telespazio Holding, Finmeccanica Group, Finmeccanica Finance, Finmeccanica Group Real Estate, Finmeccanica North America, Finmeccanica UK LTD, DRS Technologies, ElsaCom N.V., ElsaCom, Seicos, Selex Elsag, Selex Service Management, Selex Sistemi Integrati, So.Ge.Pa.,  Whitehead Alenia Sistemi Subacquei, Eurosysnav, Orizzonte – Sistemi Navali, Europea Microfusioni Aerospaziali, Thales Alenia Space, Elettronica, European Satellite Navigation Industries GmbH, Galileo Industries, MBDA, Nahuelsat, NGL Prime.

Qualcosa, dunque, di cui l’Italia non può e non deve affatto privarsi, dato che Finmeccanica non Alitalia ed ha portato ricavi, nel 2011, per 17.318.000.000 di euro. Una solida realtà che, se vuole e deve restar tale, non può affidarsi a cordate italiane deboli od improprie.

Ad esempio, è poco ragionevole che lo Stato italiano declassi la propia presenza in Finmeccanica a mero fund rising, tramite la Cassa Depositi e Prestiti del MEF, anzichè il ministro del MEF, ovvero il Governo ed il Parlamento, in prima persona. Tra l’altro, visto che gli investitori istituzionali e privati sono in tot o tanta parte stranieri, il ‘declassamento’ comporterebbe ipso facto una forte perdita di ‘italianità’ da parte dell’azienda. L’ingresso di Siemens comporta il rischio di un semismantellamento come per Thyssen e siderurgia varia italiana o per Chrysler e forza commerciale di FIAT
Quanto ad Ansaldo Trasporti, sarebbe ben più logico diventi – eventualmente – lei la controllante, e non la controllata, di FS,  un gestore di rete ferroviaria in perenne sofferenza, ristrutturazione ed innovazione. Caso mai sarebbe corretto il contrario. Come per Siemens, l’ingresso di Hitaci appare molto più conveniente per la ditta del Sol Levante che per la nostra.

Cosa fare con Finmeccanica allora?

Iniziamo col dire che solo il 3,36% dell’azionariato istituzionale è italiano, la restante parte è sostanzialmente anglo-statunitense. Dunque, è difficile che Londra o New York intendano incrementare la propria presenza nell’impresa. E che da ENI, FIAT e Finmeccanica dipende la sopravvivenza dell’Italia nel mondo industrializzato come realtà autonoma e decisionale, mentre la terziarizzazione ed i flussi turistici ci porrebbero in balia di scelte altrui, come è accaduto per la Spagna.

Ci sarebbero un paio di riflessioni.
La prima questione è che Finmeccanica deve restare italiana: il gettito di ricavi che comporta è un attivo che brilla come una gemma rara nei bilanci pubblici. Cedere il 30% per declassare il nostro debito pubblico è segliere l’uovo oggi rinunciando all’uovo di domani.
Ma non è trasferendola a Cassa Depositi e Prestiti o FS per risollevarne i bilanci, che si fanno scelte per il futuro: si continua a mantenere in vita un passato che forse non esisteva più già 35 anni fa.

La seconda riflessione è che – tanto per dirne una – se partner interessanti come Siemens e Hitaci vogliono entrare nel business, esistono, tra le aziende su elencate, ampie possibilità di negoziare quote detenute anche al 100% da Finmeccanica. Come anche che il 30,2% controllato dal MEF potrebbe ‘diventare’ una società creata ad hoc che, pur restando a controllo statale italiano, potrebbe permettere ai partner di sentirsi garantiti.
Non abbiamo (ancora) bisogno di affittare il Pireo ai cinesi … e, dopo ‘il senso di responsabilità’ mostrato dai cittadini italiani in questi anni e mesi, meriteremmo che Siemens-Germania e Hitachi-Giappone entrassero nel business, ma in punta di piedi, sostenendo un paese amico e facendo un buon affare.

Non è un caso che il Corriere della Sera incalzi: “il ministro Vittorio Grilli, d’intesa con i colleghi allo Sviluppo economico e alla Difesa, Corrado Passera e Giampaolo Di Paola, batta un colpo. Il premier Mario Monti si assicuri che venga battuto presto e bene.

Possibile, impossibile?
Dipende dal mediatore (nel caso presente il ministro dell’Economia Grilli) e dai margini concessigli: c’è chi ha venduto frigoriferi agli eschimesi … ma, probabilmente, aveva massima autonomia.

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Cronache di un’Italia colonizzata

22 Ott

Mario Monti spera che «grazie a noi si dica che l’Italia non è stata colonizzata dall’Europa e ha mantenuto la sua sovranità».

Quasi in simultanea, però, TGcom24 ci informa che “non c’è stato nessun incontro a Palazzo Chigi sul futuro dei vertici di Finmeccanica“, dopo che la Uilm aveva annunciato “che Finmeccanica ha confermato di voler passare “da una quota di maggioranza a una di minoranza” in Ansaldo Energia, l’azienda genovese oggetto di trattative per una dismissione, e ha confermato anche trattative con un partner “estero” per la cessione di Ansaldo Breda.

Riguardo gli F35, “l’impianto Final Assembly and Check-Out (FACO) sulla base aerea novarese partirà a regime ridotto, con inevitabili aggravi di costo cui si aggiunge per il Governo – che li ha spesi – l’onere di recuperare i circa 800 milioni di euro investiti per realizzare la struttura. … Non mancheranno tuttavia di avere conseguenze almeno indirette sul nostro Paese i nuovi contrasti fra Pentagono e Lockheed sulla conduzione complessiva del programma, con una sovrapposizione di attività che porta a risultati negativi sul piano del costo-efficacia … Il Pentagono è preoccupato fra l’altro per le difficoltà di sviluppo del software dell’aereo, la non corretta pianificazione de collaudi, la vulnerabiltà ai “cyberattack” del sistema logistico integrati“. (fonte AnalisiDifesa.it)
Intanto, il futuro ‘civile’ di Alenia Aermacchi, il Superjet 100, è al 49% della Sukhoi, che ne gestisce anche la commercializzazione in Europa. Dulcis in fundo, i piani alti di Finmeccanica sono scossi da scandali che raccontano di tangenti, commesse sporche e leader di partito.

Restando all’aereonuatica, abbiamo di recente scoperto che il Commissario europeo alla Concorrenza ha aperto un numero impressionante di procedure contro aeroporti di piccole e medie dimensioni per finanziamenti illeciti alle compagnie aeree, che non pochi aeroporti italiani che non sono in grado di sostenersi senza aiuti pubblici, che si prospettano “tagli ben più drastici di quelli proposti dal piano elaborato dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, mettendo a repentaglio persino aeroporti centrali come Genova, Bologna, Firenze o secondari come Ciampino” (fonte Gazzettino.it).

Intanto, giorni prima, Alitalia annunciava 690 esuberi a fronte di diverse centinaia di milioni di perdite ed un magistrato la condannava per ‘monopolio sulla tratta Roma-Milano”, ordinando di “liberare entro il 28 ottobre gli slot necessari all’ingresso sul mercato di un altro competitor.”

Ricordiamo che l’INAIL racconti di “cantieri navali senza più ordini, di fatturato dimezzato sul pre-crisi dei posti barca, di porti deserti” o che Tassinari, presidente di Coop Italia annunci che “la grande distribuzione soffre per la caduta dei consumi provocata dalla crisi. Ci aspettiamo, per la prima volta dopo 20 anni, non solo la chiusura di punti di vendita, ma la cessione di rami d’azienda e purtroppo anche la chiusura di imprese distributive“. Mettiamo in conto anche che a Torino si fanno le Jeep ed a Pomigliano ‘solo la Panda’, che ILVA Taranto è affogata nell’inquinamento, che da alcuni mesi Parmalat fa parte del gruppo francese Lactalis, che ne ha acquisito l’83,3%, ed andiamo alla sostanza: le Banche.

Di Unicredit si legge, in questi giorni, di “voci che corrono sul taglio di 35mila bancari, ma secondo l’Abi di Mussari non sarebbero più di 25mila” (Dagospia), che “il consiglio ha anche cooptato Mohamed Ali Al Fahim quale consigliere. Mohamed Ali Al Fahim è attualmente responsabile della Divisione Finance dell’International Petroleum Investment Company, società di investimenti interamente detenuta dal governo di Abu Dhabi e controllante di Aabar, uno dei maggiori azionisti di Unicredit” (Milano Finanza), riguardo lo “scorporo della banca italiana dalla holding, l’ad Ghizzoni spiega che per ora e’ un tema che non e’ in agenda” (Borsaitaliana.it).

Una settimana fa,  Moody’s declassava la gloriosa Monte Paschi di Siena a livello ‘trash’, con un downgrade a «Ba2» da «Baa3», nonostante il ‘dono’  – è proprio il caso di dirlo – fatto dal governo Monti per 1 miliardo e mezzo di euro, tagliati a pensionati, scolari e malati.
Una situazione che richiedeva cautela, se parliamo di soldi pubblici, visto che, nonostante un ‘provvidenziale’ accordo tra MPS e CartaSì – siglato pochi giorni prima del report di Moody’s, “il primo in Italia di questo genere” – consentiva “all’istituto senese di diventare il quarto operatore per numero di carte emesse (circa 3,3 milioni) sul mercato nazionale” (fonte MPS), l’agenzia di rating ritiene «che ci siano probabilità reali che la banca abbia bisogno di ulteriore aiuto esterno nell’arco dell’orizzonte del rating. Come gli stress test dell’European Banking Authority (EBA) e della Banca d’Italia hanno mostrato, Mps non è stata in grado di aumentare la propria base di capitale ai livelli richiesti».

A cosa si riferiva, allora Mario Monti con ‘abbiamo mantenuto la sovranità’? Quali informazioni lo inducono a promettere che «pochi mesi, spero pochi, che ci mancheranno all’emergere chiaro di segni di ripresa»?

originale postato su demata

Tripoli è caduta: ministoria di un’insurrezione

23 Ago

Tutto iniziava il 17 febbraio 2011, il Giorno dell’Ira.

Migliaia di manifestanti scendevano in strada nelle città della Cirenaica, il regime uccide 6 persone e ferisce decine di manifestanti.

Dopo giorni di manifestazioni e dure repressioni, Bengasi e la Cirenaica insorgono il 23 febbraio . Migliaia di morti e massicce defezioni dei soldati del despota. Inizia la rivolta.

23 febbraio 2011 Un aereo con Aisha Gheddafi a bordo chiede di atterrare a Malta, ma il permesso viene negato. I media avanzano sospetti che il Colonnello stia trasferendo ed occultando capitali all’estero.

19 marzo Dopo un mese di stragi e pulizie etniche del regime, l’Aereonautica francese attacca le forze di Gheddafi in applicazione del mandato ONU.

20 marzo Alla missione si uniscono, progressivamente, gli USA, la Gran Bretagna, la Germania ed alcuni paesi della Lega Araba. L’Italia resta ai margini delle operazioni a causa dell’ambiguità delle sue relazioni con il tiranno.

26 marzo I ribelli riconquistano Brega e Ajdabija, puntando verso Ras Lanuf: inizia la ritirata dei lealisti.

11 aprile Inizia a formarsi un governo provvisorio libico e vengono fornite ampie rassicurazioni riguardo i contratti petroliferi siglati dal regime.

23 aprile Viene liberata Misurata, dopo oltre due mesi di assedi e di bombardamenti da parte dei lealisti di Gheddafi. Viene anche liberato il rimorchiatore italiano, Asso 22, rimasto bloccato lì.

30 aprile Iniziano gli attacchi missilistici al bunker del tiranno e muoiono uno dei figli dei tiranni ed alcuni nipoti. Gheddafi chiede, senza successo, di fermare i bombardamenti USA.

16 maggio Il procuratore Luis Moreno-Ocampo chiede l’emissione di mandati di cattura internazionali contro Gheddafi, il figlio Seif al Islam e il direttore dei servizi segreti libici Abdallah al Senussi.

26 giugno La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja emette mandato d’arresto contro il Colonnello Gheddafi per crimini contro l’umanità insieme al figlio primogenito ed al capo dei servizi di intelligence.

22 agosto 2011 Gli insorti entrano a Tripoli ed inizia l’assedio al bunker del tiranno.

Questi i post passati che si sono occupati del Colonnello Gheddafi:

04-mar-10 Lo stile inconfondibile della Famiglia Gheddafi
04-mar-10 Gheddafi e l’embargo alla Svizzera: dopo il petrolio tocca ai datteri
16-giu-10 Il denaro che puzza
31-ago-10 Gheddafi, dall’Europa un silenzio di tomba
21-feb-11 Gheddafi e l’amico Berlusconi
23-feb-11 Libia, scoperti corpi bruciati (video)
24-feb-11 Massacri libici, affari italiani
23-mar-11 Libia, petrolio e guerra
04-apr-11 Non solo Libia
26-apr-11 Italia in guerra senza Bossi e Bersani?
11-apr-11 Libia, chi sono gli insorti
30-mag-11 Perché Al Qaeda attacca l’Italia?

Italia in guerra senza Bossi e Bersani?

26 Apr

Sì ad «azioni aeree mirate» italiane in Libia. Questa la brief note con cui il Governo ha annunciato l’entrata in guerra dell’Italia.

Una decisione, come conferma il ministro degli Esteri Franco Frattini, che che poteva attuata ben quindici giorni fa, visti i toni tenuti dal rappresentante del governo provvisorio Jalil, in visita a Roma.
“Voi vi siete fatti ingannare dalla retorica di Gheddafi, ma noi che siamo i libici di Bengasi, i libici che dovrebbero odiare di più gli italiani, riconosciamo che voi non ci avete solo colonizzato: avete costruito il nostro Paese. E’ per questo ha continuato – che abbiamo bisogno di voi, proprio di voi, adesso: aiutateci.”
Un accorato appello, al quale Silvio Berlusconi aveva pubblicamente risposto, pochi giorni dopo, che “considerata la nostra posizione geografica ed il nostro passato coloniale, non sarebbe comprensibile un maggior impegno militare.”

Una mossa, imposta da Obama a nome evidentemente del Consiglio NATO, che potrebbe, almeno, riqualificare l’immagine italiana dall’imbarazzante amicizia di Gheddafi con Berlusconi, il quale, per l’appunto, si dichiara imbarazzato.

Una ripresa “obbligata” della politica italiana nel Mediterraneo, dopo 150 anni di stasi, che  riporterebbe le regioni ed i porti del Sud agli antichi fasti, con prevedibili ricadute (negative?) per le regioni padane e quelle “rosse”.

Infatti, se Calderoli annuncia un “Non con il mio voto”, aprendo un’ulteriore frattura nel governo, dalla riva opposta arriva un durissimo il comunicato di Emergency.
“Il governo italiano continua a delinquere contro la Costituzione e sceglie la data del 25 aprile per precipitare il Paese in una nuova spirale di violenza. Le bombe non sono uno strumento per proteggere i civili: infatti non sono servite a proteggere la popolazione di Misurata. La città di Misurata, assediata e bombardata da oltre due mesi, nelle ultime 24 ore ha vissuto sotto pesantissimi attacchi che hanno raso al suolo quartieri densamente popolati, anche per l’impiego di missili balistici a medio raggio”.
Intanto, il ministro della Difesa Ignazio La Russa precisa che  “non si tratterà di bombardamenti indiscriminati ma di missioni con missili di precisione su obiettivi specifici” per “evitare ogni rischio di colpire la popolazione civile”.
E Frattini conferma: «Bombarderemo obiettivi mirati, per esempio batterie anticarro, carrarmati, depositi di munizioni. Obiettivi pianificati dalla Nato, che ce li indicherà di volta in volta».

Quanto al popolo padano, Berlusconi rassicura (secondo lui) che “non occorre un nuovo voto del Parlamento, dunque non ci sarà nessuna spaccatura tra noi e la Lega come spera l’opposizione”.

L’opposizione?  Tace, imbarazzatamente tace, trincerandosi dietro “i limiti posti dalla risoluzione Onu”, come se non ci siano un popolo insorto, un dittatore efferato e tremila anni di storia comune.

Intanto, a Misurata l’assedio, la fame, la sete, le morti innocenti continuano.

Non solo Libia

4 Apr

Ho scritto della crisi libica mentre accadevano i primi eventi e l’impressione è che il fenomeno in atto sia molto più ampio della sola Libia o del Nordafrica.

Come non notare che, dopo la Siria,  solo Palestina-Israele manca all’appello del “Day of rage” e che, se non avverrà, potrebbe solo significare che Hamas è ovunque e che la repressione israeliana soffoca anche i laici palestinesi.

Oppure, come non rendersi conto che il disastro nucleare di Fukushima e l’intensità di certi eventi naturali mettono in crisi sia una certa visione dello sviluppo futuro delle nostre infrastrutture ed attivano un’ancor più spietata ricerca di risorse energetiche e minerarie.

Tornando ai crucci italiani sulla Libia, esistono dei “quid” che sono del tutto disattesi dall’informazione italiana, vuoi per interessi di bottega, vuoi per formazione risorgimentale, vuoi per appartenenza militante.

Questioni, tutte squisitamente politiche ed economiche, che sottendono ai quesiti ondivaghi con cui la pubblica opinione sta lentamente e confusamente apprendendo riguardo gli eventi molto variegati e le (poco) diverse posizioni.

Ad esempio, in uno scenario di superamento degli accordi coloniali del 1884, quale può essere mai il ruolo e le garanzie dell’Italia verso i paesi emergenti se lo stesso Meridione viene tenuto nel degrado con l’aiuto delle mafie?

Oppure, quale politica possiamo mai sostenere nel Mediterraneo, se tutto è deciso a Roma (che ha ormai accettato i “patti di Yalta” tra Saladino e Federico ai tempi delle Crociate) ed a Milano, che è più svizzera che penisola? Sarà un caso che il comando NATO sta proprio a Napoli?

Come rispettare la convenzione di Ginevra per i profughi, se negammo l’asilo persino ai fiumani, oppure garantire la firma delle Carte dei diritti ONU, se 4 milioni di italiani devono ricorrere ai banchi alimentari con la spesa pubblica che abbiamo?

E’ anche da quesiti come questi, che gli altri si pongono e noi no, che nasce la marginalità italiana nel contesto africano e mediorientale.

leggi anche Libia petrolio e guerra

con le mappe petrolifere

e Massacri libici, affari italiani

con i dettagli sulle nostre aziende

Libia, petrolio e guerra

23 Mar

La Libia possiede circa il 3,5% delle riserve mondiali di petrolio, più del doppio di quelle degli Stati Uniti e, con 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, (10 volte quelli d’Egitto), supera la Nigeria e l’Algeria (Oil and Gas Journal). Al contrario, le riserve accertate di petrolio degli Stati Uniti sono dell’ordine di 20,6 miliardi di barili (dicembre 2008) secondo la Energy Information Administration. (fonte CoTo)

Le sue riserve di gas a 1.500 miliardi di metri cubi, ma la sua produzione è stata tra 1,3 e 1,7 milioni di barili al giorno, ben al di sotto della capacità produttiva secondo i dati della National Oil Corporation (NOC) l’obiettivo a lungo termine è di tre milioni di b / g ed una produzione di gas di 2.600 milioni di piedi cubi al giorno.

E’ evidente che una invasione della Libia, anche se nel quadro di un mandato umanitario, servirebbe anche gli interessi delle imprese petrolifere angloamericane, come l’invasione del 2003 e l’occupazione dell’Iraq, in modo da prendere possesso delle riserve di petrolio della Libia e privatizzare l’industria petrolifera del paese. Wall Street, i giganti petroliferi anglo-americani, i produttori di armi USA-UE ne sarebbero soli beneficiari.

 

Tra l’altro, mentre il valore di mercato del petrolio greggio è attualmente ben al di sopra dei 100 dollari al barile, il costo estrattivo del petrolio libico è estremamente basso, a partire da 1,00 dollari al barile: a 110 dollari sul mercato mondiale, la semplice matematica dà la Libia un margine di profitto 109 $ per barile” … (fonte EnergyandCapital.com 12 Marzo 2008)

 

Non sorprenderà sapere che, da qualche tempo, anche  la Cina sta giocando un ruolo centrale nel settore petrolifero libico e non a caso la China National Petroleum Corp (CNPC) ha dovuto rimpatriare dalla Libia ben 30.000 cinesi. L’unico dato certo è che l’11% delle esportazioni di petrolio libico vengono incanalate verso la Cina, ma non ci sono dati sulla dimensione e l’importanza, certamente notevole,  della produzione cinese in Libia e delle trivellazioni.

La campagna militare contro la Libia è , evidentemente, volta ad escludere la Cina dal Nord Africa, che ha interessi petroliferi anche in Ciad e Sudan.

Importante è il ruolo d’Italia, dato che ENI, il consorzio petrolifero italiano, tratta 244 mila barili di gas e petrolio, che rappresentano quasi il 25 per cento delle esportazioni totali della Libia. (fonte SKY News UK), come quello tedesco che, nel novembre 2010, ha firmato tramite la compagnia petrolifera nazionale, la RW Dia,  un accordo settennale con la National Oil Corporation (NOC) libica di entità paragonabile a quelli italiani e cinesi.

 

L’operazione militare in corso ha come scopo “a lungo termine” di ristabilire l’egemonia anglo-statunitense nel Nord Africa, una regione storicamente dominata da Francia e in misura minore, da Italia e Spagna.

Per quanto riguarda la Tunisia, il Marocco e l’Algeria, il disegno di Washington potrebbe essere quello di indebolire i legami politici di questi paesi verso la Francia e spingere per l’installazione di nuovi regimi politici che hanno un rapporto stretto con gli Stati Uniti con esclusione della Cina dalla regione. I precedenti sono noti e disastrosi: parliamo dell’Indocina-Vietnam e  delle guerre dei soldati-bambino dell’Africa equatoriale.

La Libia, inoltre, confina con molti paesi che sono sfera d’influenza della Francia tra cui Algeria, Tunisia, Niger e Ciad. Exxon, Mobil e Chevron hanno interessi nel sud del Ciad, tra cui un progetto di gasdotto che arriverà fino alla regione sudanese del Darfur, ricco di petrolio, ma anche la China National Petroleum Corp (CNPC) ha firmato un accordo di vasta portata con il governo del Ciad nel 2007.

Sempre ai confini della Libia c’è il Niger che possiede ingenti riserve di uranio, attualmente controllate dal gruppo francese Areva nucleare, precedentemente conosciuto come Cogema ed anche la Cina ha una partecipazione nell’estrazione di uranio del Niger.

Dunque, il confine meridionale della Libia è strategico per gli Stati Uniti nel suo tentativo di estendere la sua sfera di influenza in Africa francofona, una regione che faceva parte degli imperi coloniali Francia e Belgio, i cui confini sono stati stabiliti dalla Conferenza di Berlino del 1884, in cui gli USA ebbero un ruolo minore.

 

Inoltre, l’Unione europea è fortemente dipendente dal flusso di petrolio libico, di cui ben l’85% viene venduto a paesi europei e, principalmente Italia e Germania attraverso il gasdotto Greenstream nel Mediterraneo.

Dunque, l’operazione statunitense ha  anche un impatto diretto sul rapporto tra Stati Uniti e l’Unione europea: considerato che gli USA e la NATO sono coinvolti in tre distinti teatri di guerra (Palestina-Libano, Afghanistan-Pakistan, Iraq-Curdistan), un attacco contro la Libia comporta il rischio di escalation militare.

Infatti, dal punto di vista di Obama e del suo staff, l’attacco in Libia non sembra essere altro che un ulteriore “teatro bellico”, nella logica del Pentagono di “multiple simultaneous theater wars”, che gli USA ritengono necessarie, come affermava il documento PNAC del 2001, dove venivano definite le strategie statunitensi nel medio periodo.

Intanto, mentre i caccia francesi difendono insorti, pozzi di petrolio e, probabilmente, la pace nel Mediterraneo, i Tornado italiani si alzano in volo, consumano un tot di carburante, monitorano dei radar che non ci sono e tornano a casa … questa è tutta la politica dell’Italia nel Mediterraneo.

Anche questi sono i frutti di uno scandaloso premier, del suo governo “de poche” e della “politica del fare” (ndr. poco e male) della Lega.

(leggi anche “Chi sono gli insorti

“Non solo Libia” “La guerra ingiusta”

e “Massacri libici, affari italiani”)

L’Italia e la guerra “ingiusta”

21 Mar

Neanche sono iniziate le azioni militari vere e proprie e già un bel po’ di italiani, tra berluscones, leghisti e sinistre, si lagnano della  guerra,  evidentemente “ingiusta” per definizione.

A quanto pare, questi italiani ed i loro cronisti hanno già dimenticato i bombardamenti sui civili, le sparatorie sui funerali, i rifugiati abbandonati a morire nel deserto, i campi di concentramento, le violazioni dei diritti umani.

Eppure, è da quando il “Capellone” ha preso il potere che accade tutto questo in Libia:  non è cronaca solo di questi giorni.

Allo stesso modo, cronisti e cittadini, trascurano l’elemento essenziale di questa vicenda: l’Italia, appoggiando spudoratamente un cotal energumeno, “ha perso” la Libia come “si giocò” la Somalia.

A questo porta l’avidità dei governi e degli imprenditori, la supinità ed il pressappochismo dei mezzi d’informazione, la faziosità e la creduloneria degli elettori.

Adesso, di fronte le nostre coste, c’è la guerra e siamo comunque coinvolti: non era meglio, non era più “politically correct” non fare affari con un aguzzino e, poi, poter mandare il nostro esercito in aiuto agli insorti libici?

Su quale “guerra ingiusta” lacrimano i nostri salotti buoni?

Eppure, la prima guerra “per il petrolio” fu l’annessione del Regno delle Due Sicilie (1861) da parte dei Savoia, con l’appoggio britannico e statunitense, che “liberò” il Mediterraneo dalla potenza navale italiana (ndr. borbonica). A seguire, il canale di Suez (1869), l’occupazione inglese dell’Egitto (1882), le rivolte fomentate da Lawrence d’Arabia (1916), le rivolte antiottomane e l’autodeterminazione del popolo arabo finita come sappiamo.

Di quale “guerra ingiusta” vogliamo parlare? E, soprattutto, di quale politica italiana nel Mare Mediterraneo?

… i peccati originali non possono scomparire con un colpo di spugna.

Massacri libici, affari italiani

24 Feb

La legge 185 del 1990 sulle esportazioni di armamenti chiede di accertare il “rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale” e di rifiutare le esportazione di armamenti “qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna”.
“Da quando nel 2004 l’Unione europea ha revocato l’embargo totale alla Libia, le esportazioni di armamenti italiani al regime del colonnello Gheddafi hanno visto un crescendo impressionante: si è passati dai poco meno di 15 milioni di euro del 2006 ai quasi 112 milioni di euro del 2009 (+746%). (Giorgio Beretta, presidente Unimondo)

Secondo i rapporti dell’Unione europea sulle esportazioni di materiali e sistemi militari, nel biennio 2008-2009, l’Italia avrebbe autorizzato forniture italiane di armamenti alla Libia per oltre 205 milioni di euro, pari ad un terzo (34,5%) di tutte le spedizioni di armi dall’Ue (circa 595 milioni di euro).
Va chiarito che, mentre l’Unione Europea, sotto la spinta dell’iniziativa unilaterale di Berlusconi, riconosceva alla Libia una certa “democraticità”, gli Stati Uniti e le ONG indipendenti riportavano l’uso della tortura, gli arresti indiscriminati, le sparizioni.
Come va chiarito che “le autorizzazioni all’esportazione di armamenti italiani nel 2008 hanno superato i 3 miliardi di euro con un incremento che sfiora il 29% rispetto al 2007 mentre le consegne effettuate raggiungono gli 1,8 miliardi di euro. A cui vanno aggiunti i quasi 2,7 miliardi di euro di autorizzazioni relative a Programmi Intergovernativi”. (fonte: Presidenza del Consiglio – Unimondo)
Il traffico legale di armi a favore di Gheddafi si è incrementato notevolmente con il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia, firmato a Bengasi nell’agosto del 2008 dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e da Muhammar Gheddafi.
Il trattato prevede “un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari” e “collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate”.
Una norma sciagurata: ricordiamo tutti il caso del motopeschereccio inseguito e mitragliato da una unità libica con a bordo personale italiano.

Secondo Unimondo, l’Italia non avrebbe ancora revocato la fornitura di armi alla Libia, a a causa dell’esposizione di industrie militari italiane, “a cominciare dalle controllate di Finmeccanica”, come Agusta Westland, Alenia Aermacchi e Mbda.
Esattamente gli strumenti di morte con cui Gheddafi si tiene aggrappato al suo miserrimo trono bombardando interi quartieri e cittadine.

Secondo la rivista Popoli, mensile dei Gesuiti, “Finmeccanica, la holding pubblica italiana che vanta tra le sue società alcuni dei principali produttori di armamenti al mondo, è stata una delle prime aziende a sfruttare quest’occasione. Il primo colpo l’ha messo a segno già nel 2006 firmando la vendita di dieci elicotteri A-109E Power per un ammontare di 80 milioni di euro.” e le controllate di Finmeccanica in Libia avrebbero venduto, negli ultimi tre anni, “elicotteri militari, aerei, dispositivi per l’ammodernamento di aeromobili, ricambi, servizi di addestramento e missili.”

Finmeccanica è partecipata al 32,5% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ovvero da Tremonti, mentre la Lybian Investment Authority ne detiene una quota il 2,01%, “quota che permetterebbe a Gheddafi di eleggere fino a quattro delegati” nel CdA.

Come dimenticare il benefattore (dalle mani che grondano sangue) che in questi 3 anni ha riversato miliardi di euro nelle casse pubbliche e private italiane (fonte Sole24ore), attenuando la percezione di una crisi , di un’inerzia e di un declino, che potebbero rivelarsi ancor più gravi, se cesserà, come sembra,  il flusso di denaro libico?

Perchè annunciare la sospensione o, meglio, l’annullamento dei rifornimenti di armi a Gheddafi, se questo poi andrebbe a provocare “ipso facto” perdite aziendali, che per Finmeccanica e non solo significano minori entrate e maggiori spese per lo Stato Italiano?
Meglio attendere qualche mese, mentre il mercato si riassesta ed iscrivere le cifre in rosso nei bilanci dopo la vendita dei BOT, dopo le Amministrative, dopo i rating di primavera, dopo il referendum sulle risorse naturali e, con un pizzico di fortuna, dopo l’estate, perchè no.

Anche questa è “politica del fare”.