La Costituzione prevede rapporti etico-sociali intrinsechi (diritti-doveri) riguardo famiglia, salute e istruzione (artt. 29-34), ma non la casa.
La ‘casa’ (e il presuntivo diritto alla stessa) rientra tra i rapporti economici (artt. 35-47) che prevedono che:
– la proprietà privata assolve ad una “funzione sociale”, va tutelata da concentrazioni o monopoli (accessibile a tutti) e può essere “salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale” e … non per “diritto soggettivo” o “interesse legittimo”
– infatti la Repubblica italiana “favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”.
Le note e ripetute sentenze ‘anti-sfratto’ della Consulta risalgono a 20 anni fa e con sentenze 310/03 e 155/04 la Corte ha dichiarato giustificato il blocco degli sfratti solo se di carattere transitorio e per “esigenze di approntamento delle misure atte ad incrementare la disponibilità di edilizia abitativa per i meno abbienti in situazioni di particolari difficoltà”.
Dunque, secondo l’Alta Corte deve esserci una disponibilità di edilizia abitativa assistenziale solo per i meno abbienti che siano anche in situazioni di particolari difficoltà.
Questa è la Costituzione italiana, quella che all’articolo 7 concede alla Chiesa indipendenza e sovranità, ma solo ‘nel proprio ordine’.
Come si applica?
Uno dei parametri è lo stato di povertà.
In Italia, lo stato di povertà relativa per una famiglia composta da
- due persone = reddito medio mensile inferiore alla soglia di circa 1.100 euro mensili (circa 12mila annui)
- una persona = reddito medio inferiore a circa 600 euro al mese
- coppia con un figlio a carico ) reddito limite inferiore a circa 1.400 euro mensili (circa 16mila euro annui).
Quando il ‘reddito’ è notevolmente inferiore a quelle soglie, c’è da tenere conto che le famiglie sono del tutto esenti da ticket o tributi per prestazioni scolastiche, sanitarie, talvolta i mezzi di trasporto e, soprattutto, hanno diritto ad un punteggio maggiore nelle graduatorie finali per l’assegnazione delle case popolari, specie se vivono in “ricoveri provvisori” o in “abitazioni prive di servizi igienici” … cioè proprio quelle da loro occupate a cui viene negato l’allacciamento.
Ma quanti sono?
Nel 2017 Istat stimava circa 1 milione e 800mila famiglie residenti, cioè 5 milioni di individui sotto il “livello di vita minimo accettabile”, cioè in povertà assoluta, ma i dati di tutti coloro in povertà relativa (che di norma include quella assoluta) consistevano in un totale di circa 3 milioni di famiglie residenti, cioè 9 milioni di individui che sono in “difficoltà nel reperire i beni e servizi”.
I dati confermano anche che la povertà è molto più diffusa (>10%) se l’istruzione del genitore è al massimo la licenza elementare e/o se sono stranieri (minore retribuzione e maggiore sottosoccupazione), come anche cresce se la famiglia è include anche tre o più figli minori e se vive in un’area metropolitana.
Dunque, se c’è da amministrare una città come Roma, con 2,9 milioni di residenti e circa 1,3 milioni di famiglie, di cui una certa percentuale è con un basso livello di istruzione del ‘capofamiglia’, c’è poco da fare: servono non meno di 100mila alloggi popolari, forse anche 150mila … naturalmente a carico non della città, già povera di suo, ma della nazione. Soluzione, però, impossibile perchè nessuna città sopravvive se ha un residente povero ogni tre cittadini …
L’unica alternativa è aumentare rapidamente il livello di formazione tecnica-professionale generale della popolazione e aggiornare la pubblica amministrazione in modo da renderla efficiente e da attrarre investimenti tecnologici e turistici.
Ci si poteva pensare già 10-15 anni fa.
Demata
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