Jiegu (Cina Popolare), le immagini del New York Times mostrano monaci buddisti in piedi sui resti di una scuola, mentre cercano di spostare lastre di cemento con le mani nude. Tutt'intorno i roghi bruciano per gran parte del giorno, centinaia di persone in lutto si raccolgono sulla collina. Di polizia e funzionari pubblici non se ne vede uno, solo quando qualche grido annuncia che un corpo stato notato tra le macerie, accorrono sotto l'occhio di una videocamera ed estraggono rapidamente il cadavere.
"Siamo qui per salvare vite umane e non vedrete telecamere, mentre stiamo lavorando", ricorda uno dei monaci, Ga Tsai, che con 200 altre persone è partito da un monastero tibetano nella provincia del Sichuan non appena saputo del terremoto, che aveva raso al suolo la città di Jiegu a 3.000 metri sul mare e di prevalente etnia tibetana, uccidendo almeno 1.400 persone.
(visita
la galleria
immagini del NYT)
I media ufficiali diffondono storie di tibetani che esprimono gratitudine per il cibo o le tende, ma nonostante i segnali esteriori di generosità del governo e di unità etnica, il terremoto ha messo in luce le storiche tensioni tra gli irriducibili tibetani ed i cinesi imperialisti.
Il
Dalai Lama, il leader tibetano che non ha mette piede in Cina dal 1959,
ha presentato una richiesta formale per visitare la zona del disastro, che
sarà sicuramente negata, mentre l'UNESCO tace, nonostante nella zona di Jiegu la presenza buddista, oltre che tibetana, sia significativa anche in termini architettonici e culturali.
(passeggiata intorno il Jiana Mani di Jiegu)
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