Iniziamo col dirci che la Sanità pubblica italiana è tutta una questione di benzina, nel senso letterale della parola.
Percorrendo 15.000 km l’anno al consumo di 10 km per litro, un automobilista consuma 1.500 litri di carburante e versa € 1.092,60 di accise benzina (0,7284 € x litro).
Inoltre, lo stesso automobilista versa circa 400 euro l’anno per l’Iva al 22% (~ 27 cent. x litro).
In totale, sono circa 1.500 Euro l’anno che vanno dritti dritti per pagare il Servizio Sanitario Regionale, la così detta Sanità Pubblica.
In totale stiamo parlando di quasi 45 miliardi di euro annui che gli altri stati usano per la sicurezza delle strade e del territorio e per i servizi sociosanitari locali.
E non bastano. Infatti, ogni anno dalla quota Iva che va a Regioni e Comuni vengono impegnati un’altra quindicina di miliardi di euro, che altrove diventano – invece – sostegno alle imprese, allo sviluppo e alla cultura.
Un sistema di finanziamento inaccettabile, se ricordiamo che parliamo anche delle aborrite accise, balzelli medioevali giustificati solo dal carattere d’urgenza e temporaneità.
Una previsione di bilancio puntualmente improbabile, dato che si fonda sui consumi di carburanti che da Kyoto in poi vanno a limitarsi (-5% in un anno).
Iniqua, dato che un servizio ‘universale’ a ben vedere lo pagano i soliti noti (gli ‘utenti’), che … più sono tenuti in colonna a passo d’uomo e più versano all’erario per la Sanità Pubblica.
Ma non finisce qui, perchè i paradossi vanno ben oltre.
Il primo è che la Costituzione prevede che i lavoratori siano assicurati per la malattia (art. 38) e che è dal 1974 che dette ‘assicurazioni’ sono affidate provvisoriamente alle Regioni. Essendo trascorsi quasi 50 anni, vorremmo capire, fosse solo perchè ormai è materia storica.
Il secondo è che un automobilista con molto meno di 1.500 euro l’anno può permettersi una buona copertura assicurativa per malattia, infortuni, chirurgia e assistenza domiciliare per se e, con tot euro extra, per tutta la propria famiglia.
Il terzo è che gran parte di questi soldi finiscono alle Facoltà Mediche, mentre altrove sono Fondazioni a gestire i servizi ospedalieri. La principale differenza è che le prime investono in nuovi posti di lavoro, le seconde in infrastrutture e attrezzature.
Tanto per far un esempio, i sessantamila residenti fissi di Ischia contribuiscono al Servizio Sanitario Regionale molto di più di chi abita al centro di Napoli, sia perchè il costo (e l’iva) dei beni s’impenna per via del trasporto in mare sia perchè vi è un maggior consumo di carburanti rispetto a chi ha 3 metro e 5 bus sotto casa. Eppure gli ischitani non hanno i servizi sanitari di Napoli e neanche quelli di Campobasso, senza parlare del fatto che non pochi sono assicurati privatamente, visto che per curarsi spesso devono viaggiare.
Andando dalle entrate alla spesa, cioè alla Politica, le accise carburanti – nella maggior parte – servono coprire la spesa data dagli stipendi medio-alti del personale sanitario pubblico. Ed almeno un terzo dell’Iva che versiamo finisce nel calderone dell’Assistenza sociosanitaria regionale, che spesso deve attendere le donazioni per dotarsi di attrezzature più moderne.
Wikispesa offre un quadro abbastanza dettagliato della bizzarria con cui vengono spesi i nostri soldi.
“I costi per la pulizia dell’ospedale Cardarelli di Napoli erano più del doppio rispetto a quelli emiliani del Sant’Orsola e rappresentano il record a livello nazionale. Al De Lellis di Catanzaro la sola spesa per le utenze telefoniche è il triplo di altri ospedali italiani (2.782 euro contro 910 a posto letto). Tra il Careggi di Firenze e il Niguarda di Milano – a parità di dimensioni – vi è una differenza di dieci volte per quanto riguarda il costo dell’elettricità (6.737 euro contro 604 a posto letto). All’Umberto I di Roma sono necessari più di 500 mila euro per ogni letto utilizzato, mentre al San Matteo di Pavia ne bastano 380 mila.
Per medici e infermieri al San Giovanni/Addolorata di Roma la spesa per posto letto è di 172 mila euro contro i 140 mila di Padova, ma lo stipendio del personale pubblico è uguale in tutt’Italia.”
Dunque, quando si parla di tagli e di privatizzazioni per la Sanità, ci penserei attentamente se fossi un lavoratore o anche semplicemente un automobilista. Anzi, ci penserei comunque.
E se fossi ‘giovane’ non mi sorprenderei a scoprire che fino a qualche anno fa i lavoratori italiani versavano il 9,9% del reddito per l’assicurazione sanitaria e che proprio qualche anno fa, entrando in Europa, ci fu fatto presente che lo Stato (e la Regione) non possono fare gli assicuratori.
Così nacque il dedalo delle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere, il trasferimento del prelievo dai redditi alle imposte e accise, un intero comparto assicurativo finito nelle mani delle giunte regionali, un intero settore professionale ridotto a pubblico impiego.
Quando si parla di tagli e di privatizzazioni per la Sanità pubblica, pensiamoci davvero bene … e diamo un’occhiata a quanto costa e cosa offre una buona assicurazione privata. Magari, scopriamo che ci garantisce anche più democrazia e meno corruzione.
E chi non può permetterselo?
La Costituzione garantisce l’assistenza agli indigenti e agli invalidi. Non sono questi i servizi in discussione, nel caso andassimo a liberalizzare il comparto assicurativo, e non è quel poco che va ai ‘bisognosi’ il carico maggiore tra tutte le tasse che paghiamo.
Demata
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